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STUDI
CRITICA E STORTA LETTERARIA
DI
ALESSANDRO D'ANCONA
PARTE SECONDA
SECONDA EDIZIONE CON CORREZIONI E AGGIUNTE
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BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
MCMXII
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FROPRIETÀ LETTERARIA
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IV.
DEL “ NOVELLINO ,,
E
DELLE SUE FONTI
D'Ancona - IL
The University of Iowa
Libraries
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Pubblicato, per la prima volta, nella Romania, 1873-74, e riprodotto
nel vol. Zanichelli, 1880, p. 217. Ora si ristampa con modifi-
cazioni e giunte.
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Raccogliendo in maggior copia cbe finora da
altri non si facesse, ! notizie riguardanti l’origine
delle varie narrazioni onde si compone l’ antico
libro detto il Novellino, stimo non disutile, anzi
necessario, premettere qualche cenno sul tempo in
che esso dovette esser compilato, e se fu opera di
molti o di un solo, e in tale ultimo caso chi questi
possa essere, riferendo compendiosamente le diverse
opinioni messe fuori da quanti finora ebbero occa-
sione di trattare siffatto argomento. *
I.
E prima d’ogni altra cosa è da sapere come il
Novellino o Libro di Novelle e di bel parlar gen-
tile non sia giunto a noi in una sola ed unica
forma, ma in più e diverse, e come le differenze
fra testo e testo non siano soltanto di frasi e di
parole, nè di maggiore o minor ampiezza del rac-
conto, ma anche talvolta sostanziali e di materia,
trovandosi nell’uno Novelle che all’altro mancano
del tutto. E se pochi anni addietro poteva dirsi,
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4 DEL « NOVELLINO »
che i testi si riducessero a due soli, il Gualteruz-
ziano cioè e il Borghiniano, ora a questi conviene
aggiungerne altri due, che denomineremo Pan-
ciatichiano- Palatino e Marciano.
Il primo di questi quattro testi è rappresentato
dalla stampa fattane dal letterato fanese Carlo
Gualteruzzi, in Bologna nell’ anno 1525, nelle case
di Girolamo Benedetti, ad esortazione di Pietro
Bembo * col titolo: Le Cento Novelle Antike. E
cotesta è anche la prima edizione del nostro libro,
perchè è ormai dimostrato da una Lezione di Vin-
cenzio Follini, 4 che si ingannano a partito coloro
che notano due anteriori edizioni fiorentine del
monastero di Ripoli, datate dal 1482 e ’83, laddove
invece trattasi di una sola, e del Decamerone. E i
nuovi dubbj risollevati in proposito dal prof. Lon-
ghena, © furono di poi appieno dissipati dall’esame
più accurato che Domenico Garbone* ebbe a fare
dell’ esemplare ambrosiano. Medesimamente l’ altra
edizione che volevasi anteriore pur essa alla bolo -
gnese, ” e che sì conservava nella biblioteca dei
Conti di Camposampiero in Padova, meglio esa-
minata risultò essere, non altrimenti che l’esem-
plare ambrosiano, una riproduzione fatta dal Gual-
teruzzi o da altri, ma senza alcuna nota nè di
luogo nè di stampatore nè di anno, della edizione
del 1525 *. Intanto, come non sappiamo per certo
se il manoscritto del quale si valse il Gualteruzzi
era copia di quello del Bembo, così ignoriamo se
il codice fiorentino della Palatina, segnato E, 5,
7, 57 (numerazione vecchia 133,5) e che concorda
mirabilmente colla edizione del Benedetti”, sia
quello al Gualteruzzi .appartenuto: che se non
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E DELLE SUE FONTI 5
fosse, si potrebbe dire che la stampa del 1525
rappresenta tre codici, dei quali due perduti. uno
tuttavia in essere. !°
L’ altra forma del Novellino è quella che tro-
vasi nella edizione giuntina del 1572, curata da
Vincenzio Borghini, e condotta da lui sopra un
testo ch’ egli si affanna a gridare migliore del gual-
teruzziano. Diciassette sono le Novelle !! che man-
cano in questa stampa confrontata coll’antecedente,
e la lezione di tutte è generalmente diversa dalla
gualteruzziana, sia per varietà di testo, sia per
arbitrio dell’ editore. Certo il Borghini parla sempre
di un altro testo, di un nuovo testo venutogli alle
mani; ‘*@ ma non pochi dubitarono che egli, pur
giovandosi in qualche caso di un altro codice con
sole varietà di lezione, ‘* e (probabilmente per paura
dell’ Inquisizione !4) espungendo varie novelle,
queste rispigolasse poi qua e là in altri libri, anche
meno antichi del Novellino gualteruzziano, per
giungere così a rifare il numero delle cento. Ad
ogni modo, un codice che riproduca tal quale non
solo nel dettato, ma anche negli argomenti delle
Novelle 1’ edizione del Borghini, come pur ve n’ ha
tuttavia che riproducono esattamente quella del
Gualteruzzi, a tutt’ oggi non si è trovato. **
Il testo Panciatichiano-Palatino n. 138, !° pri-
mamente scoperto dal prof. Alessandro Wesse-
lofsky, fu da noi che ne avevamo preso copia
della parte inedita, e publicatone qualche saggio, !
indicato all’ ottimo amico ed egregio bibliofilo
Giovanni Papanti. Egli ne trasse ventitrè narra-
zioni, delle più che cento che il codice contiene,
dando naturalmente la preferenza alle Novelle di
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6 DEL « NOVELLINO »
lezione molto diversa dalla vulgata o nuove del
tutto, e formandone così una bene accetta aggiunta
al suo Catalogo dei Novellieri Italiani. ?*
Finalmente va anche ricordato il codice Mar-
ciano (cl. VI, n. CCXI,, già posseduto da Jacopo
Morelli e trascritto nel sedicesimo secolo, dal quale
il sig. Andrea Tessier, trasse fuori e pubblicò per
occasione di nozze, ?!° alcune Novellette inedite.
Secondo l’ accurato bibliofilo veneziano la lezione
di questo codice supererebbe in bontà non solo la
stampa borghiniana, ma anche la gualteruzziana :
del qual giudizio lasciamo a lui intero il carico.
Noi non possiamo discorrerne se non per remini-
scenze di una rapida ispezione, dalla quale rile-
vammo che questo codice conserva il numero del
cento, nè differisce dal testo gualteruzziano se
| non per lievi varietà di lezione. E quanto alle
Novelle di altro argomento, questo è da notarsi,
che le rubriche rimangono sempre le stesse, se
anche varia il racconto. Così il piovano Porcellino
e madonna Agnesina restano protagonisti delle
Novelle LIV e LVII, quantunque si racconti di
loro altra cosa che nel testo gualteruzziano : mede-
simamente la Nov. LXXXVII ha sempre l’inti-
tolazione d’ uno che si andò a confessare; ma
l’ avventura narrata è diversa. Ma e di questo, e
dell’intero panciatichiano-palatino potremo meglio
giudicare quando si metterà in atto il disegno,
più volte annunziato, di riprodurre il Novellino
secondo le varie lezioni offerteci dai codici che ne
sono sparsi per le biblioteche. ?*°
Aspettando dunque maggiori e più minute no-
tizie da accurati raffronti dei codici, ? noi opine-
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E DELLE SUE FONTI 7
remmo intanto, che il testo gualteruzziano e i codici
marciano e panciatichiano-palatino sieno di più
‘ remota antichità, * e che la stampa borghiniana
ci offra dell’ opera una forma apocrifa e posterior-
mente raffazzonata: sicchè la primitiva e genuina
sì contenga in quelli, e propriamente nella stampa
gualteruzziana, piuttosto che nella edizione del
Borghini.
Le prove di questa nostra asserzione facilmente
si traggono anzitutto dal confronto del dettato; e
basta invero paragonare fra loro i luoghi ove la
stampa del Giunti differisce da quella del Bene-
detti e dalla lezione del codice panciatichiano, per
convincersi che la lezione borghiniana è rammo-
dernata. Più difficile può sembrare l’ assegnare
data precisa alle compilazioni che teniamo più
antiche; ma se una più piena ed esatta cognizione
della nostra letteratura del XIII secolo, e insieme
la sana critica non ci permettono di riconoscere
col Gualteruzzi nel Novellino, « la più antica di
tutte le cose in prosa volgare », ? tuttavia noi
opiniamo che indizj certi della età abbastanza
rimota in cui fu scritto si possano desumere dai
personaggi onde si fa in esso menzione, nessuno
dei quali oltrepassa la fine del dugento. Non sarà
forse in vano speso il tempo e lo studio a ricer-
care l’ età probabile nella quale fu posto insieme
un libro, che può dirsi incominciare la lunga e
copiosa serie dei novellieri italiani. *
Prendendo, adunque, l’edizione del Gualte-
ruzzi, troveremo nella Novella XXXV, ricordato
maestro Taddeo; e se questi è, come sembra, il
celebre medico fiorentino, è noto come egli morisse
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8 DEL « NOVELLINO »
nel 1295.* Ma di lui non si parla come di per-
sona defunta, e perciò non è necessario supporre
che la novella sia posteriore all’ anno sopranotato ;
e trattandosi di persona così celebre ai suoi dì,
non parrà impossibile che l’ arguta risposta, poco
dopo essere stata pronunziata, si divulgasse anche
fuori di Bologna, ove Taddeo tenne scuola sino
dal 1260. ?°
La Novella XL ricorda Saladino uomo dî corte;
e se questi è, come congettura il Manni,” una
persona stessa con Saladino di Pavia, avremmo
qui un poeta che allo stile provenzaleggiante delle
sue rime si appalesa del mezzo del secolo decimo-
terzo; il che sarebbeci anche confermato dal notare
che la scena del racconto è in Sicilia, ove con-
correvano, durante il regno degli Svevi, i poeti
che aderivano alla maestà di quei principi ?? e
alla loro forma di poetare.
Nè molto più oltre ci conduce l’altro poeta,
Migliore degli Abati, menzionato nella Novella
LXXX: dappoichè Carlo d’Angiò, presso il quale
è fatto riparare, morì, come è generalmente noto,
nel 1285, ma tenne il reame fino dal 1266.
Nella Novella XLI è menzionato un Messer
Paolo Traversari, che dallo storico ravennate Gero-
lamo Rossi, sulla fede di antichi documenti, è
fatto morire nel 1240, *°
Il Marco Lombardo della Novella XLIV è pro-
babilmente quello stesso uomo di corte introdotto
da Dante nel XVI del Purgatorio, e che in quel
canto, a scapito dei tempi presenti, esalta i pas-
sati, anteriori immediatamente a quelli in che
Federigo ebbe briga fra 1’ Adige e il Po. Sono
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E DELLE SUE FONTI 9
codesti probabilmente i tempi della prima gioventù
di Marco, dei quali egli serbava più bella e cara
memoria; e che ci riconducono verso il 1230. E se
vogliasi in questo Marco Lombardo vedere pure
quello stesso uomo di corte che è nominato dal
Villani, *° come profetante prossima caduta al Conté
Ugolino perchè a lui non mancava se non l'ira di
Dio, senza dire che qui può trattarsi di un aneddoto,
appropriato dalla tradizione a persona celebre, e
fors' anco già morta, converrà sempre risalire
alquanto indietro dall’ anno 1288 in cui il fatto
è narrato; poichè il cronista riferisce la risposta
di Marco, come fatta un poco innanzi: e in niun
tempo cadrebbe meglio che tra 1’ 82 e 1’ 84, quando
veramente la potenza di Ugolino fu al colmo.
Nel XIV del Purgatorio sono pur anche ricor-
dati Lizio da Valbona e Rinieri da Calboli, che
danno argomento alla Novella XLVII; ed è noto
che ambedue sono citati dal poeta a testimonio
della cortesia e dei bei costumi che regnavano in
Romagna circa la metà del dugento. Rinieri fu
ucciso, a dire di Benvenuto da Imola, nel 1295,
e forse è quello stesso che fu potestà di Parma
nel ’62, 31
Di due vescovi troviamo fatto menzione; del-
l'uno, ed è Aldobrandino, che tenne la sede di
Orvieto dal 1271 al’79, nella Novella XXXIX: *?
di Mangiadore, * vescovo di Firenze dal 1251 al
"74, nella Novella LIV. 34
Altrove, nella Novella LXXXVIII si ricorda un
potestà di Firenze, Castellano de’ Cafferi manto-
vano; e questi fu a tale ufficio condotto, secondo
assevera il Manni, ?° nell’agosto del 1240.
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10 DEL « NOVELLINO »
E del secolo decimoterzo sono pure i prota-
gonisti di altre Novelle: il primo (1121-1190) ed
il secondo Federigo (1194-1250): il Re vecchio
(m. 1189) ed il Re giovane d’ Inghilterra (1156-1183):
Riccardo cuor di Leone (1157-1199), il Saladino
d’ Egitto (1137-93), Ezelino da Romano (1194-
1259), 3° il re Currado (1228-1254), Carlo d’Angiò
(1220-1285). Raimondo di Provenza (1198-1245),
Imberal dal Balzo (m. 1229?),* lo Schiavo di
Bari * ed altri assai.
Nel testo borghiniano troviamo invece altri per-
sonaggi, appartenenti al secolo decimoquarto. Tali
sarebbero, ad esempio, Corso Donati (Nov. XV),
morto ‘nel 1308, e Uguccione della Faggiuola
(Novella XV), morto nel 1319, dei quali le gesta
e la rinomanza spettano più ch’ altro al trecento.
Certo potrebbe opporsi che Corso comincia ad
apparire nelle storie colla battaglia di Campaldino
(1289) e col tumulto contro Giano della Bella (1295),
ma la Novella parrebbe riferirsi al tempo (1300-1)
in che il barone fu in esilio. °° Anche di Uguccione
cominciasi a parlare nello scorcio del dugento : 4°
nel ’92, egli è già potestà in Arezzo, e nel ’97,
capitano generale dei ghibellini di Romagna; ma
nella Novella vediamo Uguccione, non solo padre,
ma énvecchiato, sicchè siam costretti ad assegnarla
al secolo decimoquarto.
Nella stessa Novella XV borghiniana si dice di
un G. da Camino. E qui molto ha almanaccato il
Manni, ‘* trattandosi di designazione fatta colla
sola iniziale, e potendovisi nascondere sotto o
Guecello o Gherardo, od altri ancora della illustre
famiglia. Di Guecelli sembra che se ne abbiano
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E DELLE SUE FONTI 11
due: uno dei quali obît in mense augusti 1272;
ma questo non potrebbe esser il contemporaneo e
l’amico di Corso Donati, come la Novella ce’l
rappresenta. Ei deve esser dunque, o Guecello
figlio di Gherardo e fratello di Madonna Gaia, o
anche Gherardo stesso. Di Guecello abbiamo
memorie posteriori al 1312; * ma poichè il passo
suona a questo modo: Messer G. da Camino poco
innanzi ch'egli morisse avendo dato a Messer Corso
quattromila lib. per aiuto alla sua querra, egli è
chiaro parlarsi qui di Gherardo il buono, vivo
ancora nel 1300, perchè come tale ricordato da
Dante, ‘ e in stato perciò di aiutar Corso, pugnante
per ritornare, come vi riuscì (1301), in patria,
fidandosi ai Neri, a Bonifacio, a Carlo di Valois.
Più sicuri saremmo, seguendo il Manni, ‘* circa
l'età in che visse Ricciardo dei Manfredi della
Novella XVI borghiniana, poichè egli dice che
dagli storici se ne parla come di Signore di Faenza
all'anno 1336. ‘° Ma men certe ci paiono le affer-
mazioni del Manni # circa il Cecchino de’ Bardi
capitano di guerra a S. Miniato (Nov. XVI), che
egli identifica con un Cecco q. Geri de’ Bardi,
nominato in un atto del 1313. E semplici con-
getture diremmo esser quelle dello stesso erudito,
quando ritrova nel Messer Passuolo, pur della
stessa XVI Novella, il Messer Passa del fu Zato
Davanzati, di cui si parla in atti pubblici del 1303.
Con maggiore o minor certezza per gli anni
precisi, ci sembra però che con tutti questi per-
sonaggi delle novelle borghiniane siamo fuori del
secolo decimoterzo, e ai principj, almeno, del
decimoquarto.
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12 DEL « NOVELLINO »
Più lungo discorso richiederebbe il determinare
il tempo e i fatti a cui si riferisce la Novella LXV
del testo borghiniano, nella quale si narra di due
ciechi vissuti a Parigi quando « il re di Francia
avea una guerra col Conte di Fiandra, dove ebbe
tra loro due grandi battaglie di campo, là ove
morirono molti buoni cavalieri, ed altra gente
dall’una parte e dall’ altra, ma le più volte il re
ne ebbe il peggiore »; e tanto pur dice, con poca
varietà di dettato, la XIV panciatichiana nella
stampa del Papanti. ll Manni qui annota che il
fatto avvenne nel 1383, ‘° e rimanda al lib. VIII,
cap. 75, di Giovanni Villani. Vero è che qui àvvi
un errore materiale di stampa, dovendosi invece
di 1383, leggere 1303. Il Lami”° poi, appoggian-
dosi a questa Novella per affermare l’ anteriorità
‘ dell’ Avventuroso Ciciliano di Buson da Gubbio
sul nostro libro, porta una data quasi consimile
a quella del Manni, cioè il 1304, quando terminò
per trattato la guerra in che i Francesi furono
sconfitti a Courtrai, e vincitori a Mons-en-Puelle.
Più oltre andrebbe il Robert, * sostenendo che la
Novella debba esser stata scritta verso il 1328,
dopo la vittoria di Cassel. Ora, poichè la narra-
zione trovasi anche nel testo panciatichiano, che
noi teniamo del secolo decimoterzo, °* è da vedere
se veramente questa narrazione debba riferirsi
invece agli anni del decimoquarto. Noi vorremmo
esser più esperti di storia francese, e poter perciò
con tutta sicurezza affermare una data diversa
dalle sopra citate; ma pur vediamo che nel 1296,
già ferveva aspra lotta tra Filippo il Bello e il
Conte di Fiandra, e neppur ci meraviglieremmo se
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E DELLE SUE FONTI 13
la guerra di che si fa qui menzione fosse quella
che arse nel 1213 tra Filippo Augusto e il conte
Fernando, 5 nè ad essa disconverrebbe quel che
dice la Novella, che cioè le più volte il re n’ ebbe
la peggio, come può dirsi infatti che avvenisse
innanzi la gran vittoria di Bovines. *
Possiamo dunque concludere che nei testi da
noi tenuti per più antichi, niun fatto e niuna per-
sona sono menzionati che oltrepassino il finir del
dugento : laddove invece dell’ età posteriore sono
i fatti e le persone del testo borghiniano. Per ciò,
gli argomenti addotti dal Lami a provare l’ ante-
riorità dell’ Avventuroso Ciciliano, sicchè il Novel-
lino sia « posteriore all’ anno 1311 e 1313, e forse
compilato intorno al 1325 o 1330, 5° » non hanno
molto peso, essendo tutti poggiati sul nominare
che si fa nella XV, Uguccione della Faggiola « che
fiori nel 1313 e seguenti », e nella LXV la surri-
cordata guerra tra Fiandra e Francia. Or queste
Novelle non appartengono al testo gualteruzziano ;
e quanto all’ ultima, comune al borghiniano e al
panciatichiano, abbiam detto che sia da pensarne.
Nè maggior valore ha un altro argomento pro-
posto dal Lami per la Novella della cavalleria del
Saladino (LI borghin.), che trovasi anche nel
romanzo di Messer Bosone da Gubbio. Riferiamo
qui le precise parole dell’ uomo erudito, nella
seconda delle sue Cinque lettere sul Decamerone.
« Il racconto della cavalleria del Saladino, scrive
egli, è copiato colle stesse parole del Romanzo; e
se nel Novellino il nome di chi lo fè cavaliere, e
diè la gotata al Saladino, è Messer Ugo di Tabaria,
è manifesto segno che Bosone non prese quel rac-
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14 DEL « NOVELLINO »
conto dal Novellino, poichè ei lo fa di Messer Ulivo
di Fontana, ed altre cose vi frammischia che nel
Novellino non sono ; e secondo lui, quello che fece
cavaliere il Saladino e che gli diè la gotata, fu
Gian di Berri, e non Messer Ugo di Tabaria.
Imperciocchè chi rubò questa Novella, trasferì a
Messer Ugo di Tabaria, come più alto signore e
più celebre, quello che Bosone dice di Gian di
Berri. Oltre che non è verosimile che uno il quale
compone un lungo romanzo, voglia inserirvi un
pezzo preso tale quale da un altro: ma sembra
più probabile che uno il quale raccoglie fatti spez-
zati, prenda qualche pezzo da un’opera lunga.
Arroge, che la dicitura e lo stile di quel fatto è
in tutto uniforme a quello che lo precede e che lo
seguita in quel Romanzo. Onde non si può dubi-
tare che sia tutta narrativa originale di Bosone ». >“
Or noi diciamo che davvero non riesce molto
facile dal cangiamento dei nomi rinvenire il « mani-
festo segno » che sa scorgervi il Lami dell’ ante-
riorità del romanzo sulla novella: e neanche ci
pare che l’esser in questa appropriato ad Ugo da
Tabaria ciò che Bosone riferisce a Gian di Berri,
abbia sua chiara ragione nell’ esser il primo « più
alto signore e più celebre » del secondo; dap-
poichè, come osservò anche G. F. Nott, editore
dell’ Avventuroso Ciciliano, ®" la differenza non da
altro procede se non dall’ avere l’ autore della
Novella seguîto strettamente il testo francese, dal
quale invece si dilungò il da Gubbio, per accre-
scere le avventure dei cavalieri da lui posti in
scena. E quanto all’ altro argomento, esser cioè
più facile che chi raccoglie fatti spezzati prenda
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E DELLE SUE FONTI 15
qualche episodio da un’ opera lunga, anzichè il
contrario, noi, senza voler discutere la bontà asso-
luta di cotal dottrina, noteremo soltanto pel caso
nostro, come l’Avventuroso Ciciliano sia, a con-
fessione pur anco dell’ editore, °* un intarsio, un
accozzo di fatti diversi e di episodj qua e là rag-
granellati. Nè migliore argomento si potrebbe rica-
vare dall’ esame dello stile : dacchè non è esatto
quanto il Lami asseverò circa l’ identità di forme
fra la novella e il romanzo: i quali invece, fra
loro differiscono, o convengono solo in quanto
derivano ambedue dal primitivo testo francese, °°
Ad ogni modo poi, dacchè la Novella della
cavalleria del Saladino, non trovasi nel testo gual-
teruzziano, a determinare l’ età recente del Novel-
lino non può certo giovare un argomento tratto
da quella compilazione, che provammo seconda in
ordine di tempo.
II.
Quando a determinare l’età del Novellino si
fosse tenuto il metodo che finora abbiamo seguiîto,
curando sempre di distinguere le due principali
lezioni , coloro i quali intorno a questo stesso argo-
mento scrissero finora e disputarono, non sareb-
bero certo stati tanto discordi fra loro, e così nelle
loro sentenze perplessi. Troviamo in fatti, che essi,
presi tutti insieme, alla compilazione di questo
libro assegnano un tempo che va dalla fine del
duodecimo secolo alla metà del decimoquarto,
fissandone alcuni la data al 1193, altri al 1350,
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16 DEL « NOVELLINO »
altri agli anni intermedj, ed i più con linguaggio
sempre titubante: indizio certo di ipotesi pura-
mente cervellotiche, non poggiate sopra alcun
valido argomento di fatto. E invero pel Zannetti, °
e poi per l’editore Torinese, vi ha nel Cento
Novelle un racconto scritto vivente Ezelino da
Romano, ed altro dopo la sua morte, cioè « intorno
alla metà del sec. XIII, poco più, poco meno »:
e « tutta la serie debbe dirsi venuta alla luce dal
1250 al 1300, o in quel torno ». Lionardo Salviati
vuole invece che alcune « nascessero innanzi a
Dante »; altre mostrino « del secol d’oro esser
fattura, e altre giudicar si possano dell’ età del
Boccaccio, e di quelle ve n’ ha che scritte furono
dopo la caduta della favella » : °° il che ci condur-
rebbe fors’ anco più oltre della metà del trecento.
. Pel Lami è dimostrato, qual « legittima conse-
guenza » dei raffronti fatti coll’ Avventuroso Cici-
liano, che « il Novellino è posteriore all’anno 1311
e 1313, e forse compilato intorno al 1325 o 1330;
e quindi si conosce erroneo il sentimento di Lio-
nardo Salviati che pensa poter essere anteriore
al 1300, e del signor Manni che lo crede nato
innanzi sino a Dante Alighieri, vale a dire al 1265,
quando in esso sono tante cose, accadute tutte
posteriormente a questo tempo. Si potrebbe però
forse dire che qualche Novella è più antica del 1300,
per essere stata presa quella della cavalleria del
Saladino dal romanzo di Messer Bosone, e quindi
si verificherebbe che sien più d’ uno gli autori del
Cento Novelle ».°* Ma di ciò che ha qui detto sul
conto di lui il Lami, si difende Domenico Maria
Manni, asserendo che le sue parole furono male
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E DELLE SUE FONTI 17
interpetrate, e ch’ egli mai non disse composto il
Novellino innanzi alla nascita di Dante: ma bensì
aver pensato e scritto « che la maggior parte degli
avvenimenti narrati in quest’ opera erano in iscrit-
tura avanti che posta fosse in carta la Divina
Commedia, la quale il Salviati negli Avvertimenti
crede terminata nel 1321 ».°*
Al Lami che tanto giù scende nei tempi, può
opporsi il Perticari, il quale, con affermazione
come tant’ altre delle sue, vaghissima e non con-
fortata di prove, e per smania di negar ogni gloria
di lingua ai toscani, risale assai addietro, opinando
che « le più antiche di tali novelle fossero scritte
alla corte dei Ciciliani, quando vi furono gittate le
prime fondamenta della lingua illustre, di cui è per-
fetto sinonimo il parlar gentile. »* Mare’ Antonio
Parenti crede invece che parecchie fossero scritte
« sul declinare del dugento, e tutte l’ altre poi più
o men tardi, nel secolo successivo, prima che
fosse pubblicato il Decamerone del Boccaccio ». 5
Molto più oltre va Domenico Carbone volenda
provare che più d’ uno è autore del Novellino, e
che alquante novelle « sono antichissime e furono
scritte sullo scorcio del XII secolo, ed altre per
contrario toccano la fine del trecento ». ©” Ci sia
lecito di fermarci alquanto ad esaminare questa
sentenza di un critico così assennato e così esperto
nelle cose dell’ antica nostra letteratura, tanto più
che egli fa ciò che molti altri non hanno fatto,
cioè vuol sorreggere le sue asserzioni con argo-
menti desunti dalla storia.
Nota adunque il Carbone come nel cod. Lau-
renziano n. 193, dopo le parole: ruppesi la trie-
D’ANncoNA - I_ 9
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18 DEL « NOVELLINO »
gua e ricominciossi la guerra, colle quali finisce
la Novella XXV gualteruzziana, si leggono ancora
queste altre: la quale ancora non ha fine. Ora,
argomenta il Carbone, « le guerre di Saladino
coi Cristiani della terza crociata ferveano ancora
nel 1189, e la novella dovette esser scritta in quel
torno, o ad ogni modo prima della morte del
celebre Soldano, la quale fu nel 1193 ». Ma e’ci
sembra che si voglia così riportare la Novella a
tempi troppo remoti, e nei quali forse nessun altro
monumento troverebbesi di scrittura volgare in
prosa. Or qui è probabile trattarsi di una glossa
introdotta dall’ amanuense, scrivente in tempo nel
quale era guerra fra i Cristiani ed i Saraceni di
Egitto. Non doveva parere al Carbone che, senza
risalire alla fine del XII secolo, coteste parole: la
quale ancora non ha fine, avrebber potuto uscir
dalla penna di chi ricopiasse la Novella verso il 1245,
allorquando San Luigi crociavasi coi suoi cavalieri
contro il Soldano d’ Egitto? Questa nuova guerra,
questa settima crociata non poteva al menante
apparire quasi una continuazione ed un episodio
della lotta incominciata sullo stesso terreno fin
dai tempi del Saladino ? Di più ancora : non poteva
quella glossa esser introdotta nei tempi in cui
Niccolò IV (1289) invano bandiva un’altra volta
la crociata, e già stavan per cadere Tolemaide e
S. Giovanni d’ Acri, ultimi refugj della cristianità
in Oriente, ultimi baluardi del regno franco in
Palestina ?
Andando innanzi, nota il Carbone come la
Novella LX gualteruzziana, parlando di Messer
Alardo concludasi con queste parole: « E fu dili-
Google
E DELLE SUE FONTI 19
berato Messer Alardo di ciò ch’ avea promesso e
rimase con gli altri nobili cavalieri torneando e
facendo arme, sì come la rinomea per lo mondo
8$ corre sovente di grande bontade e d’ oltremara-
vigliose prodezze ». Queste parole certamente non
sono molte chiare: e accordiamo pure al Car-
bone che potessero esser scritte « vivente ancora
il prode connestabile di Sciampagna, e, come si
ritrae da tutto il racconto, certamente dopo il 1265,
quando Carlo d’Angiò era già stato coronato in
Roma re di Sicilia e di Puglia, o forse quando
più la fama delle prodezze di Alardo correva per
il mondo, e perciò verisimilmente verso il 1268,
poco dopo la battaglia di Tagliacozzo, ove senz’arme
vinse il vecchio Alardo ». Ma se la « rinomea
correa » nel 1268, poteva durare anche posterior-
mente, quando, secondo noi, venne composto il
libro: senza che, poi, la sentenza è tanto generica,
che potrebbe pur non riferirsi neanche a Messer
Alardo.
« Finalmente, segue il Carbone, in quella di Mes-
ser Beriuolo cavaliere di corte (LVIII G.) è nomi-
nato Messer Brancadoria, che nel 1308 era anco vivo,
e signoreggiava in Genova con Opicino Spinola ».
Evidentemente qui il Carbone è stato indotto in
errore da Dino Compagni che parlando nella sua
Cronica della entrata di Arrigo VII di Lucemburgo
in Genova nell’ottobre del 1311 scrive, ed è scusa-
bile 1’ errore in un fiorentino, ch’ ei fu ricevuto da
Messer Branca Doria che tenea allora la città, « dal
quale onoratamente fu riceuto e giurò ubidienza ».°
Il vero è che fino dal 1306, erano capitani e
rettori di Genova Opizzino Spinola e Barnaba
Google
30 DEL « NOVELLINO »
Doria, figlio di codesto Branca. E Branca certa-
mente viveva nel 1300, e în corpo parea vivo ancor
di sopra quando Dante ne poneva l’anima nella
ghiacciaia infernale e un diavolo in sua vece avea
preso possesso delle membra di lui: ma proba-
bilmente egli era già vecchio, se sei anni appresso
un suo figliuolo poteva esser capo di parte e ret-
tore della Repubblica, e se nell’ 82 egli aveva com-
prato terre dai Malaspina in Sardegna, e nel ’90
dal comune di Genova.” Notisi poi che nella
Novella non parlasi punto di lui come di persona
defunta, e probabilmente il fatto avvenne nella
sua gioventù, quando più nell’ animo poteva la
cortesia e l’ onesto costume, che non la cupidigia
e l’ira, consigliato dalle quali si fece poi uccisore
del suocero Michel Zanche. Aggiungasi infine, che
un altro Branca Doria figlio del q. Manuelino,
trovasi menzionato circa questi stessi tempi, cioè
nel 1287, nelle carte genovesi.” Per tutte queste
cagioni non sapremmo nella presente Novella vedere
fatti appartenenti indubbiamente al secolo XIV, e
potremmo tenere invece che quello che vi è nar-
rato risalga al 1280 incirca.
Segue il Carbone dicendo che nella Novella L
gualteruzziana « si discorre di Maestro Francesco
Accorso, il quale, secondo che si legge nelle Vite
di Filippo Villani, morì in Bologna nel 1309; nè
a tal anno s’acqueta il Mazzuchelli, dotto anno-
tatore di quelle Vite, al quale per ragionevoli
induzioni e riscontri sembra incontrastabile ch'egli
vivesse alquanto dopo il 1317 ». È verissimo che
il Villani scrive esser morto Francesco « nell’anno
della grazia 1309, e della vita sua sessantotto » ; ??
Google
E DELLE SUE FONTI 1
ed è vero che il Mazzuchelli ne vorrebbe protratta
la morte a dopo il 1317, fondandosi sul fatto che
di lui si hanno commentarj a costituzioni pon-
tificie pubblicate soltanto in detto anno. Se non
che, subito dopo, egli soggiunge il dubbio se
cotesti commentarj sieno del nostro, o non piut-
tosto di « quell’ altro Francesco Accorso figliuolo
di Accorso da Reggio, il quale, al riferire del Pan-
ziroli nel lib. lI, al cap. XLII, era professore di
leggi in Bologna circa il 1340 ». E sebbene il
Mazzucchelli si scusi del portar sentenza defini-
tiva, per non avere avuto sott’ occhi quei com-
mentarj, conclude col dire che « quando si avessero
ad avanzare in questa oscurità le nostre conghiet-
ture, diremmo quelle portarci a crederli di altro
autore 7? ». E più esplicito ancora è il sommo
Savigny, scrivendo che « il Sesto e le Clementine
sono posteriori a Francesco d’Accorso: nè d’al-
tronde il suo nome esiste in veruna delle edizioni
di quella raccolta °* ». E all’erronea data che farebbe
Francesco morto nel 1309, si contrappongono le
ricerche del P. Sarti, ’° che « ha provato con sicuri
monumenti "° » esser egli morto nel 1293, sicchè
Dante, che meglio di Filippo Villani può dirsi suo
contemporaneo, a torto o a ragione, lo poneva in
Inferno fra i sodomiti ””. Resta poi da notarsi, che
il fatto che di lui si narra essendo accaduto al
ritorno « d’ Inghilterra ove era stato lungamente »,
va posto fra il finire del 1281 e il principio dell’82,
poichè in questo tempo egli si congedò da Eduardo I,
e fece ritorno in patria. Osservisi per ultimo, che
di Francesco non si parla punto della Novella in
modo da potere inferire che trattisi di persona già
Google
DI DEL « NOVELLINO »
morta; e se anche l’ aneddoto possa non esser
vero,” sebbene non discordante dall’ indole sua
cupida di danaro, è dato supporre che si diffon-
desse in Italia dal momento appunto del suo ritorno.
Crediamo con ciò di aver ridotto al loro vero
valore gli argomenti del Carbone, e mostrato in-
sieme che la compilazione del Novellino, non va
portata nè troppo addietro, sino alla fine del XII,
nè troppo innanzi, sino alla metà del XIV secolo.
Ripeteremo dunque, per concludere, non esservi
nel Novellino, nella sua più antica e genuina
compilazione, cioè nel testo gualteruzziano, nes-
suna memoria di fatti o persone che oltrepassi il
finire del secolo XIII, laddove invece nel Novellîéno
giusta la sua posteriore rimanipolazione, troviamo
ricordati personaggi ed avvenimenti della prima
metà del decimoquarto. ”° E perciò possiamo tenere,
il libro esser stato scritto o messo insieme verso la
fine del dugento, e forse nel penultimo decennio : 8°
e la rimanipolazione di esso, dato e non concesso
che la lezione borghiniana risponda ad un testo,
non essere posteriore alla metà del decimoquarto. 51
Ill.
Indicato il tempo nel quale, secondo ogni pro-
babilità, fu scritto o posto insieme il Novellino
nella vera sua forma, sorge altra dimanda, se,
cioè, uno solo o più ne siano gli autori. Il Car-
bone avendo ammesso che la Novella XX V, dovesse
esser scritta prima dal 1193, e che altre spettino
al principiare del 1300, naturalmente si chiede se
Google
E DELLE SUE FONTI 93
« chi metteva mano a queste novelle fin dai tempi
del Saladino, può egli esser quel medesimo il
quale settanta e più anni dopo novellava di Carlo
d’Angiò e di Alardo il vecchio », e se « pur con-
cedendo ch’ ei cominciasse a scrivere da bambino,
potè egli essere ancora tanto longevo da raccattar
notizie di personaggi che varcarono cogli anni il
trecento ». Naturalmente egli risponde in modo
negativo a questa dimanda, e precisamente col dire :
«non è dunque un solo l’ autore del Novellino ». *°
Ora tutto ciò cade senz’ altro, se, come noi opi-
niamo, e come ci sembra vero, le parole mancanti
nel testo gualteruzziano della Novella XXV, sono
glossa di un menante che copiava il Novellino
verso il 1289, ripetute poi dal secondo copista del
codice laurenziano nel quattrocento. Caduto questo
argomento, nulla vieta che l’ autore del libro sia
un solo.
Ma già innanzi al Carbone, e indottivi da altri
argomenti, vediamo altri aver scritto, il Novellino
non esser opera di un solo autore, ma, per usar
le parole del Borghini, * « di varie persone pia-
cevoli ed ingegnose ». Dietro il quale G. B. Ghio,
pur notando che parecchie novelle « furono scritte
intorno al medesimo tempo, e da una stessa mano »,
aggiunge che la stessa cosa non avviene di tutte,
perchè se « varie sono quelle che rassomigliansi
nello stile, sono anche varie quelle in cui osser-
vasi di stile un gran divario, ond’ ei si può con
lutta certezza giudicare ch’ elle nè uscirono tutte
ad un tempo, nè tutte di una medesima penna, e
che alcune paiono alquanto più antiche, ed alcune
meno ».** E più oltre scrive pure che « coloro che
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94 DEL « NOVELLINO »
tali Novelle composero » dovettero essere « varie
persone piacevoli ed ingegnose ». * Così anche il
Carbone opina che « manifestamente gli autori
dovettero essere diversi e di diverso tempo, non
solo per la variazione dello stile, come già notava
il Borghini, la quale dalla Novella dello schiavo
di Bari a quella di Bito e Ser Frulli è infinita,
ma più ancora perchè alquante di esse sono anti-
chissime, e furono scritte sullo scorcio del duode-
cimo secolo, e altre per contrario toccano la fine
del trecento ».* E, per passarmi d'altri, anche
l’ ultimo editore del Novellino, Giovanni Pierotti,
scrive, preludendo alla edizione bettoniana, pale-
sarsi « a prima giunta non esser (il libro) tutto
d’ una mano e di un tempo », per concludere che
« ad un primitivo numero di Novelle possono esser
state aggiunte più altre di mano diversa, del
medesimo tempo e di altri ». *
Adunque, secondo questi studiosi, la principal
ragione per tener il Novellino opera di più mani,
è la diversità dello stile fra novella e novella.
Vedremo più oltre quanto possa valere quest’argo-
mento; intanto giova notare come sieno stati posti
innanzi alcuni nomi di antichi scrittori, tenuti
probabili autori del libro, o di parte delle novelle
ond’ esso si compone.
L’ editore torinese del 1802 ricorda come ci
fosse chi *° avesse conghietturato poterne esser
stati autori « Brunetto Latini, Dante da Maiano,
Francesco da Barberino, e simiglianti altri »; ma
aggiunge, nulla più esser queste che ipotesi senza
fondamento, perchè se essi « avesser disteso tutte
le Cento Novelle o alcune di esse, sarebbesene
Google
E DELLE SUE FONTI 25
fra’ testi a penna delle loro rime e prose trovata
qualche traccia e medesimamente qualche copia....
ma questo segno, ch° io mi sappia, non s’ è ancora
osservato ».*° Di Dante da Maiano non so vera-
mente che alcuno abbia mai voluto supporre esser
lui l’autore del Novellino: ripetutamente invece,
ciò fu asserito e di Brunetto Latini e di Francesco
da Barberino.
‘ Ma il Ghio segue escludendo il Latini, perchè
«non avendo egli lasciato alcune prose in lingua
toscana, non c’ è ragione che porti a opinare che
egli in quella lingua abbia scritto Novelle ».°° A
questa ragione, veramente non troppo valida, non
sa acquetarsi il Carbone, scrivendo che « con
induzione più sicura » si potrebbe asserire il Latini
aver cooperato alla compilazione del libro, dacchè
«i due racconti di Papirio (Novella LXVII G.) e
di Traiano (Novella LXIX G.) trovansi con lieve
mutazione, e nelle Cento Novelle e nel Fiore dt
Filosofi e di molti savj, grazioso libretto che,
secondo il Nannucci, ®? è indubbiamente del maestro
di Dante *° ». Così, Brunetto non sarebbe già autore
o compilatore di tutto il Novellino, ma dai suoi
scritti sarebbesi scelto qualche cosa da inserire
fra le Cento Novelle. E che coteste due narrazioni
sieno copia dell’ una scrittura dall’altra, lo sostenne
anche recentissimamente il dotto e carissimo amico
Adolfo Bartoli, ponendo fra loro a confronto le
due lezioni del Fiore e del Novellino.?® Tuttavia
non sapremmo con lui convenire, nel negare che
ambedue potesser trarre da Paolo Orosio la desi-
gnazione di « uomo fortissimo, desideroso di
battaglie », o di « uomo potentissimo e savio e
Google
26 DEL « NOVELLINO »
dilettissimo molto in battaglie » con che essi tra-
ducono quel bdellicosissimus ac strenuissimus dello
storico africano, ** che manca in Macrobio e nei
Gesta Romanorum.® Qual difficoltà, infatti, che
gli autori del Novellino e del Fiore, conoscessero
un autore così diffuso come nell’ età media era
Orosio, e che circa codesli tempi era tradotto
anche dal volgarizzatore del Tesoro, messer Bono
Giamboni? ®° Nè anche potremmo, in senso asso-
luto, accettar la norma che il testo più ampio sia
sempre il più antico e moderno il più breve, e
che perciò il Novellino abbia copiato il Fiore. Ma,
anche ammettendo che la cosa proceda come vor-
rebbero il Carbone e il Bartoli, e che veramente
il Nostro sia plagiario dell’ altro, resta a sapere,
ed è questo che al presente deve importarci, se
. l’autor del Fiore sia « indubbiamente » Brunetto
Latini. I Codici magliabechiano e laurenziano di che
si valse il Nannucci, non portano il nome di Bru-
netto: lo porta bensì, ma aggiunto da mano poste-
riore, un codice marciano, indicato dal Morelli, ?”
il quale nel Catalogo farseltiano ebbe a notare
come un manoscritto della Chigiana, da noi pur
veduto, e che ci è parso del secolo XIV,* porti
chiaramente il nome del maestro di Dante. Ma a
ciò è da opporre come il codice farsettiano ed il
chigiano abbiano il titolo di «Secondo filosofo, vol-
garizzato da Brunetto Latini»; e perciò, ammessa
anche per autentica la paternità suggeritaci da
questi due soli manoscritti, dei quali l’ uno ha
copiato l’ altro, sarebbe da provarsi che Brunetto
sia volgarizzatore anche del Fiore, e che, come
sostiene il Nannucci, le Sentenze di Secondo e le
Google
E DELLE SUE FONTI 97
Vite dei Filosofi, formino tutt’ un corpo, sieno, cioè,
fin da principio, e non per posteriore aggiunta,
un’ opera sola. Antonio Cappelli, con argomenti
molto calzanti, ma che qui non è il caso di ripe-
tere, ha dimostrato invece, non « esservi titolo
valevole a farci credere di ser Brunetto l’ intera
stesura del Fiore ».°
Similmente di poco peso ci paiono, a far Bru-
netto autore del Novellino o di alcune narrazioni
in esso contenute, le prove tratte dall’ averlo chia-
mato Giovanni Villani « cominciatore e maestro
in digrossare i Fiorentini e farli scorti in ben
parlare », e dal confrontare queste parole col titolo
apposto al nostro, di « libro di bel parlar gen-
tile » ; °° come anche dall’ avere Filippo Villani
chiamato Brunetto « motteggevole.... e di certi
motti piacevoli abbondante » e « di sermone pia-
cevole, il quale spesso moveva a riso » :!° chè
sarebbe dare un troppo preciso significato a parole
che in sè medesime hanno soltanto un valore
generico, e riguardano poi, non lo scrittore, bensì
il parlatore.
Un altro nome è stato per la prima volta messo
fuori dal Carbone, ed è quello di ser Andrea
Lancia, notaio e scrittore fiorentino del secolo
decimoquarto, !°* dappoichè vi ha identità fra tre
Novelle del testo borghiniano e tre narrazioni inse-
rite dal Lancia nel suo « amplissimo e bel com-
mento » inedito del volgarizzamento del Rimedio
d'Amore di Ovidio.!* Queste Novelle sono la V,
cioè il conto « come per subita allegrezza uno si
morìo »: la LIX, « d’ una bella provvedenza di
Ipocras per fuggire il pericolo per la troppa alle-
Google
28 DEL « NOVELLINO »
grezza »: e la C, del re, che « per mal consiglio
della moglie uccise i vecchi del suo reame ». 1%
Non piccole differenze di forma corrono però fra il
testo borghiniano e quello offertoci dal Carbone
in sostituzione dell’ antico, *** nè sapremmo trovar
nessun argomento, e niuno ne indica neppure il
solerte editore, dal quale desumere l’ anteriorità
del Lancia sull’asserto testo borghiniano del Novel-
lino. A noi basta notare soltanto come queste
Novelle appartengano tutte tre a quel testo che più
sopra provammo esser ricompilazione dell’ante-
riore, rappresentatoci nella edizione del Gual-
teruzzi.
Ed è pure una sostituzione del testo borghiniano
quella Novella (XCII) di Tito Manlio Torquato,
della quale il Carbone !° assevera che è presa « a
verbo dall’antico volgarizzamento della prima deca
di Livio »; !°° se non che ciò riguarda più lo studio
delle fonti, che non la ricerca dell’ autore o com-
pilatore del Novellino. Per ultimo notiamo, come,
secondo il Carbone, !° mons. Borghini « manife-
stamente prese dalle Prose antiche del Doni la
Novella del Saladino, lasciatone il principio e la
fine ».!°° Ma ciò non riguarda l’autore o compi-
latore del Novellino, bensì i libri a cui il Borghini
ebbe ricorso per supplire le Novelle del testo gual-
teruzziano da lui ommesse nella stampa.
Resta adesso che diciamo qualche cosa intorno
a Francesco da Barberino. Il primo a porre innanzi
il nome di questo autore fu Federigo Ubaldini
nella Vita del Barberino, preposta ai Documenti
d’ Amore, e queste ne sono le precise parole:
« Trasse ancora dal Provenzale argomento da ricrear
Google
E DELLE SUE FONTI 99
gli animi, imitando nel nome e nel soggetto il
Fiore de’ nobili detti del Monaco di Montalto, con
chiamarne un suo Fiore di Novelle: ma smarrito
il volume, il titolo ci dà campo da rintracciare
qualcuna delle sue Novelle tra quelle Cento, che,
quasi primizie della politezza toscana vanno attorno.
Ci avvertisce il Salviati, che quelle sono nate da
più autori in diverse età: abbiam poi sentore che
possa esservene intramessa alcuna del Barberino,
dalla denominazione che tra le altre hanno nel
testo di Carlo Gualteruzzi le Cento, di Fiore di
parlare: e dal dire Messer Francesco nelle Chiose,
che nel suo Fior di Novelle fa spesso menzione
delle nuove astuzie di Guglielmo di Bergadam, e
non so che di Messer Beriola, de’ quali ambedue
si leggono distinte Novelle tra le Cento. Di più si
legge in questo libro del Barberino scritta una
canzone distesa per un cavaliere nell’ istesso caso
che è la Novella ottantesima tra le suddette, della
damigella di Scalot; poichè il cavaliere, siccome
avvenne alla damigella, si morì del mal d’amore.
E siccome colei volle aver dopo morta una lettera
a lato che propalasse alla corte del re Artù esser
ella trapassata per la poca corrispondenza in amore
di Lancellotto ; così scorgendosi in mano del defunto
cavaliere la canzone, fu palesato chi per sua cru-
deltà il conduceva a tal fine. Sicchè per la simi-
litudine di quelli accidenti, come per l’ altre cose,
ragionevolmente può la nostra considerazione circa
le dette Novelle in affermazione trasmularsi. Anche
la confessione fatta dal Boccaccio di non esser
egli stato l’ inventore di ogni sua Novella, e che
non iscrisse se non le raccontate da’ più antichi
Google
30 DEL « NOVELLINO »
(che si vede in prova da quelle ch’egli estrasse
dalle Cento di sopra indicate) ci ammonisce, che
tra le tolte, ve ne potesse esser parte di Messer
Francesco », 1°
L'argomento addotto per primo, che, cioè,
parecchi sieno gli autori del Novellino perchè esso
ha anche il titolo di Fiore, che soleva in quegli
antichi tempi appropriarsi appunto alle compila-
lazioni fatte da libri diversi, o anche di mezzo ad
un sol libro, non basta .a farci certi che per entro
a questa raccolta vi sieno anche narrazioni tolte
dal Barberino. Certo il Novellino è un Fiore; basta
gettare un’occhiata alle notizie che seguono intorno
alle Fonti del Novellino, per persuaderci che l’au-
tore raccoglieva, compilava, spigolava da varie
parti, attingeva a diverse sorgenti. Egli è soltanto
l’ ignoranza di tante e così diverse fonti, quella
che probabilmente indusse l’ Ubaldini a sospettare
una stretta parentela fra il Novellino e l’opera al
Barberino attribuita, che sola era allora nota
come simigliante nella materia al nostro libro. Del
resto, che il. Barberino veramente componesse
cotesto Fiore dé Novelle, non mi pare abbastanza
provato dalle sole parole dell’ Ubaldini; e biso-
gnerebbe meglio conoscere quel commento latino
ai Documenti che disgraziatamente giace inedito
nella Barberiniana, non lontano ormai da total
distruzione. 11!
Poco peso, come ognun vede, può aver l’ altro
argomento dell’ Ubaldini, dedotto dall’ esser men-
zionati presso il Barberino due personaggi che
avrebber avuto parte nel suo Fior di Novelle, "!?
e che si rinvengono anche nel Novellino: dacchè
Google
E DELLE SUE FONTI 31
bisognerebbe esser certi che si trattasse non solo
delle stesse persone, ma anche dei medesimi fatti:
e neanche questo potrebbe forse bastare, doven-
dovi anche essere identità di racconto. 13
L’ altra prova della somiglianza fra il caso del
cavaliere e quello della dama di Scalot, ognun
vede come non abbia alcun peso; e così anche
l’ultima parte, riguardante il Boccaccio, sebbene
non appartenga al proposito nostro, può servire a
mostrare come l’autore non procedesse sempre
nei suoi ragionamenti a fil di logica.
Marcantonio Parenti, preludendo alla edizione
modenese del Novellino, riferisce come « notabili »
le congetture dell’ Ubaldini; ma annunziando che
in fine del volume si leggeranno alquante novelle
senza dubbio composte dal Barberino, nelle quali
si potrà « ravvisar la sembianza delle altre ante-
cedenti che sono scritte con maggior grazia e
semplicità », soggiunge giudiziosamente : « ma
bisogna avvertire che quanto più si retrocede verso
la primitiva naturalezza del dire, tanto è più facile
riscontrar somiglianza anche fra scritti di autori
diversi ; essendo vero singolarmente per que’ primi
tempi, che parla più spesso il secolo che lo scrit-
tore », 114
Ma chi più animosamente e ripetutamente
sostenne, allargandola, l’ ipotesi dell’ Ubaldini, fu
il conte Giovanni Galvani, testè rapito agli studj
delle nostre antiche lettere, nei quali fu compe-
tente ed autorevole quanto pochi altri dell’ età
nostra. Egli fino dal 1840, pubblicava una sua
Lezione 5 intitolata: Del probabile autore del
Centonovelle antico. Notevole ci sembra in essa
Google
39 DEL « NOVELLINO »
l’ aver cominciato col negare di riconoscervi, come
il Salviati e tanti altri dappoi, « una raccolta di
Novelle scritte da più autori ed in tempi diversi,
mentre esse invece mi sembrano evidentemente di
un colore uniforme, e di una lingua similissima
a sè medesima ».!° E fin qui andiamo perfetta-
mente d’accordo coll’ illustre critico, che della
opinione contraria e del favore che potè incontrare
trova una plausibil ragione nell’esser stato tal giu-
dizio proferito « mirando all’edizione borghiniana»,
e non all’altra. Cominciamo invece a discordare
alquanto da lui quando egli scorge « nella gia-
citura del periodo, ne’ trapassi e nelle frasi del
Novellino la prosa provenzale », tanto da parer
di leggere una delle vite dei trovatori di Provenza.
Opinando dunque che l’autore dovesse essere un
solo, e che questo fosse da cercare fra quelli che
maggiormente ebbero conoscenza della lingua d’ oc,
il Galvani riprende a sostenere l’ipotesi dell’ Ubal-
dini, purchè essa sia applicata al testo gualteruz-
ziano, non all’ altro, nel quale trova non solo
« mutato il colore al linguaggio », ma anche
«introdotte Novelle affatto nuove, ed evidentemente
posteriori forse di uno o due secoli alle rimanenti ».
Se non che, mentre l’ Ubaldini si era contentato
di asserire che nel Novellino si potrebbe trovare
«qualcuna » delle narrazioni raccolte dal Barberino
nel suo Fiore, il Galvani va più oltre, e giudica
che « l’ antico Centonovelle » posto a confronto
col libro del Reggimento e costumi delle donne,
mostri essere « frutto della medesima mente e
dettato dall’ istessissima penna ». E poichè a tal
sentenza lo induce sopra tutto la somiglianza dello
Google
E DELLE SUR FONTI 33
stile, egli porta in prova una narrazione del Nowvel-
lino ed una del Reggimento; e quindi a mag-
giormente mostrare che il primo fu « dettato sulla
falsariga provenzale, e però da un intimo e pro-
fondo conoscitore di quella favella, il che varrà
forse quanto il dire... che fu con tutta possibilità
dettato da M. Francesco da Barberino »,"” tra-
sceglie dalle antiche biografie dei trovatori alcune
ch’ egli traduce imitando lo stile del Novellino:
e finisce coll’ augurarsi di poterlo veder presto
ristampato col titolo di: Fiore di Novelle di Messer
Francesco da Barberino. Ma qui egli avverte che
per le ripetute testimonianze de’ buoni costumi
del Barberino non gli « reggerebbe l’ animo » di
altribuirgli anche le Novelle « sozze e villane, e
lontane da ogni bella leggiadria di costume ».
Perciò consigliando che « queste si gettassero al
mondezzaio », vorrebbe riempire i vuoti che ne
risulterebbero, con altre novelle tolte al Reggimento.
Ecco dunque il Barberino fatto autore di tutto
il libro, salvo tuttavia delle novelle oscene, le
quali resterebbe a sapere come e da chi sieno state
introdotte nell’ opera di Messer Francesco, caccian-
done altre di più onesto argomento.
Ma nel 1870, il Galvani stampando il suo Novel-
lino provenzale, ossia Volgarizzamento delle antiche
vitarelle deî trovatori, scritte già in lingua d’ oc
da Ugo di S. Ciro, da Michele della Torre e da
altri, e ampliando per tal modo l’ esperimento
fatto nella Lezione, sembra contraddire alle cose
in quella ammesse, riconoscendo nel Centonovelle
« due parti abbastanza distinte fra loro, l’ una
cioè, più antica dell’ altra.... e quest’ una rical-
D’ Axcona - II 3
Google
34 DEL « NOVELLINO »
cata affatto sul Provenzale ».'° Non sono più
dunque soltanto le novelle oscene le quali non
appartengano al Barberino, ma altre, che non si
dice per qual modo vi si trovino frammischiate.
Non è più dunque, come nella Lezione aperta-
mente si sosteneva, un solo l’autore del Novellino;
e il Galvani ritorna così senz’ altro all’ ipotesi
dell’ Ubaldini, che cioè « qualcuna » fra le cento
potrebbe esser fattura del Barberino.
A questa sentenza, avvalorata dal nome e dal-
l’ autorità del chiaro modenese, e ormai tenuta
dalla maggior parte degli studiosi e dei critici,
cominciò ad opporsi il Carbone, !*° osservando che
le novelle del Reggimento, « a gran pezza non
aggiungono la sveltezza, il candore e la vita, che
si ammira ne’ più de’ racconti del Novellino. E se
| pur qualche cosa di Messer Francesco vi ha (che,
essendovi dentro fiori di più prati, non è inveri-
simile), è da credere che l’ autore del Reggimento
delle donne non vi recasse nè i più belli, nè i più
odorosi ». 12!
Ottime considerazioni sono quelle colle quali
Adolfo Bartoli respinge l’ ipotesi relativa al Bar-
berino. L’ essere il Novellino scritto secondo asse-
risce il Galvani, « sulla falsariga provenzale »,
non importa, quando pur ciò si debba riconoscere,
che messer Francesco ne sia autore; dacchè « la
letteratura occitanica fu notissima in Italia nel
secolo XIII ». Nè può ammettersi, prosegue il
Bartoli, cotesta assoluta sentenza intorno alle fonti
unicamente provenzali del Novellino, chè dentro vi
ha di tutto. E la faccenda non va altrimenti para-
Google
E DELLE SUE FONTI 35
gonando lo stile del Cento Novelle con quello del
Barberino. Riportiamo qui per intiero il retto giu-
dizio che recava l’amico nostro in questo proposito :
«Il Barberino è per il più, assai largo nei suoi rac-
conti : qualche volta persino ridondante di parole ?*?:
egli accarezza il suo argomento, e di più dice in più
luoghi chi gli ha narrato la storia e donde l’ha
tratta. Nel Novellino, nulla di tutto questo. Ancora:
le novelle del Barberino sentono di letterato:
rarissimi vi sono i costrutti irregolari, corretta
la lingua: il Novellino invece, per la maggior
parte, ha sapore tutto popolare: ci è quasi sprezzo
della forma, corre precipitoso, non ha mai vezzi,
dice le cose in fretta, e le dice bene, non già
perchè chi scrive rifletta all’ arte propria, ma
perchè quelle forme gli escono spontanee dalla
penna, gli sono naturali, le ha vive sul labbro, e
le lascia andar giù con una noncuranza che diventa
il suo pregio. Che un letterato quale era il Barbe-
rino potesse scrivere così a noi sembra impossibile :
quella popolarità della forma, quella oggettività
che sono le qualità più spiccate del libro, diven-
terebbero un fenomeno inconcepibile se esso dovesse
ascriversi ad un autore solo e ad un letterato.
Il Novellino rappresenta la Novella popolare nel
suo stato embrionico : è, quasi diremmo, quello
che fu lo scenario per la commedia dell’ arte: è
anonimo, perchè tutti v’ hanno portato il loro
tributo, come tutti vi attingono argomenti al novel-
lare. Il Barberino invece offre l’ esempio del racconto
passato a traverso una mente che pensa, che cura
l’arte, che scrive per un fine determinato. Ci è in
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36 DBL « NOVELLINO »
lui uno svolgimento ; egli segna un passo ulteriore
nella via dove poi lasceranno orme da giganti i
novellieri del sec. XIV ». 12
Queste osservazioni ci paiono giustissime, e noi
vi aderiamo interamente. Chi legge le narrazioni
sparse dal Barberino per entro l’ opera sua mag-
giore, troverà una vera e notevol differenza da
esse a quelle del nostro libro, per rispetto allo
stile; il quale, sebbene non sia sempre ad un modo
nei varj racconti del Novellino, pure ha sempre
un nerbo, una rapidità, una spigliatezza, di cui
invece non è traccia nel modo di narrate di messer
Francesco. Lasciamo stare che le narrazioni del
Barberino sono piuttosto esempj che novelle vere
e proprie: il che deriva dall’ essere introdotte in
un libro didattico, ove non sono veramente se
non prove e modelli da proporre altrui, perchè si
segua una virtù o si fugga un vizio: ma sopra-
tutto è notevole questa differenza, che il Barberino
il più delle volte parla in persona propria, evo-
cando le proprie rimembranze e citando i luoghi
ove il fatto avvenne e dove egli ne ebbe contezza,
e le persone da cui udì narrarlo: *** e questa è con-
suetudine non dipendente già dall’ intreccio delle
Novelle nell’ opera del Reggimento, ma usanza pro-
pria dell’ autore, della quale nulla di simigliante
trovasi nelle cento narrazioni del Novellino.
Esclusi adesso dal poter essere autori in tutto
o in parte, del Novellino, gli scrittori dei quali
finora abbiamo fatto ricordo, potrebbe ragione-
volmente dimandarci il lettore se noi crediamo che
il Novellino sia opera di un solo, e se avremmo
un qualche nome da porre innanzi.
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E DELLE SUE FONTI 37
Valevoli ragioni per negare, o almeno per dubi-
tare, che il Novellino possa esser opera di un solo,
confessiamo di non trovarne. L’ unico argomento
che potrebbe aver un qualche peso, sarebbe quello
che si trae dallo stile: e già a sazietà è stalo
ripetuto dal Borghini in poi esservi « variazione
dello stile » ‘°° da una novella all’altra; e cor-
rere, dice il Carbone, infinita « differenza dalla
Novella dello Schiavo di Bari a quella di Bito e
Ser Frulli »:'*° anzi, aggiunge il Pierotti, « da
quella della damigella di Scalot e quella del mar-
tore che andò alla cittade ».' Il che noi non
neghiamo, anzi aggiungeremo che taluna, ad
esempio quella del mercatante che recava berrette
(Novella XCVIII), ha poco più ampiezza del titolo
stesso di altre narrazioni.
Ma tal differenza fra Novella e Novella pro-
viene, secondo noi, da altre ragioni: cioè dalle
varie fonti alle quali attinse l’ autore. E certo, a
chi ben guardi, tutte le Novelle, qual più qual
meno, dimostrano la stessa forma costante di bre-
vità, forse anche perchè, come noi abbiamo sempre
opinato, e come altri pur disse recentemente, !°5
coteste dovevan essere più ch’altro, tracce e appunti
offerti al valente novellatore o favellatore!*? perchè
giovandosi di quelli, colla viva voce ambpliasse
poi, arricchisse, svolgesse gli aridi sunti, rimpol-
passe e rinsanguasse questi scheletri di racconti.
Ma nell’ esser così stringato, chi stendeva in
sulla carta queste Novelle, non tanto forse obbe-
diva ad un chiaro e prestabilito concetto, !* quanto
piuttosto soggiaceva alla propria inesperienza, che
non concedevagli di amplificare la tela, ritrarre
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38 DEL « NOVELLINO »
tutti i particolari del falto e allegrarli colle grazie
dell’arte. Ricordiamoci che quando il Novellino
dovè esser scritto, la prosa italiana non era ancora
formata. I più degli scritti in prosa di codesta età
sono traduzioni dal latino classico o dal latino
volgare, o da altre favelle neo-latine, e più o
meno ne ritraggono l’indole. Più nobile è il dettato
o più disadorno, secondo le qualità dell’ originale.
Bisogna giungere a Dante, a Dino, al Boccaccio,
al Cavalca per trovare una prosa italiana, che
nelle sue forme e nelle sue movenze, faccia vedere,
anche nell’ imitazione, l’ intento e il criterio let-
terario di chi la compose. Gli altri scritti originali
innanzi al Convito, alla Cronica, al Decamerone,
alle Vite dei Santi Padri sono, in generale, timidi
esperimenti, nei quali manca il periodo, ed il col-
legamento dei costrutti è cosa ignota.
Uomo di svegliato ingegno ed arguto, ma non
letterato, era certo il compilatore del nostro libro :
ed una prova l’abbiamo nelle Novelle che quasi
certamente sono sue: ch’ ei non trasse cioè, da
nessun altro autore, ma dalla tradizione orale.
Quelle infatti di uomini ed usi fiorentini, come la
Novella di Messer Castellano da Cafferi (LXXXVIII),
dell’ uomo di corte che cominciò una Novella che
non venìa meno (LXXXIX), del martore di villa
che andava a cittade (XGV), e forse anche le altre,
d’uno che cra ben fornito a dismisura (LXXXVI),
d’ uno che si andò a confessare (LXXXVII), d'una
buona femiiina che avea fatto una fine crostata
(XCII), d’au:n villano che sì andò a confessare
(XCITI), d’ «tn mercatante che portò vino oltre mare
in botti a due palcora (XGUVII), e dell’ altro che
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E DELLE SUE FONTI 39
comperò berrette (XCVTII), le quali tutte ci sem-
brano di soggetto paesano, sono appunto fra le più
magre narrazioni, !* sia che l’ autore non sapesse
svolgerle, perchè l’arte mancavagli, sia anche per-
chè, pel bisogno proprio e degli altri novellatori,
bastavagli ritrarre i punti principali, la sostanza del
racconto, lasciato ogni inutile ornamento da banda.
Ma questa stessa brevità trovasi, quasi propria
dei tempi e degli ingegni, anche in altri novel-
lieri di quella età. La Disciplina clericalis ed i
Gesta Romanorum, cioè le due più insigni rac-
colte di Novelle dell’ età media, e che al nostro
autore non erano certo ignote, !* hanno pur esse
più o meno lo stesso carattere. E si capisce che
abbreviando una Novella già compendiata, dovesse
il nostro farne una cosa assai magra e scarna,
ma più ampio riuscisse quando avesse innanzi un
esemplare maggiormente svolto.
Fra i tanti esempj che si potrebbero addurre,
ne noto uno che mi si offre primo alla scelta,
perchè sul bel principio dell’opera: ed è la Novella
del re che « fece nodrire un suo figliuolo dieci anni
in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte le cose,
e più li piacque le femmine (XIV) ». Per ammet-
tere questa Novella nel suo florilegio, poteva
l’autore nostro ricorrere a molte versioni. Anzi
tutto eravi il testo latino della Leggenda che dice
così: Quidam rex filios mares habere non poterat.
Unde vehementer tristis erat, et hoc infelicituten
esse non modicam aestimabat. Qui cum in huius-
modi esset anxietate, nascitur ei filius. Et super
hoc gavisus est gaudio magno. Dixeruni autem
ei peritissimi medicorum, quod si infra decem
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40 DEL « NOVELLINO »
annos solem vel ignem viderit, omnino lumine
privabitur. Hoc enim oculorum illius posttio signî-
ficabat. Rex itaque ut audivit talia, fertur spe-
luncam in quadam petra excidisse, et ibi filium
cum nutricibus suis inclusisse, ut nullo modo usque
ad completionem annorum lucis claritatem videret.
Finitis autem decem annis, de antro puer edu-
citur, nullam mundialium rerum per visum habens
notitiam. Tunc iubet rex omnia sibi secundum
genus exhiberi et ostendi ei: viros quidem in uno
loco, alibi vero mulieres. Hic aurum et argentum,
ibi margaritas et lapides preciosos, vestes splen-
didas et ornamenta, currus preciosos, cum equis
regalibus frena aurea habentibus et purpura co-
pertis, et ascensores armatos, et armenta boum
et greges ovium. Et, ut breviter dicam, omnia
secundum ordinem et genus ostenderunt puero.
Interrogante vero ipso, quid horum unumquodque
vocaretur, regis ministri uniuscuiusque appella-
tionem indicaverunt. Cum autem mulierum nomen
discereanxie qareret, fertur spatarius regis ludendo
dixisse, daemones eas esse qua seducunt homines.
Cor autem pueri illarum desiderio, plus quam cae-
teris rebus anhelabat. Ostentis igitur sibi omnibus,
ad regem reduxerunt cum. Tunc interrogat rex
filium, quid amplius amaret ex omnibus quae
viderat. Qui (inquit) pater, aliud nisi daemones
illos qui seducunit homines? Nullius enim horum
quae mihi hodie demonstrata sunt, sicut illorum
amicitia erarsit anima mea. Et miratus est rex
ille in verbo pueri. Et vide quam tyrannica res
est amor mulieris. Et tu igitur non aliter putes
superare te posse filium tuum, nisi hoc modo. 3
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E DELLE SUE FONTI 41
A me sembra però che il compilatore del Novel-
lino dovesse tenere innanzi agli occhi, non già
cotesto testo, del quale invece si valse l’ antico
volgarizzatore italiano !8* del Barlaam e Josafat,
ma un altro in che abbiamo già una vera e propria
Novella di per sè stante, e staccata dal resto della
Leggenda. Forse il suo esemplare fu il testo stam-
pato dal Wright; ?* e se non questo per l’appunto,
altro che molto lo assomiglia. Ad ogni modo, una
di tali versioni, separate già dalla leggenda e
compendiate, il nostro ridusse ancora a maggior
brevità: e supponendo che il suo esemplare fosse
la Novella edita dal Wright, vediamo come egli
dovesse procedere.
Legimus de rege quodam, quia filios mares
non haberet, tristabatur valde; cui natus est filius,
et gavisus est gaudio magno valde. Tutto ciò è
espresso dal nostro soltanto colle parole: « A uno
re nacque uno figliuolo ».
Dixerunt autem regi periti medici, quod filius
ejus talis erat dispositionis, quod si solem vel
ignem videret infra X annos, lumine oculorum
privaretur. E il nostro abbreviatore: « I sav] stro-
logi provvidero ch’ elli stesse anni dieci che non
vedesse il sole ».
Quo audito rex, filium suum in speluncas cum
nutricibus inclusit, ita quod usque ad X annos
luminis claritatem non vidit. Al nostro basta il
dire : « Allora il fece nutricare e guardare in teno-
brose spelonche ».
Et tunc puero de spelunca educto cum rerum
mundialium nullam haberet notitiam, proecepit
rex ostendere ei omnia quae sunt in mundo,
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49 DEL « NOVELLINO »
secundum genus suum, videlicet viros seorsum,
mulieres, equos; in alio loco aurum, argentum, et
lapides preciosos, ei omnia quae delectare possunt
oculo8 intuentium. Tutto ciò è più breve nella
nostra Novella: « Dopo il tempo detto, lo fece
trarre fuori, et innanzi a lui fece mettere molte
belle gioie, e di molte belle donzelle ».
Cum autem puer quaereret nomina singulorum
el ventum esset ad mulieres, quidam regîis servus
respondet ludendo: Istae sunt daemones, homines
seducentes.
Qui vi ha nell’ italiano una differenza, la quale
potrebbe indurre il sospetto che il nostro compi-
latore o non avesse precisamente questo testo sot- .
t’occhi, o più naturale gli paresse che altri al
giovinetto dicesse i nomi delle cose senza ch’ egli
ne facesse richiesta : « .... tutte cose nominando
per nome, e dettoli le donne essere demonj ».
Cor vero pueri illarum desiderio plusquam
caeteris rebus anhelabat. Cumque rex quaereret
a puero, quod magîs ex omnibus quae videret
amaret, respondit: magis diligo daemones illos
qui homines seducuni, quam omnia alia quae vidi.
Ecce quomodo huominis natura în hac parte prona
est ad lapsum; et iccirco qui volunt esse conti-
nentes, necesse est ut fugianti mulieres.
La Novella: « E poi li domandaro quale d’ esse
lì fosse più graziosa. Rispose: i demoni. Allora
lo re di ciò si meravigliò molto, dicendo: che cosa
è tirannia e bellore di donna] » 18
Ripeto che se non appunto questa versione, il
modello su cui lavorava abbreviando il compilatore
del Novellino doveva essere certo un altro consimil
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E DELLE SUE FONTI 43
sunto della narrazione inserita già nella leggenda
di Barlaam. Se dunque le narrazioni del Novellino
sono alcune più ampie delle altre, non è perchè
fosser scritte in diversi tempi, e quelle maggior-
mente svolte in tempi di maggior coltura, ma
perchè il Nostro, che sapeva restringere non allar-
gare, aveva dinnanzi a sè testi or più corti or
più lunghi; e quando poi faceva di suo, come
nelle Novelle di soggetto fiorentino, seguiva la
natura, anzi la possibilità sua.
Ma questo primo getto non contentò tutti i
copiatori e lettori dell’ opera; e in cotesta età,
nella quale non avevansi le dottrine che noi abbiamo
sulla proprietà letteraria, e ogni libro era un po’ di
tutti, ben presto altri vi poser le mani a ricom-
porlo e variarlo. Colui che scrisse il codice Marciano
serbò le rubriche del testo primitivo, sostituendo
altre avventure dei medesimi personaggi ricordati
nei titoli, e nello slile fece soltanto lievi modi-
ficazioni. ?*” L’ autore della lezione panciatichiana
allargò dal canto suo alquanto alcune Novelle, 1°
diede loro più ampia forma o maggior svolgi-
mento,!® anzi distrusse l’ unità dell’ opera supe-
rando il numero delle cento, e frammischiando
qua e là pezzi del Fiore dei Filosofi, del Sidrac
e d’ altri libri.
Non vi ha dunque a parer nostro, aulorevol
ragione di dubitare che il Novetlino sia opera di
un solo autore. Certo, chi lo compilò prendeva di
qua e di Jà e metteva insieme un florilegio di esempj
e di fatti; ma come sarebbe venuto fuori il Cen-
tonovelle, che ha per intento di far « memoria di
alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di
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44 DEL « NOVELLINO »
belli risposi e di belle valentie, di belli donari e
di belli amori », '*° se uno non avesse avuto tale
concetto, se uno solo non l’ avesse messo in ese-
cuzione ? Che se altri furon dappoi che mutarono
l'ordine delle Novelle, o altre ne interpolarono
o ne cangiarono il dettato, e il Borghini, ormai
lo sappiamo, non fece altrimenti, ciò prova appunto
che il libro era già stato in altro modo messo
insieme da uno, chiamisi esso autore o, se meglio
vuolsi, compilatore.
Ma autore lo diremmo, notando come ebbe un
intento chiaramente indicato nel Proemio, a tutti
i testi comune, di sobbarcarsi alla fatica « a prode
et a piacere di coloro che non sanno e deside-
rano di sapere », ed augurando, e quasi profe-
tando, che altri « di cuore nobile e di intelligenza
sottile » potrebbe « per lo tempo che verrà per
innanzi » prender l’opera sua a modello. Or questo
proemio, e l’essersi chi lo scrisse proposto di
raccoglier Novelle che, con esso, arrivassero al
numero di cento,?4 determinano chiaramente l’unità
dell’opera, e meritano a chi la compose il nome
di autore. Non però gli disconverrebbe quello di
compilatore, chi avverta com’ egli radunasse la
materia da varie parti, e quasi ne facesse un
mosaico di pezzi presi qua e là. Le notizie che
seguono a questo nostro ragionamento sono state,
non senza fatica, da noì raccolte appunto per
mostrare le molte fonti alle quali il nostro dovette
attingere. Noi però non pretendiamo in ogni caso
aver indicato quella a cuì egli dovette precisa-
mente ricorrere; ma segnaliamo soltanto la fonte
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E DELLE SUk FONTI 45
che ci è nota come anteriore all’età nella quale
il libro dovette esser composto.
Cominciando dal Borghini,!** fu detto e ripetuto
che molte delle Novelle provengono dal proven-
zale ; e ciò veramente è probabile per quelle del
Re Giovane (XIX), di Riccardo Cuor di leone
(XX, LXXVI), di Riccar Loghercio, grande gen-
tiluomo di Provenza (XXXII), di Messer Imberal
dal Balzo, grande castellino di Provenza (XXXIII),
di Guglielmo di Bergdam, nobile cavaliere di Pro-
venza (XLIl), del medico di Tolosa (XLIX), di
Carlo d'Angiò (LX), e di Messer Alamanno (LXIV),
ma nessun testo occitanico ci rimane per appro-
vare cotesta sentenza con sicuri raffronti. Molte
altre ne debbono provenire dal francese,!** che gli
studj odierni han mostrato, quanto almeno il pro-
venzale, familiare e diffuso in Italia durante il
secolo XIII. Ma la maggior quantità deriva cer-
tamente da raccolte latine : delle quali sopravvive
soltanto una piccola parte, ma di cui ci è dato
studiare la forma e l’indole nei Gesta e nella
Disciplina. Che se il Galvani " ebbe a dire,
esser il dettato del Novellino, nell’andamento, nel
costrutto, nel fraseggiare e nelle parole, provenzale
schietto e maniato, e ciò per la gran somiglianza
che in sul loro primo nascere avevano le due lingue
sorelle, alle quali pur potrebbesi aggiungere la
favella d’ oil, e’ sarebbe più a buon diritto da
asserire che tutte tre queste lingue, nè tanto forse
nelle voci quanto nella sintassi, rassomigliavano,
in quel primo loro manifestarsi, al latino volgare.
Questo che diciamo latino volgare, e perciò distin-
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46 DKL « NOVELLINO »
guiamo dal classico e letterario anche del periodo
più tardo e corrotto, fu durante l’ età media con
egual facilità inteso in ogni regione dell’ Europa
cristiana, ma specialmente fra le genti neo-latine.
Esso era scritto per tutte, non per una sola di
queste schiatte e nazioni, e adoperato particolar-
mente nelle opere ascetiche, di dottrina e di diletto,
destinate alle classi popolari o mezzane. Questo
siffatto latino fu il tipo, l’ esempio, il modello
al quale si conformarono per lungo tempo gli scrit-
tori volgari delle tre principali favelle uscite dallo
stesso ceppo. Generalmente esso ha quella brevità,
anzi quella stessa aridità di forme che trovasi nel
nostro libro : quello stesso modo di comporre un
periodo colle parole strettamente indispensabili,
non collegando fra loro i periodi con intima costru-
«zione, ma facendo punto ad ogni proposizione,
e queste riunendo insieme colla più semplice fra
le copule. Si compari qualche narrazione delle
Gesta o della Disciplina, con un racconto del
Novellino, e ciò basterà a persuadere che quest’ ul-
timo confronta assai più col dettato di quelle, che
non con una prosa contemporanea provenzale o
francese: e si dovrà per lo meno conchiudere, che
le manifeste somiglianze fra le tre prose hanno
la loro ragione nella rispettiva somiglianza di
ciascuna col latino volgare dell’ età media.
Nè mancano altri fatti che ci conducano a
credere, provenire la maggior parte delle narra-
zioni del Novellino da testi di latino popolare. Chi
ha letto i Gesta romanorum avrà certo notato
come i racconti generalmente vi principino in
questa consueta forma: Pompeus regnavit: Titus
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E DELLE SUE FONTI 47
regnavit : Quidam imperator regnavit: Cesar regna-
vit ece., come le Novelle popolari col c’ era una
volta. Or chi non vede la riproduzione di questo
modo di avviar la narrazione, nelle formule colle
quali principiano i racconti del Novellino: « Sala-
dino fu Soldano » (Novella XXV): « Riccar
Loguercio fu signor dell’ Ila » (XXXII) : « Narcis
fu molto buono e bellissimo cavaliere » (XLVI):
« Socrate fu nobile filosofo di Roma » (LXI):
« Papirio fu romano » (LXVII), e simili ? 14
IV.
Ma se uno solo dovette essere l’autore o com-
pilatore della prima forma del Novellino, chi
sarà egli, !*° se non fu niuno di quelli da altri
supposti ?
Noi diciamo subito che nol sappiamo, e che
ogni congettura ci par vana ed inutile. Questo solo
ci sembra certo, ch’ei non fu letterato, ma che
dovette esser nativo di Firenze, e molto probabil-
mente di parte ghibellina.
Diciamo che non fu letterato, ma intendiamo
dire letterato di professione. Non fu nè un chie-
rico, nè un retore, nè un grammatico, nè un poeta,
come Arrighetto o Brunetto o Francesco da Bar-
berino: fu un popolano, un mercante, come molti
ve n'era allora in Firenze, che aveva letto quasi
tutti i libri sui quali si formava la cultura in
cotesta età ; !4° donde potevansi ritrarre bei fatti di
cavalleria e begli esempj di cortesia e di valore,
e bei motti. Conosceva la Bibbia, o nella vulgata
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48 DEL « NOVELLINO »
o nei Fioretti che n’ erano stati estratti, come si
vede dalle Novelle di Davide (Nov. VI), di Salo-
mone (VII), di Balaam (XXXVI), di Aminadab
(XII) :!* conosceva le leggende cristiane, come è
chiaro da quelle di S. Paolino (XVI) e di Pietro
tavoliere (XVII); nè gli erano ignote le tradizioni
spurie che correvano fra il volgo, nelle quali Cristo
si accompagna con un giullare (LXXV), o co’ suoi
discepoli corre il mondo ammaestrando al bene
(LXXXIII). La Mitologia gli forniva i personaggi
di Narciso (XLVI) e di Ercole (LXX), e a quelle
delle favole mitologiche accoppiava anche la notizia
degli apologhi, eredati da Esopo o inventati nel-
l’ età media, coine quello della volpe e del mulo
(XCIV). La Grecia gli suggeriva i nomi di Melisus
(XXXVIII), di Socrate (LXI), di Diogene (LXVI),
di Aristotile (LXVIII) filosofi; 4’ di Filippo (III),
di Aulix (VIII) reggitori di popoli: di Roma ricor-
dava egli il giovane Papirio (LXVII), Traiano
(LXIX), Seneca (LXXI), Catone (LXXII).!° Rimem-
branze delle Crociate si trovano nelle Novelle del
Soldano e di Fabrac (IX), di Saladino (XXV), !5!
del Soldano e del giudeo (LXXIII). Molto più
sapeva egli dei varj cicli cavallereschi di cotesta
età, e probabilmente quel ch’ egli ridiceva delle
cose greche e romane veniva il più da romanzi
anzichè da storie. Certo la menzione che fa della
guerra Troiana (LXXXI) e dei fatti d’Alessandro
(IV, XIII, XXVII), più che da scritti dell’ anti-
chità classica proviene da scritture romanzesche
dell’età media.‘ Il ciclo carolingio gli parlava con
Carlomagno (XVIII): il brettone coi suoi maggiori
eroi, Merlino (XXVI), Lancillotto (XXVIII, XLV),
Google
E DELLE SUE FONTI 49
Meliadus (LXIII), Tristano e Isotta (LXV), e la
Dama di Scalot (LXXXII). '5
Ma più che tutto conosceva egli i costumi e
gli uomini dell’ età precedente a quella nella quale
viveva, e dei quali i pregj e la fama si erano
andati col tempo accrescendo, tanto da farne l’età
eroica dell’ impero e del feudalismo. Allora infatti
l'autorità imperiale erasi mostrata in tutta la sua
forza, per opera del primo e del secondo Federigo,
nè l’avevano fiaccata i contrasti colla Chiesa e coi
Comuni. Alla fine del dugento, l’età precedente era
conosciuta nelle tradizioni che ne eran rimaste,
e che la poesia aveva illeggiadrite. Dante pur esso,
esalta volontieri i magnanimi Principi svevi; 15
vorrebbe veder rinnovarsi una Corte come quella
di Federigo, ove i dotti fossero accolti ed onorati,
e si formasse una lingua culta, aulica, letteraria,
e rifiorissero i bei costumi che regnavano in Lom-
bardia, prima che questa si soltraesse all’ auto-
rità cesarea. !° Anche il nostro autore, quantunque
popolano e fiorentino, ma probabilmente perchè
ghibellino anch’ esso, !*° ripetutamente esalta le
belle imprese, la saviezza, la cortesia, la magna-
nimità dei due maggiori Svevi (II, XXI, XXII,
XXIII, XXIV, XXX, LIX, XC, GC) e del Re Gur-
rado (XLVII). Ammiratore delle regali costu-
manze, volta in favella volgare e diffonde anche
fra noi le memorie sulla larghezza e sul valore del
Re Giovane (XIX, XX), e sulla prudenza e l’ar-
dire di Riccardo d’ Inghilterra (LXXVI); nè l’esser
partigiano degli Svevi gli vieta di ricordare le
usanze cavalleresche di Carlo « quando era » sol- .
tanto « conte di Angiò (LX) ». In un ordine infe-
D’ ANCONA - II 4
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50 DEL « NOVELLINO »
riore, ma partecipando per nascita o per costumi
o per ufficj a cotesta splendida famiglia feudale,
stanno i tiranni, i grandi signori, e i rettori delle
città, come Ezzelino da Romano (XXXI, LXXXIV),
Paolo Traversaro (XLI), Giacopino Rangone(XLVI),
Lizio di Valbona e Rinieri da Calboli (XLVII),
Castellano de’ Cafferi (LXKXXVIII): i baroni e cava-
lieri, come Riccar Loghercio (XXXII), Imberal del
Balzo (XXXIII) e Roberto d’Ariminimonte (LXII):158
i prelati, come il Vescovo Aldobrandino (XXXIX),
e il Vescovo Mangiadore (LIV): gli uomini di
corte, come il Saladino (XL), Marco Lombardo
(XLIV, LV), Beriuolo (LVIII) e Bito fiorentino
(XCVI): i giuresperiti, come Bulgaro e Martino
(XXIV) e Francesco d’Accorso (L):i medici, come
Mastro Giordano (XI), Mastro Taddeo (XXXV) e
quel da Tolosa (LXIX): gli astrologi della scuola
di Parigi (XXIX); e infine, i trovatori e i poeti,
Guglielmo di Bergdam (XLII), Messer Alamanno
(LXIV), e Migliore degli Abati (LXXX). A compiere
la descrizione di cotesta società, non mancano altri
personaggi degli infimi gradi; le donnicciuole, come
madonna Agnesima (LVII) e la comare della cro-
stata (XCII): il prete spicciolo, come il piovan
Porcellino (LIV): gli studenti (LVI), i mercanti
(XCVII, XCVIII), i popolani (XGVI), le genti di
contado (XCV), e perfino la cortigiana (LXXXVI).
Così questo libro che, a primo aspetto, potrebbe
parere nulla più che un repertorio di bei fatti e
di motti arguti, è anche un ritratto della vita dei
tempi, fatto da un popolano di vivace ingegno e
di svariate letture, quali erano gli artieri di Firenze
al tempo della maggior prosperità e coltura del
Google
E DELLE SUE FONTI 51
Comune. Ch’ ei mettesse insieme il suo libro pel
popolo, come opinò il Ghio, !°° e per far passare
altrui piacevolmente il tempo, non credo: direi
piuttosto volesse con esso compilare, come già
avvertimmo, un manuale pei bei favellatori, un
memoriale per gli uomini di corte, sicchè special-
mente ne ricevessero incremento i bei costumi e
le usanze cortesi delle residenze principesche. 19°
Più che alla letteratura popolare, il Novellino spetta
per questo lato alla cortigiana. Che se apparte-
nesse alla prima, vi si parlerebbe più di miracoli
che di negromanzia (XXI), nè certo vi avrebbe
luogo la Novella dai tre anelli (LXXIII), e quella
di Dio e del giullare (LXXV). Nè il supporre
popolano e fiorentino il nostro autore può farci
tenere come impossibile ch’ egli scrivesse a prefe-
renza pei grandi; o almeno perchè il popolo s’ in-
gentilisse ed emulasse i grandi: e il crederlo anche
Ghibellino 19! induce a congetturare che volesse
cogli esempj raggiungere lo stesso fine a cui Fran-
cesco da Barberino tendeva colle doltrine e coi
precetti. 15? Del resto, più tardi noi vediamo Franco
Sacchetti, sebbene fiorentino e guelfo nell’ anima,
trarre argomento alle sue Novelle sopratutto dai
costumi dei signori e dei tirannelli, e mettere
invece in burla l’ inesperienza e la rozzezza dei
popolani chiamati al governo delle armi ed al
feggimento delle pubbliche faccende. 19
E che l’autore fosse di Firenze già vedemmo
potersi desumere da questo, che le poche Novelle
di costumanze non cavalleresche, ma popolari e
casalinghe (LIV, XCV, XCIX), sono di argomento
fiorentino.!94 Nè la sana critica e la retta conoscenza
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52 DEL « NOVELLINO » E DELLE SUE FONTI
della nostra storia letteraria ci lascerebbe supporre
dettato fuori di Firenze al finir del dugento, un
libro scritto come il nostro. Certo, le altre città
d’ ltalia, e neppur quelle di Toscana, non posse-
devano ancora un linguaggio come questo, povero
beusì nei suoi congegni grammaticali e sintattici,
ima preciso, schietto, efficace, naturalmente ele-
gante. Nel che ci pare che tutti vadano d’accordo
gli scrittori ed i critici, riconoscendo unanime-
mente la fiorentinità dell’ autore: !95 e se taluno
sognò esser il Novellino opera di fra Guidotto da
Bologna, ‘°° fu questa una supposizione campata
in aria, e dettata probabilmente soltanto da boria
municipale.
Ed ora il lettore che ci ha fin qua paziente-
mente seguito, voglia gettar un’ occhiata sulle
notizie che seguono, le quali non saranno inutili a
dargli un chiaro concetto della diffusissima materia
narrativa cui il nostro libro attinse largamente, e
del modo com’esso potè essere dal suo autore
composto.
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NOTE
Il DunLoP, Gesch. d. prosadicht. «ib. v. F. LIEBRECHT
(Berlin, Muller, 1851) è quegli che più ampiamente
ha trattato l’ argomento (pagg. 211-14); ma le
Novelle da lui illustrate nelle fonti non superano
il numero di quindici. Noi ne illustriamo quasi
cento di tre testi diversi.
Cogliamo qui da bel principio l’ occasione di
ringraziare il Dott. RinaLpo KòALER, bibliotecario
di Weimar [ora pur troppo defunto], in cui la
dottrina è pari alla bontà, dell’ aiuto che ci ha
porto, comunicandoci preziose notizie sulle fonti
di alcune Novelle.
?Questo Saggio fu da me la prima volta pubblicato
nella Romania degli anni 1873-74. Ripubblicandolo
poi nella prima edizione di questi Studj lo cor-
ressi qua e là, e vi feci qualche aggiunta, spe-
cialmente rispetto alle origini delle Novelle. Le
correzioni furon dettate dalla necessità di mettere
in armonia il mio seritto colla scoperta fatta da
Gumo Bragi (Le Novelle antiche ecc. con una
Introdue. sulla storia esterna del Testo ecc.,
Firenze, Sansoni, 1880), dei materiali che servi-
rono al BoraHINI per la stampa del 1572. Io dubi-
tava, già nel mio primo scritto, dell’ esistenza di
un testo a penna che combinasse interamente
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D4
DEL « NOVELLINO »
colla stampa dei Giunti. Ora ogni dubbio è tolto :
ed è chiaro che il BoRrGHINI si giovò di varj testi per
formare la sua edizione, qua e là ritoccando anche
il dettato per scrupoli morali e religiosi. [Nel dare
ora in luce un’ altra volta questo saggio debbo tener
conto di altri recenti studj sulle antiche edizioni
e sui mss. del Novellino. Per le edizioni è da
segnalare lo scritto di H. VARNBAGEN, Ueder die
Abhéngigkeit der vier dltesten Drucke des Novel-
lino von einander, in Miscell. di studi crit. editi în
onore di A. Graf, Bergamo, 1903, p. 507, dal quale
riceve conferma la mia opinione che non vi sia
alcuna edizione a stampa anteriore alla gualteruz-
ziana; e l’altro di G. BragI, Ancora l’edizione bor-
ghiniana del Novellino, in Miscell. Hortis, Trieste,
1910, che ci dà altri ragguagli sulla curiosa com-
posizione di quel testo. Intorno ai mss. reca nuove
notizie A. ARUCH, Il ms. Marciano del Novellino,
in Bibliofilia, X (1908) p. 292 e nella recensione
all’ ediz. curata da E. Sicarpi (Strasburgo, Heitz,
1909, Biblioteca romanica, 71-72), in Rass. Bibliogr.
a. Lett. Ital. XVIII (1910), 35. Ora è assodato che
il ms. Marciano, derivante in massima parte dalla
ristampa dell’ediz. gualteruzziana, in qualche luogo
dal testo Borghini, e avente inoltre sue proprie
sostituzioni di novelle, è molto probabilmente
nient’ altro che la copia e imitazione d’ un’ antica
edizione sconosciuta, e come tale non abbia valore
pel testo genuino dell’ opera. Al ms. Panciati-
chiano, che un più accurato esame porta a distin-
guere in due, deve ora attribuirsi molto valore,
poichè esso nella prima parte ci rappresenta da
solo uno dei due rami nei quali si distingue la
tradizione manoscritta del Novellino. — Per la
parte che riguarda le varie redazioni e le loro
relazioni abbia quindi sempre presente il lettore
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E DELLE SUE FONTI 55
che ripubblico lo scritto quale era nel 1880, con
aggiunte in nota].
3 « Il quale ne teneva una copia procuratagli da Giulio
Camillo, e ricavata in detta città (di Bologna) da
un buon testo a penna. Ci manca il mezzo di
sapere se il Gualteruzzi facesse uso nella sua
edizione della copia del Bembo, oppure del testo
da cui tal copia era ricavata »; Prefazione di
G. B. Gaio alla edizione di Torino, Morano, 1802,
p. XXIII.
La lettera di ringraziamento del BemBo a Giulio
Camillo è nel vol. I!I, lib. IIl dell’ Epistolario.
4 Lezione sopra due edizioni del secolo XV, Firenze, 1831.
° Vedili in ZAMBRINI, Le opere volgari a stampa del
sec. XIII e XIV, Bologna, Zanichelli, 1878, col. 613.
6 Prefazione alla edizione del Novellino, Firenze, Bar-
bèra, 1868, p. X.
© Zeno, Annotazioni all’ Eloquenza Italiana del FONTA-
NINI, Venezia, Pasquali, 1753, II, 181.
8 ZAMBRINI, Op. cît., col. 613. Secondo G. Biaai (p. LIX)
sarebbe invece l’ ediz. giuntina. [Su questo esem-
plare, ora appartenente alla biblioteca già Lan-
dau, e che è veramente, come affermavo, una
ristampa dell’ ediz. gualteruzziana, si vedano gli
scritti cit. di A. ARUCH, Il ms. Marc. d. Nov.,
pag. 304, n., e di G. Biagi, Ancora led. borghi-
niana, ecc. Intorno alla prima edizione a stampa
del Novellino niente è mutato di quanto conclu-
devo in questo scritto].
? [Avvertiamo che il Palatino E. 5.7.57 è quello ora
segnato 659]. È del sec. XV, e viene indicato dal
CARBONE, p. XV. Ristampando questo lavoro, rico-
nosciamo col Biagi (pag. XCVIII, che questo
codice è posteriore all’ ediz. gualteruzziana. Con-
corda colla edizione del Gualteruzzi, secondo nota
il CARBONE, p. XII, anche il cod. frammentario
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56
10 Ai
DEL « NOVELLINO »
magliabechiano in-4° del sec. XVI segnato coi
numeri VI, 10, 194, ma monco delle ultime venti
novelle.
codici che riproducono la lezione gualteruzziana
aggiungiamo il 3214 Vaticano, del quale ci diede
notizia L. MANZONI (Rivista di Filologia romanza,
I, p. 72) dicendoci che al dritto della quinta
carta di esso codice « comincia il titolo della
prima Novella, cui fanno seguito tutte le altre
cento con l’ordine in che trovansi nell’ edi-
zione del Benedettîi del 1525 ». Secondo il pro-
fessor Monaci questa sarebbe veramente la copia
fatta da Giulio Camillo Del Minio per commis-
sione del Bembo: ma il Biagi però non ammette,
e con buone ragioni (p. CXVIII), che servisse
in tutto all’ edizione gualteruzziana: e suppone
(p. CXLVI) che il Gualteruzzi o il Del Minio lo
correggessero qua e là, spiegando così le diffe-
renze fra il codice Vaticano e la stampa bolognese.
[Ci consta che il Vaticano 3214, sul quale recen-
temente E. SicARDI fece un’edizione (Le Cento
Novelle Antiche, nella Bibl. Romanica, 71-72,
Strassburgo, Heitz) fu sicuramente di Pietro
Bembo e passò dalle mani di Torquato Bembo a
quelle di Fulvio Orsini nel 1582; v. La Bibliothèque
de F. Orsini par P. pe NoLHaAc, 73ème fasc. de la
Bibl. de l’ École d. Hautes Études, Paris, 1887, p. 104
n. 4, dove è da modificare l’ affermazione (p. 309)
che questo sia il testo usato dal Gualteruzzi. La
collazione dei mss. più affini all’ ediz. gualteruz-
ziana porta ora a ritenere che questa derivi dal
ms. che servì di esemplare al Vaticano 3214; ma
non già direttamente, come mostrò credere il
Braai (op. cîit.. p. CKLVI), bensì per mezzo di due
copie successive, sulle quali si fecero alcune cor-
rezioni al testo alquanto alterato.)
Google
E DELLE SUE FONTI 57
1! Cioè la VI, VII, XII, XVI, XVII, XVIII, XXXVI,
XXXVII, XXXIX. LIV, LVII, LXII, LXXV,
LXXXVI, LXKXXVII, XCI, XCIII del testo gual-
teruzziano. La LXII[ trovasi però, con qualche
varietà di lezione, dopo la Dichiarazioae di alcune
voci antiche.
1? Prefazione a nome del Giunti, e Lettera CXXVII
nelle Prose Fiorentine (ediz. del 1745, part. IV,
vol. IV, p. 333), riferita nella edizione torinese,
p. XLV seg.
13 II FOLLINI (Dissertazione, negli Opuscoli detti di Bor-
gognissanti, vol. V) sembrerebbe credere poco
all’ esistenza di questo codice, quando dice che
del Novellino, il Borghini « fu piuttosto corruttore
che correttore, »
14 Ciò congettura, con molta probabilità, il CARBONE,
Prefazione, p. XII, e meglio prova il Biaci nel
cap. V del suo lavoro, notando le sostituzioni e
le mutazioni fatte dal Borghini per scrupoli di
religione e di morale. Si ricordi che circa lo stesso
tempo, per voler della Inquisizione, usciva a luce
il Decamerone castrato dallo stesso Borghini.
15 Delle diciotto novelle proprie all’ edizione borghi-
niana e delle loro fonti, così dice il BrAaGr: « Dieci
non si trovano in nessuno dei ms. del Novellino
esistenti: e sono la V, XV, LI, LIX, LXVIIJI,
LXXIV, LXXXIX, XCII, XCIX, C. Le rimanenti
otto occorrono nel panciatichiano-palatino, inte-
ramente o in parte (p. CLXXIII). » [E ora si veda
ciò che dice il Braai nell’ ultimo suo scritto cit.]
!6 (Oggi è il Panciatichiano 32 della Bibl.. Nazionale
Centrale di Firenze].
1? La Novella di Messer Dianese e di Messer Gigliotto;
per nozze Zambrini-Della Volpe, Pisa, Nistri, 1868;
Due Novelle Antichissime inedite; pubblicazione
fatta sulla nostra copia dal prof. Pietro Ferrato,
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58 DEL « NOVELLINO »
Venezia, Clementi, 1868. A propositto di questa
pubblicazione, ecco un piccolo ma piccante aned-
doto. Quand’ io stampai la prima di queste novelle,
e poi diedi l’ altre due da stampare al Ferrato,
tacqui il codice onde erano tratte, perchè qualche
impronto non vi ponesse sopra le mani. Intanto,
« un illustre filologo e letterato » ecco che cosa
scriveva in proposito allo ZAMBRINI (Op. volg. a
stampa, col. 703): « Non so se il D'Ancona abbia
voluto far la celia al Ferrato, o se anch’ egli (?) sia
d’ accordo: so solamente che antiche non mi
paiono: anzi la contraffazione mi par tale, che
non ci può rimaner colto se non chi legge sbada-
tamente, o chi non s’ intende di queste cose. » Il
ben intendente « di queste cose », che così scri-
veva al mio vecchio e pregiato amico, e che discor-
rendo con parecchi portava simil sentenza sulla
autenticità delle Novelle, con ugual sapienza filo-
logica e non diversa finezza di giudizio sostenne
esser la Cronica di Dino Compagni falsificazione
di età posteriore. E? nunc erudimini! sulla dot-
trina e sul criterio di certi « illustri filologi e
letterati »!
18 Catalogo dei Novellieri italiani in prosa raccolti e
posseduti da Giovanni Papanti, Livorno, Vigo,
1871. L’appendice ha numerazione a parte di
p. LII. Il Biagi pubblicò poi integralmente questo
codice insieme col Gadd, reliq. 193 nella cit. ediz.
del Novellino, Firenze, 1880, e recente ristampa
senza data, della stessa Ditta Sansoni.
19 Novelluzze tratte dalle Cento antiche secondo la lezione
di un codice manoscritto della r. biblioteca Mar-
ciana, Venezia, Merlo, 1868. Per nozze Zambrini-
Della Volpe; edizione di LXX esemplari.
® Il CARBONE, p. XVI, ricorda anche un cod. lauren-
ziano miscellaneo membranaceo in foglio, del
Google
E DELLE SUE FONTI 59
XIV sec., segnato di n. 193 (Gadd. reliq.), conte-
nente solo trentadue novelle. Al PAPANTI noi
indicammo un codice Magliabech. già strozziano,
cl. XXV, n. 513 [e oggi segnato II, III, 343],
contenente parecchie narrazioni del Novellino, fra
le quali talune inedite, che in numero di dieci
furono stampate nella citata aggiunta al vol. I del
Catalogo. Il Vocab. della Crusca cita un cod. di
Pier del Nero già Guadagni n. 163, ora Palatino
312: V. Tav. delle Abbreviat., p. 123, Firenze,
Cellini, 1862. [All edizione critica già da altri
promessa e invano attesa, attende ora il dottor
A. ARUCH].
21 Su tutti i cod. del Novellino in numero di otto, sono
adesso da vedere le maggiori e più esalte notizie
date dal Biagi, pagg. LXXXVIII e segg. [V. ora
anche A. ARUCH, scritto cit.].
22 Più sotto diremo le ragioni per le quali al gualte-
ruzziano facciamo succedere secondo in ordine il
cod. marciano, e terzo il panciatichiano. [Così
scrivevo, opinando che il testo gualteruzziano
rappresentasse a preferenza degli altri la forma
primitiva del Novellino; e colla lunga argomenta-
zione che segue misi in evidenza come i dati
storici delle Cento novelle entrino tutti nei limiti
del sec. XIII, il che non è di quelli offertici dal
testo borghiniano. A determinare l’età del Novel-
lino i miei argomenti sono tuttora validi, come
mostrerò anche più oltre.]
23 Dedica a mons. Goro Gheri.
24 Alla stessa età mostrano di appartenere anche i così
detti Conti Martelliani, o di antichi cavalicri (edi-
zione Fanfani, Firenze, Baracchi, 1851, e in NAN-
NUCCI, Manuale, II, 85-93, ediz. Barbèra). Ma essi
sono, conforme osserva anche il BARTOLI (I primi
due secoli della letter. ital., Milano, Vallardi, p. 293),
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60 DEL « NOVELLINO »
prette imitazioni e riduzioni dal. francese o dal
provenzale, nè solo i Conti che trattano del Re
giovane o di Folco di Candia, ma anche gli altri
del ciclo cavalleresco troiano e romano. È anche
il Libro dei Sette Savj è da porsi alla fine del
dugento: ma nella edizione nostra (Pisa, Nistri,
1864) crediamo aver provato come esso sia tra-
duzione dal francese. Nel Novellino invece, seb-
bene alcune, anzi molte novelle, sieno imitate o
tradotte da altre lingue, 1’ idea della compilazione
è originale, e originali sono pure molte altre
delle novelle ond’ esso è composto. [Oggi sap-
piamo che i Conti di antichi cavalieri (v. ediz. di
P. Papa in Giorn. Stor. d. Letter. Ital., III, 197)
sebbene imitino o riducano dal francese, diretta-
mente o indirettamente, quanto alla materia caval-
leresca, si attengono invece ad un testo italiano,
e propriamente di dialetto romanesco, quanto ai
Fatti di Troia e di Roma (v. E. G. Panopi, Le
Storie di Cesare nella letter. ital. dei primi secoli,
in Studi di filol. rom., XI, 481-3, ed E. MonACI,
Sul Liber hystoriarum romanorum, in Archivio
della Soc. romana di St. patria, XII (1889) p. 179).]
25 II MAZZucHELLI nelle annotazioni alle Vite di FiLipPO
ViLLani lo fa nascere nel 1233. GiovANNI VILLANI
pone la sua morte nel 1303, ma l’ ALIDOSI vuol
che morisse nel 1299, e il Biscioni « con forti
argomenti ha sostenuto per cosa certa (MAzzu-
CHELLI, 0p. cit.) » che ciò seguisse nel 1296. A Gio-
VANNI VILLANI Si possono contrapporre le autorità
di RiccosaLpo FERRARESE (R. It. Script., IX, 143,
253) e dell’Anonimo CESENATE (Id. îd., XIV, 1122),
che ne pongono la morte al’95: data accolta dal
Sarti e dal TrrasoscHi. Nel 1293, Taddeo era
invitato a Venezia da quel comune, come si legge
in ROMANIN, Storia di Venez., II, 397.
Google
E DELLE SUE FONTI 61
* SARTI, De prof. bonon., I, 1, 467.
" Libro di Novelle e di bel parlar gentile, ecc. Firenze,
Vanni, 1778, I, 169.
® DANTE, De Vulg. eloq., I, 12.
% 1240: sexto Idus sextilis Paulus Traversarius Raven-
nae decessit, sepultus est in divae Mariae cogno-
mento Rotundae templo, summa ac pene regia
funeris pompa: lib. VI.
% ViLani, VII, 120. Vedi su Marco le notizie raccolte
dallo ScARTAZZINI a commento della menzione
dantesca.
3 Vedi Chron. Parm. (in Rer. Ital. Script., IX, 776):
MCCLII, Dominus Raynerius de Calbulo de Fa-
ventia fuit Potestas Parmae. Questa citazione
traggo dal Commento dello ScARTAZZINI ai v. 88
c. XIV del Pwurg., dove però, per sbaglio è detto
Mantova invece di Parma.
% Aldobrandinus sive Ildebrandinus e nobilissima Caval-
cantia familia.... subletus urbevetanus episcopus
anno 1271.... haud sine sanctimoniae laude illam
rexit usque ad annum 1279, quo tempore Flo-
rentiae e vivis exempius est, die 30 mensis Augusti :
UGcBELLI, Ital. sacra, I, col. 1472.
® L'edizione del Tosi, Milano, 1895, p. 73, scrive erro-
neamente « il vescovo mangiadore. »
“ UGcELLI, Ital. sacra, II, 121.
$ Manni, ed. cit., II, 119. — Il MANNI, I, 182, vorrebbe
poi che il Giacopino Rangone della novella XLIII
fosse un figlio di Gherardo, potestà di Bologna
nel 1245; ma al PARENTI (Scelta di Novelle Antiche,
Modena, Soliani, 1826, p. 83), ciò pare incerto,
« essendovi stato più di un Giacopino Rangone
circa il tempo a cui si riferiscono queste novelle ».
Noi crediamo però che il MANNI abbia ragione,
essendo quel Jacopino di Gherardo conosciutis-
simo in Toscana, ove era stato Potestà a Siena
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62
%6 (3.
DEL « NOVELLINO >»
nel 1235 (v. Der, Cron. San., in Rer. Ital. Script.,
XV, 25) e nel ‘60 a Firenze, comandando le milizie
nell’ infelice battaglia di Montaperti. L’ ultima
sua potesteria conosciuta è a Parma nel 1278.
B. GHIO osserva che di Ezelino si tratta nelle
novelle XXXI e LXXXIV; e dall’ esser detto nella
seconda che Ezelino fu preso e morto nella bat-
taglia di Cassano, ne arguisce, forse un poco
troppo arditamente, che la prima fu scritta vivente
il feroce signore, e l’altra dopo morto; ma che
ad ogni modo, e qui consentiremmo più volen-
tieri con lui, ambedue furono composte « intorno
alla metà del sec. XIII, poco più poco meno »;
Pref. all’ ediz. torinese, p. VIII.
37 Siniscalco del Venasino nel 1233. Vedi PaPon, MHist.
de Provence, II, 313; GALVANI, Osservae. sulla
poesia dei Trovatori, Modena, Soliani, 1839, p. 497.
38 L’AMBROSOLI, Manuale della Letterat. (Firenze, Bar-
bèra, 1866, vol. I, p. 50), per notizia a lui comu-
nicata dal prof. Nova, ci fa sapere che qui non
trattasi di uno schiavo, ma di un Michael Sclavus,
che nel 925 fu in Bari catapàno, e perciò anche
giudice supremo. Il PikROTTI (Le Cento Nov.
Ant., Milano, Bettoni, 1869, p. 16), osserva che
schiavo potrebbe essere corruzione di scabdino, e
cita la Cronaca del Volturno dove trovansi men-
zionati Ansericum sclabum, Josephum sclabum. E
infatti il MuRATORI (Antig. M. Aev., X), scrive:
Nisi alii ibi sclabi sunt, nisi Scabini. L’articolo
preposto alla parola e le frasi del novelliere, con-
fortano, dice il PIEROTTI, questa spiegazione. Certo
è che presso i nostri antichi, lo Schiavo di Bari
divenne un tipo di perfetta giustizia e di sapienza,
come si vede dal BaRrBkRINO (Reggimenti delle
donne, par. 1), e dalla Dottrina dello Schiavo di
Bari (ed. Zambrini, in Scelta di curiosità, n. XI).
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E DELLE SUE FONTI 63
La citazione storica dell’AmBRrosoLi e la filologica
del PieRorTI, sfuggirono al WksseLoFsKY quando
in un suo articolo intorno ad alcuni testi dei dia-
letti dell’ Alta Italia (Propugnatore, vol. V), andò
cercando il perchè di cotesto epiteto di schiavo.
[Il Rajna ci ha dato ora importanti notizie sullo
Schiavo di Bari, rimatore volgare che sta fra il XII
e il XIII sec. e può con verosimiglianza identificarsi
col giudice della nostra Novella. (V. in Bibl. delle
scuole ital. Serie III, anno X (1904), n. 18). Si veda
anche: F. ScANDONE, Lo Schiavo di Bari israelita ?
per Nozze Fedele-De Fabritiis, Napoli, 1908].
3 Anche nelle Nov. XXIV e XXV del Papanti vien
ricordato Corso Donati: ma dalla XXIII in poi
coteste Novelle sono tratte non più dal panciati-
chiano-palatino, ma dal cod. strozziano-magliab.
Dal quale proviene anche la XXXII ove si men-
ziona Madonna Felice moglie di Messer Ugo da
Ricasoli. Di Ughi Ricasoli molti sono ricordati dal
PASSERINI (vedi Genealog. della Famiglia Ricasoli,
Firenze, Cellini, 1861) ma, escludendo quello che
fu monaco (p. 48), resterebbero uno fiorito verso
il 115, altro morto nel 1310, e un terzo morto
nel 1297, che ebbe in dominio quel castello gen-
tilizio di Ricasoli di cui fa menzione la Novella.
Questo è forse il marito di Madonna Felice: ma
bisognerebbe sapere anche qualche cosa di pre-
ciso su Guido di Messer Ubertino dei Pazzi e su
Monaldo da Soffena, forse il poeta, de’ quali pur
dice cotesta stessa Novella. Di Ser Monaldo da
Soffena è fatta menzione per una carta notarile
del settembre 1290 nei Ricordi di Guipo DELL’AN-
TELLA (Arch. Stor., vol. IV, p. 8).
‘TroyA, Del Veltro allegorico de’ Ghibellini, Napoli,
Vaglio, 1856, p. 10.
NI, 84; e Sigilli, XV, 118.
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64 DEI « NOVELLINO »
4: BAROZZI, Accenni a cose venete nel pocna di Dante,
in Dante e il suo secolo, p. 805.
43 Purgat. XVI. Dante riparla di Gherardo, ma come
di persona morta (fosse stato) nel libro IV del
Convito: e tutti gli arzigogoli del FRATICELLI non
giungono a provare che Gherardo fosse morto
nel ’97, e che Dante dandolo per vivo nel 1300
commettesse un volontario anacronismo.
44 I, 87.
45 Diremmo piuttosto 1339, perchè se nel 1329, die XXVI
Augusti, Ricardus, Tinus et Sichinus omnes de
Manfredi reversi sunt Faventiam, Ricciardo fu da
solo tiranno di Faenza nel 1339: die VII Ianuarii
1339, Rizardus de Manfredi ascendit palatium
Faventio (Cronica breviora, in MITTARELLI, Acces-
siones, Venetiis, 1771, col. 326). Egli morì nel-
l’anno 1340, XIII Augusti: D. Rizardus de Man-
fredis ex hanc vitam migravit (Id. id.) La Novella
dice che « avea sì fatto che in Faenza nè in Forlì
non gli era rimaso amico ». Parrebbe quasi da
queste parole che Ricciardo fosse anche signore
di Forlì: ma Forlì fu sempre in quel tempo degli
Ordelaffi o della Chiesa (BonoLI, Ist. di Forlì, 1661,
p. 140-2): e perciò, o deve dire Imola di cui Ric-
ciardo si era impossessato innanzi, o deve accen-
nare ad amici e fautori che potesse avere in Forlì.
Nella Novella si ricorda anche Francesco da Cal-
boli consigliere di Ricciardo, che potrebbe essere
quel Franciscum de Calbolo episcopum caesenatem,
del quale parlano all’ anno 1334 gli Annales cae-
senates (in MuraATORI Rer. It. Script., XIX, 1159).
46 I, 89.
41 MANNI, Sigilli, XXV, 105.
48 I, 89.
49 II, 24.
50 Appendice alla Illustrazione storica del Boccaccio
scritta da D. M. Manni, Milano, Pirotta, 1820, p. 12.
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E DELLE SUE FONTI 65
51 Fables inédites, etc. Paris, 1825, I, pag. CCIV. A pa-
gina CXLVIII il RoBERT assevera che il Romanzo
di Renart le contrefait, ove pur trovasi la Novella
dei due ciechi, ha due diverse redazioni: l’ una
del 1322, l’ altra posteriore al 1328: nella prima
la scena è posta a Roma ed è il Papa che dà i
due pani, nella seconda si tratta di Filippo re di
Francia. Il RoBERT sostiene che il Novellino è
della fine del sec. XIV, ed uno dei suoi argo-
menti (p. GCIV) è che il re giovane di Inghilterra
non può essere se non il Principe Nero, morto
verso il 1376. Ora il Re Giovane è figlio di Enrico II;
e bastava, per non confonderlo col Principe Nero,
notare come nella Nov. XIX si dica che Bertram
dal Bornio era suo consigliere ed amico.
5* Il Biagi (pag. XGVII) dice dei primi del sec. XVI,
ma sembra errore di stampa, per XIV. [Il ms.,
secondo osservazioni più recenti, pare tutto della
prima metà del sec. XIV; ma la Novella in que-
stione è nella meno antica delle due parti in cui
esso si distingue. (V. ARUCH, op. cit., p. 14-15; e
cfr. I cod. panciatich. della R. Bibl. Naz. Centrale
di Firenze (Indici e Cataloghi), Roma, 1887, p. 64).|
ss H. MARTIN, Hist. de France, Paris, Furne, 1861, IV,
p. 73 e 8egg-
5 [EmrLio RE nel suo scritto Una novella romana del
Novellino e V età probabile del ms. Panciatichiano
(in Bull. d. Soc. Filol. Romana, n. X, 1907), appog-
giandosi ed un passo del VILLANI (X, 87) vorrebbe
che la Nov. si riferisse a fatti avvenuti intorno al
primo quarto del secolo XIV. Egli anche identifica
la « grande e gentile donna » della Nov. 54 Borghini
(ed. Biagi, p. 149) con una Mabilia Savelli che,
vedova d’uno Stefaneschi, si fece sposa di quell’Aga-
pito Colonna menzionato alla fine della Novella.
E questa reputa scritta dopo il 1347 (p. 63). Da
tutto ciò trae vantaggio la mia conclusione finale.]
D'Ancona II 5
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66 DEL « NOVELLINO »
55 Op. cit., p. 13.
56 Op. cît., p. 12, 13.
s? Hortunatus Siculus ossia lAvventuroso Ciciliano di
Busone da Gubbio. Romanzo storico scritto nel
MCCCXI, ed ora per la prima volta pubblicato da
F. Nott, Firenze, all'insegna di Dante, 1839. Vedi
a pag. 274.
58 Pag. 274.
58 Poniamo qui a confronto un brano secondo il testo
francese dell’ Ordene de Chevalerie (in BARBAZAN-
Mfon, Fabliaux, etc. Paris, Crapelet, 1808, I, 66),
e secondo le versioni italiane del Borghini, di
Bosone, e del Doni.
Testo francese
Après deus esperons li mist
En ses deus piés, et si li dist:
Sire, tout autressi isniaus
Que vos volez qe vos chevaus
Soit de bien corre entalentez,
Quant vous des esperons ferez,
K°' il voist par tout isnelement,
Et cha ot là à vo talent,
Senefient chist esperon,
Qui doré sont tout environ,
Que vous aiiez bien en corage
De Diu servir tout vostre éage;
Car tuit li chevalier si font
Qui Diu aiment de cuer parfont,
Adès le servent de cuer fin.
Moult piave: bien Salehadin.
Après li a chainte l° espée.
Salehadin à demandée
La senefiance del branc.
Sire, fet-il, chou est garant
Contre |’ assaut de l’ anemi, etc.
Bosone
Appresso gli calzò un paio di
sproni d’oro, e gli disse: Signiore,
questi sproni ci significano che
tutti altresì justi e altresi intalen-
tati come noi vogliamo che i nostri
cavalli siano alla richiesta di nostri
sproni, altresi justo e altresi inta-
lentato dovete essere voi al nostro
Signiore servire, ed a fare i suoi
‘comandamenti. Appresso ciò gli
cinse una spada col pomo e l’ elsa
d’oro, e poscia gli disse: Signiore,
questa spada ci significa sicurtà
ncontro al diavolo, etc.
Google
Testo Borghini
Appresso gli calzò uno spe-
rone d’oro o dorato, e gli disse:
Signore, questo sprone ci significa
altresì giusti e altresì intalentati,
come noi vogliamo che nostri ca-
valli siano, dovete voi essere a
nostro Signore servire, ed a fare
i suoi eormandamenti. Appresso
ciò gli cinse una spada, e poscia
gli disse: Signore, questa spada
ci significa sicurtà contro al dia-
volo, etc.
Dons
Appresso 4a calzò uno sprone
d’oro ovvero dorato, e sì gli disse:
Signore, questo sprone ci significa
che tutti altresì justi e altresì inta-
lentati, come noi vogliamo che i
nostri cavalli siano alla richiesta
de’ nostri sproni, altresi justi e
altresì intalentati dovemo essere
a nostro Signore ed a fare i suoi
comandamenti. Appresso ciò gli
cinse una spada, e poscia gli
disse: Signore, questa spada ci
Significa sicurtà contro il dia-
volo, etc.
E DELLE SUE FONTI 67
60 Novelliere Ital., Venezia, 1754, I, Prefaz. p. XIV. Il
TiraBoscHI (Storia della Letterat. dal MCCC al
MCCCC, lib. III, cap. 2, $ 52), dice, citando questa
prefazione: « ove però non sembrami abbastanza
provato ch’ esse siano scritte poco dopo la morte
di Ezelino da Romano. »
61 Pag. VIII-IX.
62 Avvertimenti della lingua, lib. II, c. 13.
63 Appendice, ete., p. 13.
6 Pref., pag. 3. Proseguendo, dice il MANNI: « Maggior-
mente sembra che si apponesse circa all’ età con-
troversa di quest’ opera, o per meglio dire non
concordemente da ognuno ravvisata, il celebre
ANTONMARIA SALVINI che ha sommi meriti colla
Repubblica letteraria, ne’ Discorsi Accademici. »
Qual fosse l’ opinione del SaLvini non è detto:
nè mi è riuscito trovarla dando una scorsa ai titoli
dei Discorsi: chè quanto a leggerli, non mici sento
proprio il coraggio.
6 Opere, Lugo, 1829, II, 239.
6 Prefazione all’ ediz. modenese del 1826, p. XVIII.
61 Prefazione all’ediz. fiorentina del Barbèra, 1868, p. VI.
6 Libro III, p. 97, dell’ediz. del Carbone, Firenze,
Barbèra, 1868. Vedi del resto la nota del Det
LunGo a questo luogo della sua edizione, p. 382.
6 Inferno, XXXIII.
? CANALE, Nuova Ist. della Repubbl. di Genova, Firenze,
Le Monnier, 1860, vol. I£I, p. 108, 373.
71 Debbo questa notizia al cortese cav. L. T. BeLGRANO
segretario della società Ligure di storia patria.
Il documento è nel ToLa, Codex diplom. Sardiniae,
I, 402. [Ora si sa che Branca Doria, padre di
Bernabò, morì nel 1325, ma certo assai vecchio,
anche se resulti inverosimile che l’anno di sua
nascita sia il 1233. Ma il fatto della Novella meglio
si addice a lui giovane, se non è da attribuire
all’ altro Branca D. figlio di Manuellino che il
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68 DEL « NOVELLINO »
23 dicembre del 1207 non era ancora diciassettene,
a quanto leggiamo in M. BRANCA, Il delitto di
Branca Doria (in Arch. Stor. Sardo, IV, pp. 335-
336). Ciò che narra la Novella risalirà al 1280, e
anche più addietro, se si tratti del Branca più
vecchio; al 1290, o giù di lì, se di quello più
giovane. Non si escirà, in ogni caso, dal sec. XIII.]
72 Avvertasi che nella edizione del VILLANI, secondo il
lesto latino laurenziano pubblicato dal GALLETTI
(Florentiae, Mazzoni, 1847, p. 13) si legge: Hic
Bononiae obiit anno gratiae MCCXCVIII, e l’edi-
tore malamente aggiunge fra parentesi: immo
MCCCIX. È inutile dunque allegare il testo del
VILLANI in favore della data 1309.
7 Nota 80.
14 Storia del diritto romano nel Medio Evo, traduz. ita-
liana, Firenze, Batelli, 1844. Cap. XLIII, vol. II,
parte II, p. 156.
5 De Prof. bonon., 181.
% TiraBOSCHI, Sf. della Lett. It. dal MCLXXXIII fino
al MCCC, lib. II, cap. IV, $ 21.
1 Inferno, XV, 110.
#8 SAVIGNY, Op. cit., p. 154.
7 [Sebbene il testo Panciatichiano sia stato mostrato
più importante che prima non si credesse, gli
argomenti che mi portarono a determinare l’ età
del Novellino non han bisogno di esser mutati
neppure oggi dopo molti anni. Il ms. Panciati-
chiano nella sua prima parte, che rappresenta
meglio la forma più antica della raccolta, ci trat-
tiene nei limiti del secolo XIII pur coi due per-
sonaggi Maso Leonardi e Ciolo degli Abati, i soli
che abbiano importanza per determinare l’età,
oltre quelli che esso ms. ha comuni colla reda-
zione delle Cento novelle; cfr. ARUCH, Rass. Bibl.
da. Lett. It. cit., p. Dl.|
Google
E DELLE SUE FONTI 69
80 11 FOLLINI (Dissertaz. citata), detto di non attenersi
al testo del Borghini, che colle sue surrogazioni
non permise « ai letterati un poco accorti di poter
credere quella collezione tanto antica », aggiunge:
« Io parlo delle vecchie edizioni genuine, secondo
le quali credo che si possa stabilire la sua età
verso il 1280. » E questo giudizio conforta anche
colla ragione, non so quanto valevole, che il
Novellino « non ha punto profittato della nobilis-
sima musa » di Dante.
8 Ormai per l’ industria e l’ acume di G. Biagi è pro-
vato che il testo Borghini è messo insieme da
varj manoscritti: niuno dei quali contiene fatti
posteriori al 1340, anno al quale si riferiscono
quelli di Ricciardo Manfredi.
® Pag. VII.
83 Prefazione giuntina (ediz. Torin., p. LIII). Cfr. anche
la Lettera dello stesso BoraHINI nelle Prose Fio-
rentine. Il BoraHINI che prendeva qua e là per
rifare il numero delle cento, dopo espulse le dicias-
sette gualteruzziane, sapeva bene che così il libro
veniva ad esser opera di « varie persone »!
4 Pag. VIII.
8 Pag. IX.
8 Pag. VI.
87 Pag. XII, XVI.
8 Qui deve alludersi allo ZANNETTI nella Prefazione al
Novelliere Italiano, Venezia, Pasquali, 1754, vol. I,
pag. XIII.
8 Pag. IX.
% Pag. XVII.
9 Manuale della letterat. del primo secolo, Firenze, Bar-
bèra, 1858, II, 300.
9? Prefaz., pag. VIII.
93 I primi due secoli della letteratura italiana, Milano,
Vallardi, 1873, p. 293.
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70 DEL « NOVELLINO »
% Histor., III, 15.
9% Vedi Trattato de regimine rectoris di Fra PAOLINO
MinorITA, pubbl. da Adolfo Mussafia, Vienna,
Tendler, 1868, p. 130.
9% Delle storie contra li pagani di Paolo Orosio. volga-
rizzamento di Bono Giamboni, pubbl. dal doltor
Francesco Tassi, Firenze, Baracchi, 1849.
9 Vedi anche un art. del P. Sorio nell’ Etruria. 1, 347.
9% Numerato nella Chigiana, L, VII, 267. i
9 Fiore di Filosofi e di molti savi, pubbl. da A. CAP-
PELLI, Bologna, Romagnoli, 1865, p. XVI. [E si
veda ora che cosa conclude il più recente editore:
H. VARNHAGEN, Ueber die Fiori e Vita di filosofi ed
altri savi ed imperadori ecc. Erlangen, Junge, 1893,
pag. XXVII, sull’ autore di questa raccolta, e
sulle relazioni di essa col Novellino, pag. XX.]
100 Vedi la confutazione di questa sentenza nella Pre-
fazione all’ ediz. torinese, pag. XVIII.
101 Prefas. del CARBONE, pag. VIII.
102 Vedi nell’Etruria, anno I, p. 18 e seg., un articolo
biografico e bibliografico del CoLom8 DE BATINES
su Andrea Lancia. In esso si citano atti privati
e pubblici del Lancia dal 1315 al 1351 ed oltre.
L’ Etruria ha pur pubblicato, I, 367, un volgariz-
zamento di legge suntuaria fiorentina del 1355,
fatto dal Lancia nel ’56. E nello stesso giornale a
p. 140 e segg. è anche una Lezione intorno alle
opere di A. Lancia di Luria: BENCINI.
10 CARBONE, Prefae., pag. VIII.
10* Dagli spogli del Borghini rinvenuti dal Braar si
rileva che queste tre Novelle sono « cavate d’ un
Comento delle Epistole d’ Ovidio volgare d’un
Filippo Bocca di Lampada intorno all’ anno 1300. »
Le novelle borghiniane 15, 16, 74, 85 si dicono
tolte « d’ un foglio antichissimo che serviva per
coverta d’ un libro » (BragI, pag. CXCVI-VII). Di
Google
E DELLE SUE FONTI 71
più, da una Nota degli Scambiamenti, pur rinve-
nuta dal Braai negli autografi borghiniani, si
rileva che realmente la Nov. 92 fu tolta da un
volgarizzamento di Livio, e la 99 dalla Tavola
rotonda.
106 Testo Borghini
Fue un giovane Re in una
isola di mare, di grandissima forza
e di gran potere, essendo molto
giovane quanto per terra gover-
nare. E quando cominciò a regnare
si lolse per moglie una giovane
donzella ed artificiosa e sottile in
male più che in bene etc.
Testo Carbone
Uno giovane re fue in un
isola di mare, di grande forza e
di grande potere, ma molto era
giovane quanto per terra gover-
nare. (Quando cominciò a regnare
si tolse per moglie una giovane
donzella sottile e artificiosa in
male ete.
Del resto, vedi meglio le differenze fra i diversi
testi delle tre Novelle inserite dal BorcHINI nella
sua edizione del Novellino, nella pubblicazione di
G. PAPANTI, Novelle di ser Andrea Lancia, Bologna,
Romagnoli, 1873.
16 Prefaz., pag. IX.
10 Veramente vi è qualche differenza fra il volgarizza-
mento antico edito dal DALMAZZO, e il testo Bor-
ghiniano. Eccone un esempio:
Testo Borghini
esse volte facevano bada-
lucchì per occupare il ponte che
era nel miluogo: no ’l potea leg-
ermente prendere 1’ una parte nè
altra. Aflora venne uno de’ Galli
a mezzo il ponte con grande bur-
banza, che molto era bello del
corpo a grande maraviglia, e gridò
ad alta boce: vegna innanzi il più
forte di tutti i Romani, e combat-
tasi meco a corpo a corpo, accioc-
chè la fine della nostra battaglia
mostri quale gente sia più da pre-
lare in fatti d’ arme. Li principi
e' Romani si tacenno grande
pezza, abbiendo onta ciascuno di
rifiutare la battaglia e dottando
d’imprendere primo l’ ultimo peri-
colo, etc.
Testo Dalmazzo (11, 163).
Spesse volte facevano bada-
lucchi per occupare il ponte, e
leggermente nol poteano prendere
l’ una parte nè l’altra. Allora
venne uno de’ Galli a mezzo il
ponte, il quale avea il corpo bello
e grande a maraviglia, e gridò ad
alta voce: Venga innanzi il più
forte di tutti i Rioînani, e combat-
tasi meco, acciò che la fine della
nostra battaglia mostri quale gente
sia più da pregiare in fatti d’ arme.
I prineipi de’ giovani si tacettero
grande pezza, avendo onta di rifiu-
tare la battaglia, e non volendosi
alcuno mettere innanzi al primo
pericolo, etc.
Per spiegare queste differenze, il prof. DatL-
MAZZO dice che la Novella fu copiata da un ms. di
Google
79 DEL « NOVELLINO »
seconda dettatura o recensione, e precisamente da
un testo del Borghini.
108 Prefae., p. IX.
109 È vero che la Novella è più lunga nel Doni che nel
BoRGHINI, ma non si potrebbe dire che il BoRGHINI
l’ abbia smozzicata in principio ed in fine, spe-
cialmente trovando nel cod. Palat. panciat., n. 38,
p. 130, una versione anche più corta che quella
borghiniana. Infatti essa comincia dalle parole:
« Primieramente il suo corpo e la sua barba li
fece più bellamente apparecchéare » e va sino alla
fine con lievissime differenze dalla stampa. Il
cod. mostra essere del sec. XIV, seconda metà.
110 Del reggimento e de’ costumi delle donne di m. FR. DA
BarBERINO, Milano, Silvestri, 1842, p. 29.
111 Nei brani pubblicatine dal prof. BARTSCH (nel Jakr-
buch f. roman. literat., XI, 43 e seg.), vien citato
questo Fior di Novelle, ma dal contesto non si
ricava se sia scrittura dell’autore: Ef de hoc scripta
aliqua in libro Florum novellarum sepius allegato.
Altrove cita dicta,... domini Guill’ i de Bergadamo,
e le «UWusionibus domini Guill’'i de Bergadam. Più
innanzi è detto: Dicit.... monachus de Montaldo
provincialis etc. Hoc quidem dicium reperii cum
suis multis pulcris circa principium illius libri
provincialis cujus est rubrica talis: Flores dictorum
nobilium provincialium. Finchè non si esamini il
cod. non mi libererò dal sospetto che il los
novellarum e i Flores dictorum mnobilium provin-
cialium non siano la stessa cosa. [Fortunatamente
non che distrutti, i Documenti d’Amore e il loro
commento sono venuti oggi alla luce quasi per
intiero nell’ edizione diplomatica a cura della
Società Filologica Romana 1902 e seg. Già nel 1883
A. THOMAS, avendo potuto studiare l’ inedito Com-
mento, mise in chiaro che F. da B. compose real-
Google
E DELLE SUE FONTI 73
mente dei Flores Novellarum (così ci avverte ch’ è
più esattamente il nome dell’ opera), e distinse
questi dai Flores dictorum nobilium provincialium,
i quali ultimi congetturò fossero una raccolta di
notizie biografiche e aneddoti su varj poeti pro-
venzali (v. Fr. da Barberino et la litt. provene. en
Italie au M. Age, Paris, Thorin, 1883. pp. 83 e
110). Recentemente tornò sulla questione R. ORTIZ
(Zeitschrift fùr roman. philol., XXVIII, 556 e seg.)
trattandone alquanto confusamente e senza farla
avanzare di un passo. Egli mostra ritenere che i
Flores Novellarum potrebber derivare dai Flores
dictorum mnobilium provincialium, e soggiunge:
«In questo caso il Novellino, che manifestamente
risente tanto del provenzale e il cui titolo di Fiore
di bel parlar gentile sembra una traduzione bella
e buona dell’ altro: Flores dictorum nobilium pro-
vincialium dove il parlar corrisponde al dictorum
ed è da intendere nel senso di nmovellare, e il
gentile coincide a capello col nodilium, non potrebbe
avere qualche relazione coi Flores di cui ci occu-
piamo e rappresentare magari una delle opere, in
cui il B. ha émbreviato i suoi Flores novellarum? »
(2. cit., p. 557, nota 3). Ma questi sforzi resultano
vani del tutto quando si osservi come sia illusoria
la mostrata corrispondenza dei nomi, giacchè il
Novellino ha per titolo Libro di novelle e di bel
parlar gentile (ediz. Biagi, p. 3) e non già Fiore
di bel parlar gentile. La vecchia opinione che a
Francesco da Barberino sia da attribuire il Novel-
lino o parte di esso non ha dunque trovato oggi
migliori sostenitori di quelli contro cui scrivevo
un tempo le pagine qui sopra, ed in tanta scarsità
di notizie sui due Flores citati dal B. e con tale
debolezza di argomenti, non ci sentiamo davvero
di concludere coll’ O. (p. 558) che « una certa rela-
Google
74 DEL « NOVELLINO >»
zione bisogna pure ammettere fra esso (Novellino),
i Flores dictorum e i Flores novellarum del B. »]
112 Negli estratti del BARTScA veggo menzionato il Ber-
gadam e un libro in cui ne è fatta menzione, ma
non si rileva se il libro sia del BarsERINO o
d’ altri, perchè è citazione monca (fol. 9, v.°): Ut
corda eorum crescere facias, recita de magnificis
gestis precedentium.... et de multis bellis ex Tito
Livio, et de brevibus dictis Beltram del Born,
Bernard del Ventador, Guill’i Aesmar, domini
Raymundi de Andegavia, Giraut de Brunel et
multorum, de quibus hoc libro reperies ex provin-
cialibus mentionem, et de illusionibus domini
Quill''i de Bergadam aliquantum. Non potrebbe
l’ hoc libro riferirsi al Commento stesso marginale ?
113 Quel Messer Beriola potrebbe esser lo stesso che
Messer Beriuolo nominato nella nov. LVII gual-
teruzz. Ma non potrebbe anche aver |’ Ubaldini
equivocato col trovatore Peirols, se per avventura
questi fosse citato, fra i tanti, nel commento bar-
beriniano ?
U4 Prefaz., pag. XIX.
115 Lesioni accademiche del GC. GiovANNI GALVANI. Mo-
dena, Vincenzi e Rossi, 1840, II, 195.
116 Id. id., p. 197.
117 Pag. 207.
118 Bologna, Romagnoli, 1870.
119 Pag. VI.
120 Il PirROTTI invece, che mise fuori la sua Adone
un anno dopo il CARBONE, accetta l’ipotesi del
l’ UsaLDINI e del GALVANI, opinando che al Bar-
berino « molte novelle appartengano » e special-
mente quelle di stile più vivace, di immagini più
serene e gentili, che narrano di armi e di amore
o di nuove cortesie. Di più aggiunge che « a rite-
nere ciò ne conforta l’ onestà che sempre servò
Google
R DELLE SUE FONTI 75
il Barberino nelle sue seritture, e direi quasi
un’ alterezza signorile » (pag. XIII).
121 Pag. VIII.
122 « Vedi per es. nel principio della novella di Gioietta,
quante parole per dirci le buone qualità di Cor-
rado! »
123 Op. cîit., p. 296.
124 Citiamo, quantunque per esser tirata a soli 26 esem-
plari, non sia nelle mani di molti, ia splendida
edizione delle Novelle di Messer Francesco da
Barberino tratte dal libro del Reggimento e de’ co-
stumi delle donne, messa in ordine dal comm.
FRANCESCO ZAMBRINI, Offerta da Giovanni Papanti
per le nozze Bongi-Ranalli, nel 1868, e stam-
pata a Bologna nella Tipografia del Progresso.
A p. 17 si legge: « Fui una fiata in Vinegia.
Vedemmo una bella donna ecc. ». A p. 22: « Io
mi ricordo ch’ io vidi una fiata una gentil donna ».
A p. 31: « Essendo io alla detta Badia, ecc. ».
A p. 54: « Essendo io una fiata a Parigi, dissemi
uno cavaliere, ecc. ». A p. 62: « Passandome per
Alvernia, fummi mostrato presso a N. D. del
Poggio un castello del nome del quale non mi
ricorda, ecc. ». A p. 79: « Ebbe in quella con-
trada, secondo mi disse uno canonico della chiesa
maggiore, ecc. ». A p. 91: « Ricordami che si
mantenne più bella la madre, ecc. ». A p. 92:
« Io pur la vidi invecchiare, ecc. ». A p. 95:
‘« Vid’ io questa non so come, divenir bianca ».
Altre volte si citano le fonti: a p. 38: « Nel libro
di Madonna Mogias d’Egitto.... si dice, ecc. ».
A p. 42: « Raceonta Pietro Vidale.... et adduce
di ciò un esempio ». A p. 45: « Leggesi nel libro
di Madonna Mogias d’ Egitto del quale si fa di
sovra menzione, ecc. ». A p. 59: « La Contessa
di Dio.... sicondo ch’ella dice in un swuo trat-
Google
76 DEL « NOVELLINO »
tato, ecc. ». E notisi che le Novelle non sono più
di XXII, sicchè può dirsi costante l’ uso del Bar-
berino di citare o un libro o le proprie rimem-
branze per autenticare la Novella.
12 Prefaz. alla ediz. giuntina (ediz. torinese, pag. LIII).
126 Prefae., pag. VI.
127 Prefas., pag. XII.
128 CARBONE, Prefae., pag. I; BARTOLI, op. cit., p. 296.
129 Nella Nov. XXX dicesi che « Messer Azzolino aveva
uno suo novellatore, il quale facea favolare quando
erano le notti grandi di verno. » E la LXXXIX
dice di una brigata di cavalieri che « cenavano
una sera in una gran casa fiorentina, et aveavi
un uomo di corte, il quale era grandissimo favel-
latore; quando ebbero cenato, cominciò una Novella
che non ne venìa meno. »
130 Tuttavia è da notare che lo scrittore nel Proemio
quasi si accusa di mischiare i fiori « intra molte
altre parole. »
131 fanno eccezione soltanto la Novella di Bito e ser
Frulli (KXCVI) e la bella Novella d'amore (XCIX).
13? Ciò si vedrà meglio dalle notizie sulle ..fonti delle
Novelle. Del resto l’ autore indica implicitamente
queste ed altre simiglianti raccolte dicendo nel
proemio di fare « secondo che per lo PISRRO pas-
sato hanno fatto già molti ». |
133 Questo testo è quello che va sotto il nome del TRA-
PEZUNZIO, ma il BARTHIUS (Advers., c. 10), 1 OuDIN
(I, 1750) e tutti i critici unanimemente lo credono
più antico, e postogli il nome del TRAPEZUNZIO
dallo stampatore solo per maggiormente accredi-
tarlo. Noi citiamo secondo l’ edizione: S. J. DAMA-
SCENI, Hist. de vitis et rebus gestis Sanctor. Barl. et
Josaph. ecc. (Antverpiae, Bellerum, cap. 30, p. 261).
E il testo concorda abbastanza col greco del Bors-
SONADE, Anecd. graeca, IV, 268, e col posteriore
Google
E DELLE SUE FONTI TÌ
volgarizzamento latino del BiLLio (in Rosweip,
Vitae patrum, Antverpiae, MDCXV, p. 313).
14 Roma, Mordacchini, 1816, p. 105.
1% 4 Selection of Latin stories, London, 1842, p. 7.
136 Una forma totalmente diversa, che si discosta dalle
fonti originali non solo nelle riflessioni, ma nelle
ragioni stesse astrologiche del celare che fa il
padre il figliuolo, sostituendovi un esperimento
per sapere « come nasce l’ amore tra l’uomo e la
femmina, » trovasi nella Nov. XIX del cod. pan-
ciatichiano, secondo la stampa del Papanti. Tali
varietà dal comune testo medievale, indicano una
posteriore e più libera versione, che serve di pas-
saggio a quella delle oche di ser Filippo nella
introduzione alla giornata IV del Decamerone.
[Avvertiamo che la lezione di questa Novella,
secondo i mss. che oggi si ritengono più autore-
voli, è un po’ diversa e meno lontana in qualche
luogo dal testo latino, di quel che sia la raffron-
tata lezione gualteruzziana. Ciò si deve in parte
alla corruzione che ha subito evidentemente que-
st’ ultima in alcuni passi, mentre in altri appaiono
le traccie di qualche rimaneggiamento cosciente.
La lezione che presentiamo secondo il cod. Pan-
ciatichiano, colle varianti più notevoli del Maglia-
bechiano, II, III, 343 (M), è ancora assai magra,
e il lettore che faccia il raffronto, pur modificando
qualche mia osservazione, potrà tuttora servirsi
di questa Novella per riconoscere (ciò che altre
gli mostrerebbero anche più chiaramente) la neces-
sità d’una spiegazione quale è quella che diedi in
queste pagine. — Panciat. c. 18%-19* (ed. Biagi,
p. 25); M, c. 742:« A uno Re nacque uno figliuolo.
Li savi strologi providdero [M: dissono] che 8° elli
non stesse X anni che non vedesse lo sole, che
perderebe lo vedere. Onde {M: Allora] lo Re lo
Google
18
DEL « NOVELLINO >
fece guardare & passato li X anni [M: passati
dieci anni) sì li fece mostrare lo mondo & lo
cielo, lo mare, l’oro & l’argento & le bestie [M: e
bestiame] & giente; tra l’altre cose li fece mostrare
belle femine. Lo giovano [M: Que] dimandò chi
erano [M: chi lle femine fossero] & lo Re li fece
dire ch’ erano dimoni [M aggiunge: Allora i’ re
il fecie domandare qual più gli piacesse]. Allotta
lo giovano disse [M: il gouano parlò e disse]: Li
dimoni mi piacciono sopra tutte l’ altre cose. & lo
Re disse [M: Allora disse il padre]: Ben si può
vedere che istrana {M: tirana] cosa he bellezze
[M: bellore] di femina [M: femine]. »
137 [Si abbia ora riguardo a ciò che del ms. Marciano
ho detto a p. 5i in fine della nota 2.]
138 Sono in ciò discorde dal BARTOLI (op. cit., pp.-288-9),
che vorrebbe anteriore il lesto panciatichiano
appunto perchè più ampio. Egli dice non potersi
supporre « che sul testo Gualteruzzi altri in quei
tempi medesimi avesse composto per esercizio
rettorico un più diffuso componimento. » Qui però
non ci ha che fare la rettorica, e io farei torto
alla dottrina del Bartoli citandogli molti casi,
simili a questo ch'egli nega d’ammettere, comu-
nissimi nella letteratura medievale. — « Da una
parte, prosegue il BartoLI, abbiamo uno sche-
letro, dall’ altro ci sta davanti una persona viva ».
Siam d’ accordo; ma lo scheletro riceve via via
ossa, polpe e sangue; così accade in moltitudine
di casi, nelle opere letterarie: far di un uomo
uno scheletro e non altro, è opera di anatomisti.
[Il BartoLI tornò a sostenere la dottrina qui da
me contraddetta nel III vol. della sua Storia della
Letter. Ital., Firenze, Sansoni, 1880, p. 200. Ma
gli studj più recenti sul ms. Panciatichiano hanno
rivendicato a me una buona parte di ragione, in
Google
E DELLE SUE FONTI 79
quanto è stato assodato che le Novelle più ampie
in fine del ms. sono posteriori al Novellino, dalle
quali alcune d’ esse derivano, come già accennavo
nella nota che segue (vedi E. Rk, op. cit., p. 63).
Tuttavia, per ciò che soggiungo sulla composi-
zione del codice Panciat., si veda ora ARUCH, op.
cit., pp. 42 e seg.]
159 Vedi ad es. la Novella di Narciso (Gualt., XLVI)
che il codice panciatichiano narra due volte:
I° una con semplici varianti, l’ altra con più ampio
svolgimento (nov. X, Papanti). Anche la Novella
tratta dal Barlaam vi è narrata due volte: una
come nel Gualteruzzi, o presso o poco, l’altra
come si vede nella XIX del Papanti. Un’ altra,
quella di Migliore degli Abati, è pur due volte
nel cod. con variazioni insignificanti. Qualche
Novella del Gualteruzzi è nel cod. panciat. divisa
in due.
140 Novella I.
141 Il BoRGHINI, Pref., (ediz. torinese, pag. LI) negando
all’ opera il nome postole dal Gualteruzzi di Cento
Novelle Antiche, dice: « non pure nello scritto in
penna non abbiamo mai trovato alcuno con tal
titolo, ma neanche non abbiamo in penna però
nessun veduto col numero di cento appunto. »
A questa erronea asserzione, meglio che il codice
Palatino n. 57, che secondo il Biagi è posteriore
alla stampa gualteruzziana, risponde il cod. vati-
cano 3214 che concorda coll’edizione del Benedetti.
Anche il cod. mutilo magliabechiano concorda,
a detta del CarBONE (pag. XII) colla stampa del
Benedetti, salvo la mancanza delle ultime venti.
Tuttavia il CARBONE accetta (pag. X) la supposi-
zione del BorGHINI, e dice averne avuto « pienis-
sima riprova » dal codice Laurenziano 193 « dove
le novelle sono poco più di trenta, non seguitano
Go gle
80 DEL « NOVELLINO »
in tutto l'ordine delle stampe, non hanno rubriche
nè enumerazione alcuna, e sono senza fallo da
riputarsi fra le più antiche ». Escluderebbe il
CARBONE l’ ipotesi che qui si avesse soltanto una
scelta del Cento novelle primitivo? [Ora, pur non
potendosi affermare che la raccolta di cento novelle
sia la primitiva, resta sempre il valore del proe-
mio a determinare l’ unità dell’ opera originaria,
la cui ampiezza tuttavia non è dato precisare.
Quanto al Laurenziano-Gaddiano 193, esso rap-
presenta veramente una scelta, sebbene non del
Cento Novelle.]
142 Dichiarazione delle Voci: lettera S. (ediz. Torinese,
pag. LXXIII).
143 Dal francese probabilmente derivano molte che pur
non sono di soggetto francese. Le novelle tratte
dai romanzi cavallereschi sono composte proba-
bilmente su esemplari francesi (IV, IX, XIII,
XVIII, XXVII, XXVIII, XLV, XLVI, LXHI, LXV,
LXXXI, LXXXII). Anche quelle del Re Giovane
e di Riccardo d’ Inghilterra possono venire dalla
lingua d’ oc come da quella d’oil. Soggetto francese
hanno poi quella del Borghese di Francia (XXVI),
quella della costuma che era nello reame di Francia
(XXVIII), quella degli astrologi di Parigi (XXIX),
quella di Messer Roberto di Ariminimonte (Remi-
remont?) in Borgogna (LXII), ecc.
144 Novellino provenzale, pag. VI.
145 Così anche taluni passi del Novellino borghiniano si
intendono soltanto avendo ricorso ad un testo
latino. Veggasi ad es. questo brano di Novella,
che par malamente incastrato nella LXXIV bor-
ghiniana: « Molte volte si conduce l’uomo a ben
fare, a speranza di merito o d’ altro suo vantaggio,
più che per propria virtù; perciò è senno da cui
l’uomo vuole alcuna cosa, metterlo prima in spe-
Google
E DELLE SUE FONTI 81
ranza di bene, anzi che faccia la domanda. La
vecchia consigliò che non potea riavere un suo
tesoro, ecc. » Chi sia e donde venga fuori « la
vecchia » non s'intende, salvo ricorrendo al testo
latino (Disciplina clericalis, Parisiis, 1824, 91-9)
donde la materia fu presa, abbreviandola, e come
stroncandola; e dove è scritto: « Vetula jusserit....
vetula surrexit et inquit, ecc. »
46 Non siamo i primi a ricercare l’autore del Novel-
lino, nè la ricerca è propria soltanto della critica
moderna. ]l Mussaria ha nel Jahrbuch f. roman.
literat. (1867), VIII, 214, dato notizia di un antico
codice marciano, dove si trova l’ indice di certi
lavori biografico-storici di un ignoto M. Antonio
Niccoletti, che è gran peccato sieno andati per-
duti. Il NiccOLETTI avea scritto, oltre che su
Nicolò da Casola bolognese, e sugli scrittori
de’ Fatti de’ Troiani, dei Romani, di Artù, degli
amori di Florio e Biancofiore, de’ Reali di Fran-
cia, ecc., anche « sullo scrittor delle Cento Novelle
Antiche. » Se queste vite si ritrovassero, certo
sarebbero di grande aiuto agli studj di storia
letteraria. [Purtroppo il rinvenimento delle bio-
grafie di M. A. Niccoletti, autografe, presso il
conte Francesco di Monzano, già nel 1879 segnalate
anche dallo HortIs in una giunta alla sua opera
sugli Scritti latini del Boccaccio, ha procurato
una delusione di più, e non piccola, agli studiosi.
Su « Lo scrittore delle cento novelle antiche » il
NiccoLETTI ci regala qualche frase, vuota del tutto
d'una qualunque notizia: v. V. CRESCINI, Per gli
studi romanzi. Saggi e appunti, Padova, Draghi,
1892, pp. 174-175].
“Qualche cenno sulla cultura popolare nel 300 e sui
fonti di essa, applicabile del resto anche ai tempi
antecedenti, ho dato nello scritto: Una poesia ed
D'Axcona - II 6
Google
82 DEL « NOVELLINO »
una prosa di Antonio Pucci, inserito nel Propu-
gnatore, 1870, disp. V, VI.
148 [Prendendo il codice Panciatichiano vi troviamo
ancora nominati parecchi altri personaggi della
Bibbia nei numeri XVIII e XXXIV dell’ ed. BraGi,
pp. 25, 26 e 43).
{49 [Altri racconti derivati dai Féori e vita di filosofî, ecc.,
o, comunque, dalle Vite di Diogene Laerzio, sono
nel ms. Panciat., e si riferiscono a Diogene (BraaI,
XLVIII, p. 58), Tullio (B. LV, p. 63 e LXVII,
p. 74), Socrale (LXII, p. 69), Nasimondro (sic)
(LXXIV, p. 79), Aristotile (LXXVI, p. 80)].
150 [E si aggiungano Giulio Cesare e Nerone: v. ed. Biagi,
XXXIV, p. 43].
151 [Del Saladino si fa ricordo anche nel ms. Panciat.;
v. ed. Biagi, XXXIV, p. 43).
2 [V. anche Biagi, XVIII e XXXIV, pp. 25 e 43].
153 [Alcuni nomi del ciclo arturiano ci vengono innanzi
anche nei due luoghi cit. nella precedente nota.
Su Merlino, il Panciat. ci dà altre due narrazioni;
v. Biagi, p. 72 e 76].
54 Vulg. Elog., I, 12; Purg., 3.
155 Purg. XVI, 110.
156 Abbiamo supposto che il Novellino potesse esser
scritto tra il 1280 e il’90. I Ghibellini furono
pacificati coi Guelfi e rimessi in Firenze nel °78
e 79, e furono fiaccati soltanto, come parte poli-
tica, colla battaglia contro i Ghibellini d’ Arezzo
nell’ 89 a Campaldino.
157 [Anche nel ms. Panciat. (c. 26%, Biagi, p. 43) si ricorda
« lo giovano Re d' Inghilterra che donò tutto »].
158 [Coi quali andranno Messer Amari e Don Degio di
Fienaia (Biagi, pag. 35 e 59)].
:9 « Sarei inclinato a credere che coloro che tali novelle
composero, fossero varie persone piacevoli ed
ingegnose che le scrissero nello schietto e bel
Google
E DELLE SUE FONTI 83
modo che in quei felici tempi della Repubblica
fiorentina parlavasi, non per farla da letterati,
ma per contarle al volgo, e porgergli così materia
di trattenimento nelle ore vote e nojose, e massi-
mamente nella sera in tempo d'inverno »: Pre-
fazione, pag. X.
160 « Meglio che al popolo si volge ai baroni ed ai
cavalieri, e dalle loro avventure più spesso tragge
argomento di novelle e di esempj »: PIEROTTI,
Prefazione, pag. XIV. [Movendo dalla mia con-
gettura, E. Sicarpi giunge addirittura all’ ipotesi
che nell’ autore stesso debba vedersi appunto uno
di questi « bei favellatori » : v. op. cit., p. 8 seg.].
41 Ghibellino lo riconoscono i più: v. fra gli altri, il
MANNI, il GHIOo e dietro loro il FERRARIO, Prefa-
zione all’ ediz. dei classici, 1804, pag. VIII.
2 Vedi nel DeL Lungo, Dino Compagni e la sua Cro-
naca, vol. I, pag. 409 e seg., alcune argute con-
siderazioni sul Commento latino del Barberino, e
sulla relazione delle dottrine in esso contenute
con il fine per cui fu composto il nostro libro.
13 Vedi ad es. le Novelle di Castruccio (V), di Rodolfo
da Camerino (VII, XXVIII, XL, XLI), e di molti
altri capitani di ventura e signorotti; e per contro,
le Novelle degli ambasciadori senesi (XXX), di
quelli del Casentino (XXXI), dei tre fiorentini al
tempo della guerra di Pisa (XXXVI), di Agnolo
di Ser Gherardo (LXIV), di Messer Rinaldello
dell’ Oreno (CXXVII), ecc.
1 [Il che conferma l’ ArucH, op. cît., p. 51, mettendo
in evidenza, oltre Maso Leonardo e Ciolo Abati
(ed. BrAGI, p. 22), un altro anonimo fiorentino
che fa la sua comparsa nel ms. Panciatichiano
(c. 26a-b, Biagi, p. 43)].
15 Prefue. torinese, pag. XXII-XV, XIX; Prefaz. del
FerRARIO alla ediz. Milanese, pag. VIII.
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84 DEL « NOVELLINO > E DELLE SUE FONTI
166 Lo ZAMBRINI alla col. 613 del suo Catalogo delle opere
volgari a stampa, ecc., ci dà la notizia che il
sig. GIANSANTE VARRINI in un suo Discorso su
Iacopo della Lana volle sostenere che il Novellino
fosse di fra Guidotto. Ignoro quali fossero le
ragioni addotte in favor di questa ipotesi: anzi
se pur se ne adducano: dirò soltanto come è
perfin dubbio se Guidotto scrivesse in volgare il
suo Fiore di Rettorica. Vedi la citata opera dello
ZAMBRINI, col. 500. Ne dubitarono, come avverte
il NANNUCcCcI, Manwale II. 116, anche il SALVINI,
il SALVIATI, il CoLomBo: anzi un codice citato dal
NANNUCCI, accusa il frate Bolognese di plagio del-
l’opera, scritta primamente dal GIAMBONI.
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LE FONTI DEL NOVELLINO,
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TESTO GUALTERUZZI
NOVELLA I.
Della ricca ambascieria, la quale fece lo Presto
Giovanni al nobile imperadore Federigo.
Il Presto Giovanni manda ambasciatori all’ Im-
perator Federigo, per provar s’ ei fosse savio in
opere e in parlare; gli ambasciatori debbono do-
nargli tre pietre preziose e dimandargli qual’è la
miglior cosa del mondo. Federigo accetta le tre
pietre e, senza ricercare della virtù loro, le fa riporre
nel suo tesoro: indi manda per risposta che la
miglior cosa del mondo è misura. Il Presto Gio-
vanni considerando che il dono era stato male
speso, manda alla corte imperiale un suo lapidaro
valentissimo in legar pietre. L’ Imperatore gli dà
anche le tre pietre, e poichè l’una di esse ha virtù
di celare chi la stringa in pugno, il lapidaro
scappa via e le riporta al suo signore.
Con lievi variazioni è la Nov. I del Testo Borghini.
Vedi nella Romanîia vol. V, p. 76 (ann. 1876)
un art. di R. KOALER dove si mette a paragone con
questa Novella un racconto islandese del sec. XIV
pubblic. da K. Gisuason (Copenhague, 1860; vedi
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88 LE FONTI
anche Gkring, JIslandisch. Legend, Novell. ecc.
Halle, 1884, II, 157). Il fondo del racconto è identico,
ma il K6BLER giudica la lezione italiana più antica
o almeno più compiuta, talchè può dirsi contenere o
l’originale stesso o una forma a questo assai vicina.
Il KéaLkeR fa pur osservare che alcune frasi della
Novella rassomigliano assai ad alcuni passi della
Epistola Johannis regis Indiae Emanueli regi Grae-
corum missa, et ab ipso Friderico imperatori directa,
che trovasi anche nella Cronaca di ALBERICO DELLE
TRE FONTANE, e fu ripubblicata dallo ZarNcKE a
Lipsia, Edelmann, nel 1878. (V. anche lo studio dello
stesso Z. in Abhandlungen der K. Scichsichen Ge-
sellschaft der Wissenschaft. (philol.-histor. Klasse)
VII, 1007). È assai probabile pertanto che la Novella
nascesse dalla apocrifa lettera, e che si diffondesse
nelle varie parti di Europa, tanto da giungere sino
in Sslanda.
NOVELLA III.
D'un savio greco che uno ve teneva in prigione
come giudicò d'uno destriero.
Un greco giudica che un cavallo fu nudrito a
latte d’asina, dal vedergli tenere le orecchie chi-
nate; che una pietra preziosa ha un verme dentro,
perchè è calda, anzichè fredda come naturalmente
dovrebbe essere, e che finalmente il re, al quale
ha dato siffatte prove di recondita sapienza, è figlio
di un panettiere, perchè in rimerito gli ha dato
un mezzo pane per giorno, laddove se fosse vero
figlio di re, avrebbegli dovuto dare in dono almeno
una nobile città. |
È con lievi variazioni la II del Testo B., e,
molto più svolta, la X del Papanti..
Google
DEL « NOVELLINO » 89
Il raeconto è di origine orientale, e come osservò
già il DunLoPp, Gesch. d. Prosadicht. &bers. v. Liz-
BRECHT (Berlin, Miiller, 1851, p. 212), si ritrova
nella Novella dei tre figli del Sultano di Yemen, e
meglio in quella dei Tre avventurieri e del Sultano,
tradotta dallo Scott (Tales, ecc. transl. from the
arab. and pers.). Vedilo anche nella traduzione
tedesca delle Mille e una notte di HaBicHT e Von
DER Hagazn (nott. 458) e nelle Mille et une nutts
(ediz. LoiseLEUR-DESsLONacHAMPS, Paris, Panthéon
littér., 1841, p. 686-94). Nella Vita di Virgilio di
Donato questo aneddoto è appropriato al gran poeta
latino; ma come osserva il prof. COMPARETTI (Vir-
gilio nel M. Evo, Livorno, 1872, II, 141) non trovasi
nei manoscritti di Donato anteriori al sec. XV,
sicchè debba considerarsi come interpolazione poste-
riore. È anche nel libro spagnolo de Los enxem-
plos, n. CCXLVII (in GayANGOoSs, Escritores en prosa
anter. al siglo XV, Madrid, Rivadeneyra, 1860,
p. 508), che l’ editore aggiudica al secolo decimo-
terzo. Si trova anche in greco moderno nella Histoire
de Ptocholéon, publ. par E. LeGRrAND (n. 19 della
Collection des monuments pour servir à l'étude de
la langue néo-hellénique), e in WAGNER (Carmina
graeca medii aevi, p. 277-303), nonchè in Giprt,
Nouvelles études de littérat. grecq. moderne, Paris,
Maisonneuve, 1878, p. 383 e segg. e Annuaire de
l’ussociat. pour les études grecq., 1872, p. 53. Per
altri raffronti, vedi DunLOP, op. cit., p. 487, not. 282.
È la terza delle Cinque Novelle antiche inedite,
pubbl. da G. PapantTi per nozze d’Ancona-Nissim
(Livorno, Vigo, 1851), tralte da prediche anonime
del sec. XV.
Su questo tema in generale, e sulle sue molte
varianti, una delle quali è nèi Peregrinaggio di tre
giovani figliuoli del re Serendippo di M. Cristo-
Google
90 LE FONTI
roro ARMENO (Venezia, 1577) e un’altra notissima
nel Zadig di Vorrarre, vedi specialmente BenFEY
in Orient u. Occia. III, 257, e I. Lévi, Trois contes
juives, in Rev. des étud. juiv. XI, dove sono riferite
o indicate altre numerose versioni orientali. Altre
ancora ne riferisce R. Basset, in Revue d. tradit.
popul., XI, 365, e in Contes popul. d’Afrique, Paris,
Guilmoto, s. a., pp. 48, 109. Vedi anche la Storia
di Rohako in F. L. PuLLé, Un progenitore indiano
di Bertoldo, Venezia, Antonelli, 1888, p. XXV, XXIX,
e 22. — Si raccosta al ciclo anche la 1* delle Novelle
di G. SERCAMBI, ediz. Renier, Torino, Loescher, 1889.
NOVELLA IV.
Come uno giullare sî compianse dinanzi ad Ales-
‘sandro d’ un cavaliere al quale elli avea donato,
per intenzione che °l1 cavaliere li donerebbe ciò
che Alessandro li donasse.
Un povero cavaliere andando al campo di Ales-
sandro che assediava Gadre (Gadres = Gaza), trova
per via un giocolare bene in arnese, e riceve da
lui armi e cavallo col patto che gli darebbe in
cambio ciò che avesse dalla liberalità di Alessandro.
Questi gli dà il possesso della vinta città; ma il
cavaliere chiede invece oro, argento o robe, e ottiene
due mila marchi. Il giullare si richiama di lui
innanzi Alessandro, e il cavaliere si difende dicendo
di aver chiesto ciò che meglio si confaceva alla
condizione del suo creditore : e Alessandro e i
baroni lo prosciolgono, commendandolo di gran
sapienza.
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DEL « NOVELLINO >» 91
Con leggiere varianti è la III B.
Il FAvRE (Recherches sur les hist. fabul. d’ Ale-
randre, in Mélang. d’ hist. littér., Genève, 1856,
II, 122) dice che il racconto sembra esser preso dai
trovatori, ma realmente il fatto trovasi narrato nel
poema francese di LAMBERT LE TORT e ALEXANDRE
De BeRNAY (ediz. MicHELANT, Stuttgart, 1846, p. 222),
salvochéè il cavaliere non chiede per il giullare, ma
per sè, rinunziando al dono della città, perchè gli
costerebbe troppa fatica il difenderla.
NOVELLA VI.
Come a David re venne in pensero di volere sapere
quanti fussero i sudditi suoî.
A Dio spiace quest’atto di vanagloria di David,
e gli manda l’angelo suo, perchè in pena del pec-
cato scelga egli o di stare tre anniin inferno, o tre
mesi nelle mani dei suoi nemici, o rimanersi al
giudicio del Signore. Egli sceglie quest’ultimo par-
tito, e Dio manda la morìa nel popolo d’ Israele,
sicchè scema quel gran numero di sudditi onde il
re si gloriò. Un giorno che David s’ incontra col-
l'angelo sterminatore, prega Dio che colpisca lui
solo colpevole, e allora il Signore gli perdona.
La fonte sarebbe il secondo libro dei RF, capi-
tolo XXIV, se non che ivi invece dell’ angelo è il
profeta Gad che dà a David la scelta fra sette anni
di carestia, tre mesi di fuga al cospetto degli
avversarj che lo inseguono, o tre giorni di pesti-
lenza: ma David si rimette nelle mani del Signore,
che manda l’ ultimo flagello. Il resto concorda.
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99 LE FONTI
NOVELLA VII.
Qui conta come l'Angelo parlò a Salamone, e disse
che torrebbe Domeneddio il reame al figliuolo
per li suoî peccati.
Si narra come Dio volle punire Salamone to-
gliendo la successione a Roboamo, e come questi,
dopo consigliato ottimamente dai seniori, seguisse
invece il consiglio dei giovani incauti, e così per-
desse la più gran parte del reame.
Ciò leggesi nel lib. III dei Re, cap. XI-XII.
NOVELLA VIII.
Come un figliuolo di un re donò a un re di Siria
scacciato.
Un giovane principe dà tutto il suo tesoro a
un re dì Siria, il quale sì aveva saputo fare per
sua follia che i sudditi l’avevano scacciato. Inter-
rogato del perchè ciò avesse fatto, risponde al
padre che doveva gratitudine a colui, per avergli
insegnato tanto che i futuri sudditi proprj non
cacceranno lui.
Con poche variazioni è la VII B.
ll DunLoP (op. cît., p. 212) trova da raffrontare
questa Novella con quella dei Gesta Romanorum
(p. 82, ediz. Oesterley), ma il LikBRECAT (nota 283)
a ragione non vi trova nessuna rassomiglianza.
Piuttosto potrebbe dirsi che avesse qualche ana-
logia coll’ altra dello stesso libro al cap. 74 (ediz.
Google
DEL « NOVELLINO » 93
Keller; ediz. Swan, I, 257; ediz. Madden, p. 496;
Violier, p. 182).
NOVELLA IX.
Qui si determina una quistione e sentenzia che fu
data în Alessandria.
Un poveretto di Alessandria non avendo altro
cibo che un pezzo di pane, lo mette sul fumo
che esce dalle vivande del cuoco Fabrac, il quale
vorrebbe fargli pagare ciò che gli ha preso. Vanno
innanzi al Soldano, che dopo gran disputa fra i
suoi savj, sentenzia che il cuoco si contenti del
semplice suono di una moneta, e questo riceva in
pagamento.
Con leggerissime variazioni è la VIII B.
La Novella del pagamento del fumo fatto col
suono de’ danari trovasi fra gli « exempla » di frate
Bono Stoppani da Como (v. A. OLDbRINI, L'ultimo
favolista mediev., in Studi Mediev. I (1906), 203,
n. XXIX), raccolti intorno al 1360; e, trasportata
la scena in Parigi, in unà Novella francese del
sec. XV (E. LanGLOIS, Nouvelles francatses inéd.
du quinzième siècle, Paris, 1908, chap. IX, p. 52; e
anche in Rev. d. études Rabelaisiennes, I pp. 222-4).
Un racconto simile al nostro trovasi pure nel PAULI
Schimpf und Ernst (ediz. Oesterley, Stuttgart, 1866,
n. 48); e alle abbondanti citazioni dell’ editore a
p. 478 aggiungasi anche la citazione di RABET.A18,
. III, cap. 36, a proposito del quale è da veder la
bibliografia di molte versioni data da P. ToLpo,
(Rev. d. études Rabelaîsiennes, I, 13-23).
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94
LE FONTI
Molti racconti si trovano simili a questo, come
quello della musica pagata a suon di parole (Les
AvadAnas, Contes et apologues indiens, trad. St.
JuLien, Paris, Duprat, 1859, I, 108): quello del
prezzo accordato alla cortigiana Tonide contro un
giovine che l’aveva goduta in sogno (PLUTARCO,
ediz. Reiske, V, 48, VI, 150, VII, 318, etc., etc.).
Vedi anche R. Basset, Contes et légendes de la Gréce
ancienne, in Revue d. traditions populaires, XVI,
p. 635-36, XVIII, n. 2. Non dissimile è il giudizio
che in Oriente è appropriato al Re Boccori contro
una cortigiana che in sogno era stata goduta da
un mercante, e che reclamava il premio di cinque
cavalli a lei promessi se il mercante fosse riuscito
ad averla. Ma fu giudicato che si contentasse di
vederne l’ ombra nell’ acqua; cfr. Benrey, Intro-
duzione al Pantschtantra; LieBRECHT, in Jahrbuch
fiir roman. und engl. litter., II, p. 147; F. L. PuLLÈ,
Un progenitore indiano del Bertoldo, Venezia, Anto-
nelli, 1888, p. XXIV ecc. G. LumRRoso, in Rendi-
conti d. Accad. dei Lincei, III, vol. XI, p. 303, ein
Archivio delle tradis. popol., I, 969, illustrando un
dipinto pompeiano in cui ravvisa un giudizio di
Boccori, reca prove della diffusione in Grecia della
tradizione orientale su questo re, ricordato, oltre
che da Plutarco, anche da Diodoro Siculo, Cle-
mente Alessandrino ecc. A questo proposito ricor-
diamo anche che il prof. E. Lorwy ha additato un
dipinto affine del colombatio Pamphili (v. Aneddoti
giudiziarii dipinti ecc. in Rendic. Lincei, VI,
fasc. I). Il Papanti (G. B. Passano e i Novellieri
in prosa indicati e descritti, Note ecc. Livorno,
Vigo, 1878), annovera (p. 57) parecchie imitazioni
moderne di questa Novella, tra le quali una del
poeta milanese BALESTRIERI (n. 205).
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DEL « NOVELLINO >» 95
NOVELLA X.
Qui conta d’ una bella sentenzia che diè lo Schiavo
di Bari tra uno borghese el un pellegrino.
Un barese partendo in romeaggio, lascia tre-
cento bisanti ad un amico, dicendogli che se non
tornerà, li spenda a suo modo, ma se tornerà,
gliene darà quello che vorrà. Ritorna infatti e
chiede il suo: ma l’altro gli dà solo dieci bisanti
e ritiene i dugentonovanta. Vanno innanzi allo
Schiavo di Bari che sentenzia così : poichè il patto
fu che tu rendessi ciò che vorrai, e tu vuoi tenere
i dugentonovanta ducati, questi restituirai, e avrai
per te i dieci che non volevi.
Il prof. WesskLOFSKI (Intorno ad alcuni testi nei
dialetti dell’ alta Italia, in Propugnatore, V, 390)
vorrebbe trovar in questo racconto la prima e più
semplice forma di una narrazione del ciclo salo-
monico, che potrebbe nominarsi de furto, la quale
poi ebbe a mischiarsi « con altro ciclo leggendario
di indole buddistica ». Egli cita in proposito le
notizie raccolte nel proprio libro I racconti slavi
di Salomone e Centauro e le leggende europee intorno
a Morolfo e Merlino (Pietroburgo, 1872, in russo,
p. 60-97), nonchè il Pantschatantra, BENFEY, I,
393-404. Realmente però ai luoghi citati si menzio-
nano Novelle di sentenze e giudizj in favore del
debole oppresso, ma non ci sembra trovarci nulla
che proprio ricordi la nostra Novella. Invece leg-
giamo che un giudizio molto simile a quello della
nostra Novella è attribuito in Sicilia a Carlo V e
più tardi al Duca d’ Ossuna (v. SaLomonE-MaRINO,
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96 LE FONTI
Spigolature storiche Siciliane ecc. Palermo, Lau-
riel, 1887, p. 82). Sullo Schiavo di Bari, rimatore
volgare che sta fra il sec. XII e il XIII, e può vero-
similmente identificarsi col giudice della nostra
Novella, sì vedano le importanti notizie date da
P. RAJna, Lo Schiavo di Bari, in Biblioteca delle
scuole îtal., serie 1II, anno X (1904), n. 18, e altre
di F. Scanvon=, Lo Schiavo di Bari israelita?
per Nozze Fedele-De Fabritiis, Napoli, 1908.
NOVELLA XI.
Qui conta come Mastro Giordano fu ingannato
da un suo falso discepolo.
Il discepolo per diminuire il pregio del suo
maestro di medicina pone di nascosto il veleno
sulla lingua d’ un infermo.
Il Gaspany (Storia della letter. ital., trad. da
N. Zingarelli, I, Torino, 1887, p. 435) ci addita
come fonte della Novella un passo del Liber Ipo-
cratis de infirmitatibus equorum (v. Trattati di
Mascalcia attribuiti a Ippocrate ecc. per cura di
L. BanrsierI, in Collez. di opere ined. o rare,
Bologna, Romagnoli, 1865, p. 102).
£
NOVELLA XII.
Qui conta dell'onore che Aminadab fece al Re David
suo natural signore.
Aminadab siniscalco di David sta per prendere
una città dei Filistei, ma per fare onore al suo
re, fingendo che il campo si ribellasse, lo manda
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DEL « NOVELLINO » 97
a chiamare, sicchè sia suo tutto il pregio della
vittoria.
La fonte è la Bibbia, ma anche qui citata non
senza errore: dacchè nel IJ dei Re cap. XII si
legge il fatto appropriato a Joab, combattente
contro gli Ammoniti.
NOVELLA XIV.
Come uno re fece nodrire un suo figliuolo dieci
anni in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte
le cose, e più li piacque le femmine.
Un principe viene fin dalla nascita tenuto rin-
. chiuso: quando, compiuti i dieci anni, può uscire
e gli si mostrano tutte le cose più belle, le donne
gli piacciono sopra tutte, MRSRSUDgLO gli si dica
che sono dèmoni.
Con lieve varianti è la XIII B., e, più ampia-
mente svolta, la XIX P.
È questo il notissimo episodio del Romanso di
Barlaam e Josafat, che nella versione italiana pub-
blicata dal Bottari (Roma, Mordacchini, 1816) leg-
gesi a p. 104. Il Du Mérir (Hist. Poés. Scandin.,
p. 348) trova una rassomiglianza, non disdetta
dal Lik8REcHT (Fonti del Barlaam e Josafat, in
D’AncOoNA, Sacre rappresentazioni, Firenze, Le Mon-
nier, 1872, II, 161), tra questo racconto e un epi-
sodio del Ramayana. Il vero è che ivi il romito
indiano Riscyasringo, che non ha mai visto donne,
prende quelle che vengono a sedurlo, non per
dèmoni, o paperi come è nel Buccaccio (Decam.,
Introd. Giorn. IV) ma per « anacoreti con occhi
sfavillanti... simili a cosa sopraumana (trad. Gor-
RES10, Milano, 1869, I, 33) ». Intorno alla forma
D'Ancona - II 7
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LE FONTI
«che la Novella ha nel Mahabharata è ora da vedere
lo studio di M. KkRBAKER, La leggenda epica di
Rishyasringa, in Raccolta di studi critici dedic. «ad
A. D'Ancona, Firenze, 1901, p. 465 e seg., dove si
menzionano altri riscontri indiani. In una Novella
africana (R. BassET, Contes popul. d’Afrique, p. 127)
in modo più conforme alla tradizione nostra, il
giovane protagonista alla vista degli esseri scono-
sciuti viene informato dal padre che sono demoni.
La Novella trovasi anche nelle Latin Stories di
WriGHT (London, 1848, ai n. 3, e 78), e con qualche
diversità nel Libro de li exempli in antico veneziano,
ed. da J. ULRIcA in Scelta di curiosità lett., ecc.
Bologna, Romagnoli, 1891, disp. 239, p. 139, e
v. Romania, XIII, 51. Alle citazioni già fatte in
questo proposito dallo ScAMIDT (Beitr. 2. Gesck. d.
romant. Poes., Berlin, 1818, p. 27), dal DunLoP-
LieBRECHT (Oper. cit., p. 230, 462), dal Von DER
Hagen (Gesammtabent., Stuttgart, 1850, II, VII),
dal LAnpAU (Die Quell. d. Decamer., Wien, Prandel,
1869, p. 70), aggiungansi anche quelle del Fior di
Virtù (nello ZAMBRINI, Libro di Novelle, Bologna,
Romagnoli, 1868, p. 49), e del libro de los Enxem-
plos, n. CCXXXI. Prima del La FOnTAINE aveva
narrato l’aneddoto in poesia francese Martin FrANC,
morto nel 1460 (v. C. D’I..., Bibliographie de l'amour,
des femmes, etc., Paris, Gay, 1864, col. 97). Stretta
affinità con questo racconto ha ciò che si contiene
nel cap. CCXXXIII delle Vite deé SS. Padri, part. III.
Recentemente C. PaAscar. cita questa Novella (XVII
secondo l’ ed. Biagi) a proposito dell’ Antifemmi-
nismo medievale (Poesia latina medievale, Catania,
Battiato, 1907, p. 160, n. 2). Il prof. PascaL (p. 162)
cita poi opportunamente la XVIII, ediz. Biagi,
ma fuor di proposito la XXX che non può dirsi
misogina.
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DEL « NOVELLINO >» 99
NOVELLA XV.
Come uno rettore di terra fece cavare un occhio a
sè, et uno al figliuolo per osservare giustizia.
Il rettore di una terra ordina che si cavino gli
occhi agli adulteri. Cade in questo peccato il figliuol
suo: il popolo grida misericordia pel delinquente;
il rettore volendo insieme esser giusto e pietoso,
orba sè di un occhio, dell’altro il figlio.
Con lievi varianti è la XIV B.
L’ aneddoto è narrato in CiceRoNE (De leg. II, 6),
in ELiaNo (XIII, 24), in VaLeRIO MassIMO (VI, 5),
donde passò ai Gesta Romanorum, ed. KELLER,
c. 50; Swan, I, 169; Violier, c. XLIX. Vi accenna
anche il CessoLe ( Volgarizz. del Giuoco degli scacchi,
Milano, 1829, p. 30). Vedi le annot. dell’ OestERLEY
in Gesta ecc. (p. 720, n. 50).
NOVELLA XVI.
Qui conta della gran misericordia che fece S. Pao-
lino vescovo.
S. Paolino nulla potendo dare ad una madre
che ha prigione il figlio, si costituisce prigione
egli stesso, e libera il figlio della povera donna.
Il fatto è narrato in S. GrEGoRIO, Dialog., III, 1.
Si trova anche in antico francese nel codice Ber-
nense analizzato dal prof. ToBLER (Jahrb. f. roman.
literat., VII, 415).
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100
LE FONTI
NOVELLA XVII.
Della grande limosina che fece uno tavoliere per Dio.
Piero tavoliere dà tutto ai poveri, poi vende
sè stesso e distribuisce il prezzo pur ai poveri.
Il fatto di questo Piero, telonario, cioè ban-
chiere, è più ampiamente narrato nelle Vite dei
SS. PP., libro IV, c. XIX. Forma anche il soggetto
della LVI delle Rime genovesi dei sec. XIII-XIV.
pubbl. da Nicc. LAaGuMAGGIORE (Archiv. glottologico
Ital., II, 239).
In forma assai ampia troviamo in J. ULkicA,
nel Libro de li Exempli, cit., p. 87, i precedenti
del fatto narrato laconicamente nel Novellino. Per
altri notevoli riscontri della Novella vedasi Ro-
mania, XIII, 32-33.
NOVELLA XVIII.
Della vendetta che fece Iddio d’ uno barone di
Li
Carlo Magno.
Un cavaliere di Carlo Magno prima di morire
lascia a un suo parente arme e cavallo perchè li
venda e ne dia il prezzo ai poveri. Ma quello si
ritiene i denari; onde gli appare il defunto che gli
annunzia la prossima dannazione. E questa infatti
avviene.
La Novella è nella Turpinî Historia Caroli Magni
(ediz. Castets, cap. VII) a proposito di un cava-
liere di nome Romarico, morto presso Baiona, e
di un suo fedifrago consanguineo. La si trova
anche negli Exempli in antico veneziano editi dal-
l’ ULRicH, p. 101. La Novella corrispondente del ms.
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DEL « NOVELLINO » 101
Panciatichiano (ed. Biagi, p. 27), fu dal BARTOLI
(Storia della lett. ital., Firenze, 1880, III, 1906)
giudicata come originaria di fronte a quella del
testo Gualteruzzi.
NOVELLE XIX-XX.
Della grande libertà e cortesia del Re Giovane.
Della grande libertà e cortesia del Re d’ Inghil-
terra.
Sono questi, varj aneddoti sul Re Giovane,
ne’ quali compare Bertran de Born quale istiga-
tore alla lotta del figlio contro il padre.
Le relazioni fra il Re Giovane e Bertran de Born,
diffuse nella tradizione medievale prima di Dante
(Inferno, XXVIII, 132 seg.) sono accennate anche
nei Conti di antichi cavalieri (ed. Papa, in Giorn.
Stor. a. letter., IIl, 200: Conto del Saladino) dove
Bertran è fatto « maestro del re giovene ». Nei
medesimi Conté si trovano alcuni degli aneddoti
delle nostre Novelle (quello del dente e l’altro
dell’ anima data in pegno ai creditori) ed altri pure
testimonianti la tradizionale liberalità di quel Re,
(Op. cit., pp. 202-3). Il BartoLI, (Stor. Lett. Ital.,
III, p. 72 e seg.) accennò all’origine, evidentemente
provenzale, della tradizione italiana, confrontando
le due Novelle coll’ antica biografia di Bertran de
Born. Un riscontro molto particolare si ha fra la
seconda delle due antiche biografie di Bertran e
alcuni punti della nostra Nov. XX, colla quale, per
altro, ha pure affinità la nota razo d’un serventese
del poeta (v. A. THomas, Poésies complétes de B. de
Born, Toulouse, 1888, p. LII e 43-44; G. Rua, Gli
accenni danteschi a B. de Born. in Giorn. Stor. d.
Lett. ital., XI, 363 e seg., specialmente p. 370-71,
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vai
102 LE FONTI
dove si rilevano anche i passi dei commentatori
danteschi su questa tradizione. Cf. Il c. XXVIII
dell'Inferno letto da V. Crescini, (Lectura Dantis)
Firenze, Sansoni, s. a., pp. 61-62).
NOVELLA XXI.
Come tre maestri di nigromanzia vennero alla
corte dell’ imperador Federigo.
Tre negromanti alla corte dell’ imperadore Fede-
rigo fanno con loro incantamenti turbare il tempo :
poi chiedono per guiderdone che loro si conceda
il Conte Bonifazio per aiutarli contro i nemici.
Questi va con loro: viaggiano gran tempo, com-
battono aspra guerra: egli prende moglie, ne ha
figli, ed il maggiore ha già quarant’anni quando
i negromanti propongono al conte di tornare a
vedere l’imperadore. Vanno, e trovano che Fede-
rigo e i suoi, che supponevano invecchiati o morti,
sono al medesimo punto del pranzo di quando al
Conte parve partirsene coi negromanti.
Con lievi varianti è la XX B.
L’ avventura rammenta ciò che la tradizione
musulmana racconta del rapimento di Maometto
ai sette cieli, al Paradiso ed all’ Inferno, quando
il profeta ebbe novantamila conferenze col Signore,
e pur compì tutto questo sì presto che, tornando
al suo letto, lo trovò ancor caldo, anzi non ancora
interamente sparsa l’acqua di un vaso, versatasi
‘ quando Gabriello levò seco Maometto: (v. ReinauUD,
Monuments, etc., II, 86). Un incantesimo simile a
quello qui riferito trovasi nelle Novelle Turche tra-
dotte da PeTIis DE LA Croix (Mille et un jours, ed.
Google
DEL « NOVELLINO >» 103
Lo:sELEUR, p. 306, e Quaranta Visiri, trad. Ber-
NAUER, Leipzig, 1851, p. 16), col titolo di Storia
dello Scheik Schehabbeddin. Vedi anche il cap. XIII
del Conde Lucanor (ed. Keller, p. 86), ove gran
spazio di anni sembra volgersi per incantesimo,
nel tempo che realmente corre fra l’ apprestamento ,
e la cottura di due pernici. Si può qui ricordare
anche il seguente racconto che trovasi nel Mesha!
ha-Quadmoni (8. 1. ma di Gersone Soncino ai primi
del sec. XVI, p. 406-36), di Isacco FiaLIO DI SaLo-
MONE IBN SagnuLa (n. 1204? m. 1259 o 1268) tradotto
dallo STEINSCANE:DER nella Manna (Berlin, Rosen-
berg, 1847, p. 20 e seg.). Un giovane di Gerusa-
lemme, già addottrinato in varie scienze, s’accende
del desiderio d’imparar la magia. Recatosi a questo
fine in Egitto, riceve ospitalità da un vecchio del
paese, cui fa manifeste le sue intenzioni. Questi
gli si offre maestro, ma il giovane non sa prestargli
intera fede, e per coprire la sua incredulità dice
di voler rivolgersi ad un giovane, e così scemar
fatica a lui grave di anni. L'altro, volendo cor-
reggerlo della sua incredulità, gli dà da bere e lo
licenzia. Il giovane va fuori e cade in una cisterna
donde non può uscire che al mattino di poi: entra
in un bel giardino, passa un ponte, trova una città,
dà agli abitanti varie prove del suo sapere, e da
ciò viene in tanta estimazione, che gli è data in
sposa la figlia del re. Ne ha un figlio, che un giorno
cade in una cisterna anche egli, e mentre ei ne va
in cerca, gli riapparisce il vecchio a chiarirlo che
tutti i casi occorsigli sono effetti di magica illu-
sione, e il lungo spazio di tempo è stato un solo
istante. Confronta anche la storia di Kandu tra-
dotta dall’ indiano nel Journal asiatiq., 1, 3. Rac-
conti in cui centinaia d’anni passano in un momento
si trovano anche riferiti da F. M. LuzeL in Légendes
Google
104
LE FONTI
chrétiennes de la Basse-Bretagne, Paris, 1881, vol. I,
pp. 222, 241, 249; e in Contes populaires de la Basse-
Bretagne, Paris, 1887, vol. I, pp. 40, 6l e 64. Altre
versioni di questo tema sono indicate dal PuYMAIGRE,
Les vieux aut. castill. (Paris, Didier, 1862, II, 36),
dal KeLLer (Einleit. al Roman des Sept Sages,
p. CLVI), e dal DunLoPp-LiEBRECAT (p.-543), che rife-
risce la leggenda di un abate Fulgenzio, il quale
mentre meditava il senso delle parole del salmo 89:
Mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna
quae praetertit, fu tratto in una selva vicina dal
canto di un uccello, e credè di starvi pochi istanti,
ma poi si avvide che erano passati ben trecento
anni: vedi questa leggenda, secondo varie lezioni
antiche, nei Sermoni di Maurice pk SuLty, recate
da P. Meyer nella Romania V, 472 (anno 1876);
in un racconto ponolare inglese, presso BRUEYRE,
Cont. populair. de la Grande Brett. (Paris, Hachette,
1875, p. 339), e in un racconto picardo, riferito
da H. CaRnOoy, Littérature orale de la Picardie,
Paris, 1883, p. 149: Le pinson et le templier. Da
questa leggenda cristiana conosciutissima (se ne
veda presso X. MARMIE&R, Contes popul. de différents
pays, Paris, 1888, serie II, p. 319, la forma tedesca,
e per altri riscontri v. Revue de tradit. popul. XIV
(1899), 124)) trasse il Porta il suo Fraa Diodatt,
e prese ispirazione il LonaFELLOW (The golden Legenda
ch. 2). Simile a questa è la bella leggenda del
viaggio di tre monaci al Paradiso terrestre, che
troviamo in testi italiani del sec. XIV, (v. Leg-
gende del sec. XIV ed. da I. DeL Lunao, Firenze,
Barbéèra, 1863, vol. I, p. 489 seg.; A. GRAP, Di un
cod. riccard. di leggende volg., in Giorn. Stor. d.
Lett. ital., III, p. 410; G. Ronponi, Tradizioni popol.
e leggende di un comune mediev. ecc. estr. dalla
Google
DEL « NOVELLINO » 105
Rassegna Nazionale, Firenze, 1886, p. 141 segg. ecc.).
Assai notevole, sebbene. sia un po’ diverso dai
riscontri ora citati, è il sesto degli Esempi mo-
rali senesi editi da F. ZamBRINI in Trattato dello
Spirito Santo di fra Dom. Cavalca, Imola, Ga-
leati, 1886, p. 115 e seg. Vedi anche un artic.
del KòALER nella Germania di Pfeiffer (II, 432), e
Hertz, Deutsch. Sage in Elsass, (Stuttgart, Kroner,
1872, p. 263 e seg.), che sono ricchissimi in indi-
cazioni di leggende e novelle popolari, ove gli anni
scorrono come minuti o viceversa. GIOVANNI DA
Prato amplificò nel suo romanzo questo racconto
del Novellino (v.. Il Paradiso degli Alberti, ediz.
Wesselofsky, Bologna, Romagnoli, vol. I, part. II,
p. 263, e vol. IT, p. 180). A. GRAF in Miti, leggende
e superstizioni del Medio Evo, Torino, Loescher, 1892,
vol. I, pp. 88-89, 90-92, 179, riferisce varie leg-
gende sul rapido passaggio di tempo, e c’informa
(ib. p. 285) che la Novella di Giov. da Prato passò
fra quelle che Gaetano Cioni mise sotto il nome
di Giraldo Giraldi. La più copiosa bibliografia su
questa tradizione novellistica si ha in XKleinere
Schriften ecc. di R. K6ALER, hrsgg. von J. Bolte, II,
Berlin, 1900, pp. 239-40.
NOVELLA XXIV.
Come lo imperatore Federigo fece una quistione a
due savi e come li guidardonò. |
L’imperatore stando fra mezzo ai giureconsulti
Bolgaro e M. (Martino) dimanda loro se ei può
torre ad un suddito suo per dare a un altro, e se
la legge ammette che ciò che piace al signore
debba essere osservato dai sudditi. L’uno risponde
Google
A
106 LE FONTI
che sì, l’altro lo nega, e vuole la legge superiore
alla volontà del principe. Al primo, Federigo dona
cappello scarlatto e bianco palafreno; all’ altro,
potestà di fare una legge. Quistionandosi chi
fosse stato meglio rimunerato, si conchiude che il
primo fu trattato come giullare, l’altro come uomo
giusto.
Qui paiono confusi due fatti, due dimande che
la tradizione assevera fatte da Federigo ai dottori
italiani. OrtAvio MORENA, Hîst. lauden., (in R. Ital.
Script. VI, 1118) racconta che l’ imperatore dimandò
a Bolgaro e Martino se fosse padrone del mondo,
e poichè il primo ebbe il premio di un cavallo, per
aver risposto che sì, Bolgaro disse: Amisi equm
quia dixi aequm, quod non fuit aequm, o come
vuole il SaLiceTo (In cod., L. 3, VII, 37): Bulgarus
dixit aequm, sed Martinus habuit equum. II BELLA-
PERTICA (In cod. l. 3, 345) concorda quanto al
donato e al non donato col Novellino e col MorENA.
L’aneddoto è raccontato anche da OporRrEDO (in
Dig. vet., 1. 3, II, 1), ma a proposito dell'altra
dimanda, a chi, cioè, appartenesse il merum impe-
rium, e fa che gli interrogati sieno Lotario che
risponde: a vos solo, e Azzo che risponde: a voî e
ai giudici, sicchè il primo ebbe in dono un cavallo :
al che alludendo Azzo disse (Summ. codîicis, tit. de
jurisdict., III, 13): licet ab hoc amissrim equum,
sed non fuit aequum. Il Savianr, St. del diritto
romano nel M. Evo (Firenze, Batelli, 1844, vol. lI,
p. 47), da cui togliamo queste notizie, non ricorda
punto il diritto concesso di fare una legge dato
all’ uno dei dottori, nè la questione su chi fosse
meglio rimunerato dei due.
Google
DEL « NOVELLINO » 107
NOVELLA XXV.
Come il Soldano donò ad uno dugento marchi, e
come ‘il tesoriere li scrisse, veggente lui, ad
uscita.
Raccontasi nell’ultima parte di questa novella
come il Saladino si scandalezzasse veggendo che
nel campo cristiano i poveri, amici del Signore,
mangiassero umilmente in terra.
Con qualche maggiore svolgimento è la XXIV B.
Questo stesso fatto trovasi nella Cronica di
TuRpPiNOo, cap. 14, appropriato ad Agolante; vedi
DUuNLOP, op. cit., p. 117 e 476, e G. PARIS, Hîst.
poét. de Charlem., (Paris, Franck, 1865, p. 501), ma
nel Poema di Anseîs de Carthage, a Marsilio : vedi
GauUTIER, Epop. frane. II, 475. S. Pikr DAMIANO
(XI, 1) lo appropria ad un re Saraceno prigione di
Carlomagno (Paris, op. cit., p. 291). Nelle Enfances
Godefroi (v. 4830 e seg.), il re Cornumarano rifiuta
di farsi battezzare osservando, tra le altre cose
meno rette, che i cristiani danno ai poveri i rilievi
che meglio dovrebbero gettarsi ai cani (Hiîst. litt.
de la Fr., XXV, 518). Lo racconta anche il Sac-
cuHeTTi nella Novella CXXV (v. L. Di FRANCIA,
Franco Sacchetti novelliere, in Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa, cl. filos. filol., XVI,
pp. 83-84) e nei Sermoni evangelici (riprodotto anche
in ZAMBRINI, Libro di Novelle, n. LXXX). Il PARENTI
nelle sue annotazioni ricorda opportunamente a
proposito di questa Novella il cap. II, v. 2-6, del-
l’Epistola cattolica di S. Jacopo. Sulla venuta del
Saladino in Europa per osservare i costumi dei
Cristiani, vedi Boccaccio, X, 9; Conde Lucanor,
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108
LE FONTI
c. 12; l’Histoire de Jehan d’Avennes (in Mél. d'une
grande bibl., E., p. 213); l’Avventuroso Ciciliano,
ediz. Nott, p. 350, e G. PARIS, La légende de
Saladin, in Journal des Savants, 1893). Vedi anche
la Lettera II del Lamr nell’Appendice al MANNI
(Milano, 1820, p. 14 e seg.).
NOVELLA XXVIII.
Qui conta della costuma che era nello reame di
Francia.
Era vitupero in Francia a chi andasse in sul
carro; ma dal giorno che Lancillotto, forsennato
per amor di Ginevra, si fece tirare sul carro per
molti luoghi, ciò non fu più tenuto ad obbrobrio.
Se
l'esempio di Lancillotto valse a mutare un inve-
terato costume, perchè l’ esempio di Gesù Cristo
non dovrebbe valere a perdonare le offese?
Con diversa moralità è la XXVII B.
Si direbbe che la Novella, specialmente per la
moralità che le è aggiunta, fosse tratta da un
qualche libro di esempj ascetici, simile ai Gesta
Romanorum. Del resto, sull’ avventura di Lancel-
lotto, vedi il poema di CRISTIANO DI TRoyrEs, Lan-
celot ou la Charette (ediz. Tarbé, ne’ Poet. champen.,
Reims, 1849, e ediz. Jonckbloet, La Haye, 1850,
ediz. W. Forster, Halle), nonchè KELLER, Romuvart
(Mannheim, Basserman, 1844, pp. 453-512), un brano
di scrittura antica francese nel DunLoP-LIEBRECHT,
p. 529, e l'importante studio di G. Paris, Études
sur les rom. de la Table Ronde: Lancelot du Lac:
Le conte de la charette, in Romania XII, (1883)
p. 459 e seg.
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DEL « NOVELLINO » 109
NOVELLA XXX.
Qui conta come uno cavaliere di Lombardia dispese
il suo.
Un cavaliere, che non aveva eredi, provvide sì
che non restasse niente del suo patrimonio dopo
la sua morte. Ma fece male i suoi conti, onde
ridottosi in povero stato, ricorse all’ Imperatore
Federigo. Questi, che altra volta gli era amico,
non vuol riconoscerlo e lo fa cacciare, perchè non
aveva voluto che dopo la sua morte altri godesse.
A questa Novella fan riscontro numerose nar-
razioni popolari e aneddoti var). Si veda l’ erudito
lavoro di Giuseppe PiTRÈ, La Novella del conto sba-
gliato, Palermo, coi tipi del « Giorn. di Sicilia » 1896:
cfr. La Tradition, an. IX (1897), p. 97 e seg. Una
variante veronese ci è data da A. BaLLADOHO,
Tre novellette del contado veronese, Verona, Fran-
chini, 1904 (per Nozze Perroni-Grande-Marcianti)
pp. 13-14.
NOVELLA XXXI.
Qui conta d’ uno novellatore di Messer Azzolino.
Il favolatore di Ezelino non'avendo voglia di
novellare, ma di dormire, e pur dovendo obbedire
al suo Signore, racconta come un contadino andò
a mercato a comprar pecore, e tornandosene a casa
trovò gonfio un fiume, che non potevasi passare
sopra una piccola barchetta se non con una pecora
alla volta. Il novellatore qui si ferma, perchè a
far passare in tal modo tutte le pecore, ci vuole
almeno un anno, e frattanto può a tutt’agio dormire.
‘Con lievissime varianti è la XXX B.
Google
i na
110
LE FONTI
L’ avventura trovasi già raccontata da Pietro
ALronso nella Disciplina clericalis (ediz. Schmidt,
p. 50 e 128; ediz. Labouderie, p. 70; e nel Castotement
d’un pére à son fils, ediz. des Bibliophiles, 1824, p. 58;
ediz. Rarbazan-Méon, Paris, Crapelet, 1808, II, 89;
Le Granp d’ Aussr, Fabliaux, Renouard, 1829,
I, 269). Più tardi la riferì anche CeRvanTES nel
Don Quixote, I. 20, e prima di lui l’autore del
Libro de los enxemplos, n. LXKXXV (ediz. cit., p. 467).
Per altri raffronti con versioni letterarie e popolari,
vedi Grimm, K. u. H. March. (Gòttingen, 1856, III,
145), Meier, Deutsche Volksmdrch. aus Schmwaben
Stuttgart, Schober), n. 90, e FRISCHBIER, Prussisch.
Volksreime (Berlin, Enslin, 1870, p. 88). Una Novella
popolare siciliana (PiTrÈ, Fiabe, novelle eracconti del
popol. sicil., Palermo, Pedone, 1875, vol. III, p. 108)
intitolata La fruvatura, e una milanese (IMBRIANI,
La novellaia fiorentina, Livorno, Vigo, 1877, p. 572)
intitolata EZ pegorée, sono in sostanza una cosa
stessa col nostro racconto. La novella popolare
italiana fu tradotta in inglese da T. F. CRANE,
Italian popular tales, Boston and New York, 1885,
p. 156 e 3657. — Su Ezelino nella tradizione popo-
lare è da vedere A. BonaARDI, Leggende e Storielle
su Ezelino da Romano, Padova-Verona, 1892, e Eze-
lino nella leggenda religiosa e nella novella, in Ras-
segna Padovana di storia, lett. e arti, anno I, p. 235;
nonchè F. Srieve, Der karakter d. Es. v. R. in
Anektod. u. Dicht., in Histor. Vierteljaharisch. 1910.
NOVELLA XXXVI.
Qui conta come uno Re crudele perseguitava i
cristiani.
Un re per vincere il popolo di Dio, contro cui
non riesce ad avere vantaggio in battaglia, s’ac-
corda col profeta Balaam. Questi andrà per male-
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DEL « NOVELLINO » 111
dire i nemici, e così facilitare la vittoria; ma
mentre B. sta per far ciò, gli si para dinanzi l’angelo
di Dio e gl’impone di benedire il popolo, anzichè
maledirlo. Il Re se ne risente, meravigliato. Allora
per nuovo consiglio del profeta, il Re invia nel
campo nemico belle donne apportatrici d’idoli.
Queste inducono nel peccato gli uomini del Signore,
i quali in battaglia soccombono. Ma poi essi rav-
vedutisi e fatta penitenza, si riscattano a libertà.
Il fatto è biblico. M. Lanpau, (Giorn. Stor. d.
Letter. It. I, 61) rileva un passo dell’antico libro
giudaico Midras Rabboth in cui si racconta che le
Moabite seducevano gl’ Israeliti per il consiglio di
Bileam, ed è una corrispondenza notevole coll’ ul-
tima parte della nostra novella.
NOVELLA XXXVIII.
D’ uno strologo ch’ ebbe nome Melisus che fu ripreso
da una donna.
È il fatto di Talete che uscito di notte a con-
siderare le stelle, cade in una fossa ed è rimpro-
verato da una donna perchè guardando le cose
del cielo, non sa dove pone i piedi.
Il BARTOLI, op. cît., II, pp. 221-222, nota gli
stretti rapporti che sono fra questa novella e un
aneddoto delle Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio,
(Lib. I, Thales).
NOVELLA XLII.
Qui conta una bellissima novella di Guglielmo di
Bergdam di Provenza.
Accusato di dir male delle donne, Guglielmo è
circuito dalla regina e dalle sue dame, e minac-
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112 LE FONTI
ciato di mala morte con colpi di bastone. Fingendo
di rassegnarsi al suo destino, chiede una grazia,
ed essendogli concesso di dimandarla, prega che
la prima a dargli sia la più disonesta. Le donne
‘sì guardano l’una coll’altra, ed egli salva la vita
con questa astuzia.
Il fatto è appropriato, oltre che al Berguedam
(ved. Lieder Guillelms von Berguedam, hgg. von
A. Keller, 1849, p. 4; MiLA Y FONTANALS, De los
Trovator. en Espana, p. 283), anche ad altri: come
a Giovanni di Meung (FaucHet, II, 126), al Gon-
nella (Facezie del Gonnella, ediz. Passano, Genova,
1868, p. 17), al Marot (Contes du sieur d’OUVILLE),
a Bertoldo (GuERRINI, La vita e le opere di G. C.
Croce, Bologna, Zanichelli, 1879, p. 232), ecc., come
notano anche il DunLOP (op. cit. p. 213) e il PAPANTI
(Note al Passano ecc., p. 67). Su questo episodio
nel Salomone e Marcolfo e nel Bertoldo, v. G. Cor-
TESE-PAGANI, Il Bert. del Croce e é suoi fonti, in
Studi Medsiev., III, 566. Trovasi anche nel Livre du
Chevalier de la Tour Landry (ediz. Montaiglon,
Paris, Jannet, 1854, cap. XXIV). Nel Lai d’Ignaurès,
il cavaliere di questo nome, minacciato da parec-
chie donne, chiede di essere ucciso da quella che
più l’ abbia amato (LE GranD D’'Aussy, Fabliaux,
IV, 162).
NOVELLA XLVI.
Qui conta come Nurcis 8’ innamorò dell'ombra sua.
È la nota favola di Narciso al fonte.
Con lievi varianti è la XLIII B. e, ampiamente
svolta, la XI P.
È superfluo rinviare alle fonti classiche. Può
però notarsi che il carattere cavalleresco, questa
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DEL « NOVELLINO » 113
mitologica narrazione l’ ha già nel Lai de Narcisse
(Le GranD d’Aussy, Fabl. I, 250: Barbazan-Méon,
IV, 143), e delle tre versioni italiane del Novellino,
in quella pubblicata dal PaApANTI in aggiunta al
Catal. dei Novellierî (Livorno, Vigo, 1871, p. XXI)
più che nelle altre due.
NOVELLA XLVIII.
Qui conta del re Currado padre di Curradino.
Il re Currado è allevato con dodici giovani
suoi coetanei, e i maestri, quando egli commette
qualche fallo, battono non lui ma i compagni,
ond’egli per pietà di loro si guarda dal cadere in
errore.
Con lievissime varianti è la XLV B.
Senza il nome di Currado questa novella si
trova nell’ Ysopet primo, pubblicato dal ROBERT,
Fables inédites, (Paris, Cabin, 1829, II, 492), che
cita anche il Fepro del Perotto (n. XI), il RomoLo
(n. LI), il GALFREDO (n. LI). In italiano trovasi
nell’ Esopo pubblicato dal Ghivizzani (Bologna,
Romagnoli, 1866, II, p. 124). È singolare che un
fatto simile si racconti a proposito di Luigi XV
(v. G. MaucgRras, Le duc de Lauzun et la cour
intime de Louis XV, Paris, Plon, 1909, I, p. 286), e lo
stesso racconto ci si narri come avvenuto alla corte
di Spagna verso la fine del sec. XVIII, sulla fede
del Maresciallo Canrobert : « Ce colonel [de la Torre]
était d’ origine espagnole. Fils naturel de Godoî,
prince de la Paix, il avait été élevé avec les Infants.
Comme il était d’ usage en Espagne de ne jamais
frapper un membre de la famille royale, chaque
fois que l’un des princes commettait une faute,
c’ était le futur colonel du 13ème léger qui recevait
D’ ANCONA - II 8
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114 LE FONTI
les taloches »; V. Le Maréchal Canrobert, Souvenir
d’ un siècle par G. BAPST, t. I, Paris, 1899, p. 389.
NOVELLA XLIV.
D' una quistione che fu posta ad un uomo di corte.
Marco Lombardo, uomo di corte, interrogato
da un giullare perchè ad un Natale egli non abbia
avuto dono di robe, mentre il giullare ne ha avute
sette, risponde a costui: « Tu trovasti più de’ tuoi
che io de’ miei ».
L’aneddoto trovasi, con lievi divergenze nel
Commento d’Anonimo fiorentino (Collez. di opere
ined. o rare, Bologna, Romagnoli, 1869, vol. II,
p. 262). È invece attribuito a Dante dal Petrarca
(Rerum Memorandarum, lib. II), dal quale proba-
bilmente lo presero il Poggio, Sicco Polenton (Epi-
toma in vitas script. illustr. Vedi A. SOLERTI, Le vite
di Dante, Petrarca e Boccaccio ecc., Collez. Vallardi
8. a., p. 155), nonchè Michele Savonarola, Vespa-
siano da Bisticci, Domenico Bandini e altri, su
cui vedasi G. PAPANTI, Dante secondo la tradizione
e i novellatori, Livorno, Vigo, 1873, pp. 32-33, 90,
95-97, 113, 117.
NOVELLA XLIX.
Qui conta d'uno medico di Tolosa come tolse per
moglie una nepote dell’Arcivescovo di Tolosa.
Un medico di Tolosa prende in moglie la nipote
dell’ arcivescovo, la quale di lì a due mesi gli fa
una figliuola. Egli la rimanda a casa sua, e quando
lo zio vuol di ciò rimproverarlo, risponde che egli
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DEL « NOVELLINO » 115
prese moglie con intenzione di aver un figlio
l’anno e non più: se glie ne dovessero nascere
ogni due mesi, non sarebbe al caso di mantener
la famiglia: sicchè dia egli la nipote ad uno più
ricco di lui, che possa sottostare al grave carico
senza disonorare il lignaggio per povertà.
È con lievissime varianti la XLVI B.
Nella Rev. des lang. romanes, 3* ser., vol. II,
n. 9-10, sett.-ott., 1879, lo CHABANEAU fa notare che
del fatto sembra trovarsi cenno in questi due versi
di Pier CARDINAL: Tals cuja ben aver filh de s’esposa
Que no i a re plus que cel de Tolosa.
NOVELLA LI.
Qui conta d'una guasca come si richiamò allo
re di Cipri.
Una donna che non sa come sopportare un
torto che le è fatto, va al Re, uso a sopportare
dieci mila disonori senza risentirsene, acciocchè
egli le apprenda come portar pazienza del suo. Il
Re, vergognandosi, comincia a vendicarsi de’ suoi
offensori.
È tale quale la XLVIII B., e con lievi varietà,
la XXXIII P.
Ripeterò qui la nota che apposi alla Novella XIX
di GirovannI SERcAMBI (Bologna, Romagnoli, 1871,
p. 290); è il racconto che trovasi anche nel Boc-
caccio (Giorn. I, nov. 9). Nel SERCAMBI trattasi del
Re Sparaleone di Portogallo; il Novellino e il Boc-
caccio concordano fra loro: ma donde abbiano
attinto è ignoto.
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116 LE FONTI
NOVELLA LII.
D'una campana che si ordinò ul tempo del re
Giovanni.
Il re Giovanni di Atri ordina che sia messa
una campana, la quale potesse esser suonata da
chi gli chiedesse ragione di torti ricevuti; la fune
dopo qualche tempo si logora, ed è sostituita da
una vitalba. Un vecchio cavallo è cacciato dal-
l’ ingrato padrone, che non vuol più mantenerlo.
Avendo fame e giungendo alla campana, mangia
la vitalba e la campana suona. Si aduna il con-
siglio del re, e pensando che il vecchio destriero
chieda ragione contro l’avaro signore, si condanna
costui a pascerlo, in rimerito dei servigj resigli
da giovane.
Con varianti lievissime è la XLIX B. e con mag-
giori svolgimenti, la XVII P.
Un fatto consimile è raccontato di Carlo Magno:
ma chi suona la campana è una vipera, nel cui
nido e sulle cui uova si è posto un rospo. Vedi
G. PARIS, Hist. poétique de Churlemagne, Paris, 1905
(ristampa), pp. 354-56; L. GautiER, Épop. frane.,
Paris, 1880, III, p. 148; X. MARMIER, Contes popul.
de différents pays, II série, Paris, 1888, p. 331-32;
GRIMM, Deutsche Sagen (trad. franc. del Du Theil,
II, 155), Von DER Hagen, Gesammtab. (II, 635, III,
CLXIII-V) e i Gesta Romanor. (ediz. Grisse, p. 345;
ediz. Oesterley, c. 105; e vedi quest’ ullimo a p. 728
per le fonti). La leggenda di Carlomagno e del
serpente sembra restasse viva in Zurigo, secondo
attesta E. Miintz, É/udes iconogr. e archéol. sur le
M. Age, I série, Paris, 1887, p. 89. Questa leggenda
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DEL « NOVELLINO » 117
s’ introdusse in quella dell’ amore del grande impe-
ratore per la moglie morta: v. G. PARIS, op. cit.,
pp. 3382-83 e 544. — Questa prova di giustizia, coi
medesimi particolari si trova attribuita al duca di
Calabria figlio di Roberto d’Angiò: v. G. DE BLA-
SIIS, Le case dei principi angioini ecc., estr. dal-
l’Arch. Stor. per le prov. napol., anni XI e XII,
Napoli, 1887, p. 68, n. 2. Qualche analogia colla
nostra novella presenta un aneddoto siciliano rac-
colto da G. PirtrÈ, Avvenimenti fuceti di Sicilia
(Curiosità popol. tradizionali, vol. II, Palermo, 1885,
p. 117), dove un asino rosicchiando un sarmento
attaccato per giunta alla fune di una campana, la
fa sonare.
Sulla campana, o tamburo o altro per coloro
che avessero richiami o lagnanze da fare al Re o
Imperatore, d’ India, di Cina, di Persia ecc., vedi
una erudita nota di R. Basset, in Revue des tradit.
popul. XXIV, p. 192.
NOVELLA LIII.
Qui conta d’ una grazia che lo inperadore fece
un suo barone.
Un imperatore concede a un suo barone di far
pagare un danaro a qualunque uomo magagnalo
passasse da una sua terra. Si presenta un zoppo
che nega di pagare, e si azzuffa col gabelliere,
ma levando in su le mani, scopre di esser monco :
sicchè è richiesto di due danari. Segue a negare
e contrastare, ma cadendogli intanto la berretta di
capo, fa conoscere di essere orbo, onde è richiesto
di tre danari. Si accapiglia col gabelliere, e mostra
di esser tignoso, onde è costretto di pagare quattro
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118 LE FONTI
danari, quando con un solo avrebbe potuto passar
ollre.
È anche la L del B.
La novella è nella Disciplina Clericalis (edi-
zione Schmidt, p. 45; ediz. La Bouderie, p. 49;
Castoiement, ediz. Biblioph. franc., p.39; ediz. Bar-
bazan-Méon, II, 75; Le GranD, Fabl., III, 223).
È nei Gesta Romanor. (cap. 157), ma manca al
Violier. Per altre indicazioni, vedi lo ScuMIDT,
p. 121, alle quali si aggiunga il Libro de los
enxempl., n. XIII, nonchè gli altri citati dall’ Or-
STERLEY, p. 738.
NOVELLA LIV.
Qui conta come il piovano Porcellino fu accusato.
Il piovano Porcellino è accusato dal vescovo
Mangiadori di lasciarsi sedurre dalle donne: ma
sul punto di esser gastigato, sa che il vescovo deve
ricevere in camera una amica. Si appiatta sotto il
letto, e ad un dato momento, esce fuori: il vescovo
gli perdona per forza.
Cfr. col Fabliau francese intitolato dal Le GRAND
(Fabl. III, 126): De l’évéeque qui bénit sa mattresse,
e dal WRIGHT (Anecdot. literaria, London, 1844):
The Bishop and the priest, e analizzato dal LE
CLERC nella Yist. littér. de la France, XXIII, 135.
Per le somiglianze fra questa nov. e le nov. I, 4
e IX, 2 del Decameron, v. L. pi FRANCIA, La IV
novella del Decameron e le sue fonti, nella miscel-
lanea A Vittorio Cian i suot scolari dell’ Univ. di
Pisa, Pisa, Mariotti, 1909, p. 63 e seg.
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DEI, « NOVELLINO » 119
NOVELLA LVI.
Come uno della Marca andò a studiare a Bologna.
Uno scolaro povero pattuisce con un tale, per-
chè lo mantenga allo studio in Bologna, di pagargli
mille lire al primo piato che vincerà. Ma, finiti
gli studj, quegli non esercita la sua professione
per timore di dover pagare il prezzo. L’altro gli
muove causa, mostrandogli con un dilemma che per
mezzo di questa egli otterrà in ogni caso i denari.
È, in sostanza, il famoso dilemma attribuito a
Protagora, benchè qui manchi la risposta dello
scolaro (v. AuLo GELLIO, Noctes Atticae, V. 10, a cui
ci rinvia J. ULRICH, Romanische Meister Erecihler : I,
Die Lundert Alten Erzàhl., Leipzig, 1905, p. 128).
NOVELLA LVIII.
Di Messer Beriuolo cavaliere di corte.
Dignitose parole di Messer B. a chi lo incitava
a rispondere ad un atto triviale e a detti villani.
Il motto è attribuito a Dante in una novella
del Sacchetti (v. L. pi FRANCIA, F. Sacchetti, cit.,
p. 131).
NOVELLA LIX.
Qui conta d’ uno gentiluomo che lo imperadore
fece impendere.
È la LVI B.
È la notissima novella della Madonna d’ Efeso
(PeTRON., Satyr., XXV), che sebbene abbia qualche
rassomiglianza colla novella chinese di Tchou-ang-
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120
LE FONTI
tseu e la matrona di Soung (vedi Mille et un jours,
ediz. Loiseleur-Deslong., p. 695), è però tenuta di
greca origine: anzi il RÉMuSsAT (Contes chinois, III,
145) traducendola dal chinese, la crede imitata
dalle favole efesie, penetrate forse fino in Cina, e
alle quali probabilmente ebbe ricorso anche Pe-
TRONIO, secondo opina il DAcIER (Examen de l’ kist.
de la Matr. d’ Eph., in Mémoires de l’Acad. des
Inscript., XLI). Altri tengono per più probabile
l’ origine orientale, fra’ quali è da riporsi anche il
dottissimo BenFEY (Pantschat., 1, 460). Nel Medio
Evo la troviamo nel Policraticus di GIOVANNI
SALISBURIENSE (VIII, 11), non che nelle collezioni
di favole esopiane (PHaAEDR., ediz. Jannelli, I, 14;
RomuLus, ediz. Oesterley, p. 69), e nelle varie ver-
sioni della Hist. Septem Sapientum (vedi MussAria,
Beitr. 2. literat. d. Sieb. Weis. Messt., p. 90; K. Gox-
DEKE, Liber septem sapientum in Orient und Occ.,
Gòttingen, 1866, p. 385 e seg.; LoIiseLEUR-DESLONG.,
Essai, etc., Techener, 1838, p. 161; KELLER, Roman
des Sept Sages, Tiibingen 1836, Einleit., p. CLIX, e
Dyocletianus Leben, Quedlinb., 1841, p. 49). Di qui
passò alle varie traduzioni del Romanzo dei Sette
Savj (vedi pel Francese, il Romanzo in prosa, Paris,
Techener, 1838, p. 80; e per quello in versi, edi-
zione Keller, p. 143; per l’ inglese, la cit. Introduz.
del KeLLeR, p. LXXXIX; pel tedesco, la ediz. del
Marbach, p. 85; per l’armeno, la nov. XIV). In
italiano si trova a pag. 65 del Libro dei Sette Savj
da me pubblicato (Pisa, Nistri, 1864, p. 34), nel
testo pubblicato dal CAPPELLI (Bologna, Roma-
gnoli, p. 34), nella Storia d’ una crudel Matrigna
(Bologna, Romagnoli, p. 41) e nella Storia di Ste-
fano figliuolo d’un imperatore di Roma, pubbl. da |
P. Ragna, Bologna, Romagnoli, 1880 (disp. 176
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DEL « NOVELLINO » 121
della Scelta di curiosità lett.) p. 121. Indipenden-
temente dal libro dei Sette Savj, si trova in latino,
nelle Latin stories del WRIGHT (p. 156, 297); in
ebraico, nelle Par«bolae vulpium di RaBBI Bara-
cHIAE NIKDANI (Pragae, MDCLXI, p. 293); in tedesco.
nei Beispiele di Boner, p. 59; in francese, oltre
che in SAINT-EvREMOND (I. 236) e in LAFONTAINE, in
Marie De FRANCE (ediz. Roquefort, 1820, II, 171), in
Eusrace DEscHAMmPSs, nell’ Ysoper (RoBeRT, Fadl.
inédait., Paris, Cabin, 1825, II, 431), e nei Vabliaua
di Barbazan-Méon, III, 462. Per altre indicazioni,
vedi il RoBERT (loco cit.), e il DunLoP (p. 41, 522).
In italiano trovasi nell’ Esopo senese, n. XLIX, nel
Riccardiano, n. XXXI, nel lucchese, n. XXXI, e
in quello del Ghivizzani, n. XLIII, non che nel-
l’ Accio Zucco n. 49, o nel Tuppo, n. 49. Come
novella, trovasi in quelle del SeRcAMBI (Bologna,
Romagnoli, 1871, p. 138), e in quelle degli Inco-
gniti, nov. II. Per altre versioni in verso o in
prosa, vedi Passano, Novellieri in prosa (Torino,
Paravia, 1878), vol. II, p. 413, e Novellieri in veri,
p. 4, 273. Il dott. KoHLER in un artic. del Jahkrd.
f. roman. literat. (XIII, 407) ricorda anche un’ altra
versione ebraica del Buch Kidduscim (Giessen,
1817, p. 104), ed una popolare russa narrata dal
LercH nell’ Orient u. Occid., II, 373. V. anche
GriseBACcH, Die Wanderung der Novelle von der
treulosen Wittme durch die Weltlitteratur, Berlin
1886; Amabile di continentia, romanzo morale a
cura di A. Crsari, Bologna, Romagnoli (Colle. di
op. ined. o rare), p. CKXXVII e seg., non che del
medesimo, Come pervenne e come rimase in Italia
la Matr. d’ Ef., Bologna, Zanichelli, 1890; G. AMALFI,
Partenio di Nicea e le favole milesie (parte prima),
Napoli, 1906, p. 34, n.
» GO gle
199 LE FONTI
NOVELLA LX.
Qui conta come Carlo d’ Angiò amò per amore.
Con lievi variazioni è la LVII B.
Senza darne il sunto, nè indicarne le fonti, no-
tiamo soltanto a proposito della smania pei tornei
qui attribuita a Carlo, e della contrarietà del re
per simili ludi, come ToLomro pa Lucca, fra le
cause per le quali S. Luigi acconsentì alle pro-
poste pontificie di investire il fratello del reame di
Napoli, pone anche quies sui regni quod perturbabat
Carolus in torneamentis (Rer. Ital. Script., XI, 1154).
Però, fatto re, sembra che Carlo divenisse poco
propenso alle giostre e ai tornei; v. G. pe BLASHS,
Le case dei principi angioini, cit., p. 25, nota 2.
Sulla nostra novella v. U. Di GIuLIo, Amor che a
nullo amato, ecc., nel giornale La Favilla, XXV,
p. 205.
NOVELLA LXI.
Qui conta di Socrate filosofo come rispose a’ Greci.
Il Soldano de’ Greci manda ambasciadori a
Roma per essere assolto dal pagar tributo. I romani
rimettono la risposta in Socrate filosofo romano.
Vanno a lui gli ambasciadori, e trovandolo occu-
pato in lavorar la terra ed essendo da lui ban-
chettati assai miseramente, credono di poterlo
corrompere con danari. Ma Socrate, rifiutando i
doni, sentenzia che i greci seguitino ad esser sog-
gelti a Roma nell’avere e nelle persone.
Con lievi differenze è la LVIII B., e con mag-
giori assai, appropriata al re di Francia ed a
Seneca, è la VIII P.
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DEL « NOVELLINO » 123
Il PARENTI osserva con ragione che questa
novella, in cui sono malamente scambiati i luoghi,
i tempi e le persone, si potrebbe riferire al fatto
di Curio narrato dagli storici, e ricordato in breve
da CicekonE (De Senect. n. 55): Curio ad focum
sedenti mugnum auri pondus Samnites cum attu-
lissent, repudiati ab eo sunt. Non enim aurum
habere praeclarum sibi dixit, sed iis qui haberent
aurum imperare. Potrebbe anche riferirsi a Fabrizio
(GeLLio, I, 14, VaLer. Mass., IV, 3, 6, FRONTIN.,
IV, 3, 2, Serv. ad VI, 845). Alla leggenda di Socrate
appartiene anche il cap. LXI dei Gesta Romanorum
(ediz. Swan, I, 213; Violier der hist. rom., cap. 59).
Una certa analogia è anche fra la novella del
Novellino ed una narrata dal Sacchetti nel .Ser-
mone 38, v. L. DI FRANCIA, op. cît., p. 72.
NOVELLA LXII.
Qui conta una novella di messer Roberto.
La Contessa di Ariminimonte in Bretagna gia-
cesi con un portiere, del quale già le sue ancelle
avevano provato le forze. Il conte lo sa: ammazza
il villano, e del cuore fa una torta che le donne
mangiano e trovano buona. Il conte allora scuopre
loro di che è fatta, e la contessa e le sue donne
si fanno monache in un monastero da esse fon-
dato. Nel quale rimase poi il costume che ogni
cavaliero vi capitasse, fosse di tutto punto fornito,
ma alla mattina di poi dovesse alle tre volte
mettere un fil di seta nella cruna di un ago, sotto
pena di perdere ogni suo arnese.
Quest’ ultima parte, con notevoli differenze,
forma la XVIII P.
Google
Ki
Ma;
124
LE FONTI
Il cuore dell’ amatore dato in pasto all’ amata
dal marito geloso, trovasi primamente in quel laio
di Guiron accennato nel poema di Tristano (edi-
zione Michel, III, 39, 95; WoLr, Ued. die Lais, p. 52):
quindi nel Lai d’Ignaurès, ove non una sola ma
dodici dame se ne pascono, e poi si lasciano
morir d’ inedia (ved. Le Granp D’A., Fabl., IV, 162;
Hist. littér. de la France, XVIII, 776). Su questo
stampo sono condotti il Romanzo della Dama di
Fayel (vedi Ze Roman du Chasteluin de Coucy et
de la dame du Fayel, ediz. Crapelet, Paris, 1829;
Hist. littér. de la Fr., XVII, 664), che dopo l’orri-
bile pasto ammannito!e dal marito si lascia morire
di fame; la novella della moglie di Guglielmo
Rossiglione che, mangiato il cuore del drudo suo
Guardastaguo, si getta da una finestra, come rac-
conta il Boccaccio « secondo che narrano i pro-
venzali » (Decam., IV, 9), e la novella di Caterina
de’ Salimbeni che si trafigge con un coltello
(Novelle ined. di G. Sercambi, per cura di R. RENIER,
Torino, Loescher, 1889, p. 338). Aggiungasi la leg-
genda tedesca del cavaliere Brennberger riferita dai
Grimm nelle Deutsche Sagen (trad. franc., II, 252).
Per altre versioni antiche e moderne del cuore
mangiato, vedi Von DpER HAGEN (Gesammt., 1,
CXVI), e per l’uso letterario e il significato sim-
bolico che gli si diede nell’ antica poesia, vedi la
mia annotazione alla Vita Nuova di DANTE (Pisa,
Nistri, 1873, p. 6). Della leggenda del cuor man-
giato ha scritto RocHHoLz nel Zeitschr. f. deutsch.
Philot., 1868, nonchè il GrAEssE, Literdrgesch., III,
1120. Vedi anche nella Romania, VIII, 343 (a. 1879)
l’art. di G. PARIS, Ze Roman du Chatelain de
Coucî. La seconda parte della nostra novella ha
qualche somiglianza colla licenziosa Historia del
Bolognese edita da J. ULRICH in Romanische For-
schungen, XX, 3, secondo una rara stampa popolare.
TI
Google
DEL « NOVELLINO » 125
NOVELLA LXIV.
D'una novella che avenne in Proenza alla corte
del Po.
Questa ampia novella che non sembra appar-
tenga al nucleo più antico del Novellino (v. ArUCH,
in Rass. Bibl. d. lett. it., cit., p. 35) ha strette
relazioni con un rifacimento della biografia di
Rigaut de Berbesieux datoci da un ms. Lauren-
ziano, come mostrò A. THoMmaAs, Richard de Bar-
besieux et le Novellino, in Giorn. di filol. rom., III,
12 e seg.; tuttavia G. PARIS giudicò che il novel-
latore dovesse aver sotto gli occhi un testo diverso,
sebbene affine al Laurenziano (v. G. PARIS, Jaufré
KRudel, in Revue histor., LII (1893), p. 236.
NOVELLA LXV.
Qui conta della Reina Isotta e di Messer Tristano
di Leonis.
Tristano avea questo contrassegno colla Reina
Isotta, che venisse a favellargli d’amore ogni qual-
volta fosse torbida l’acqua di un rigagnolo che
passava per il palazzo reale. Un giardiniere si
avvide della cosa, e ne fece avvertito il re Marco,
che si appiattò sopra un pino soprastante alla
fontana. Venne Tristano e fece il segno, e Isotta
si mosse per andare al convegno, ma alzando gli
occhi al pino vide l’ombra sua più spessa. Sospet-
tando del vero, Isotta vitupera Tristano accusan-
dolo di parlar male e bugiardamente di lei, e
Tristano fingendosi pentito, giura di partire il dì
appresso per non più tornare. Il re è contento del-
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126 LE FONTI
l’onestà della moglie, e trattiene a corte il nipote
che la mattina appresso faceva finta di partirsi.
Con lievi varianti è la LXII B.
Vedi il poema di Tristano (ediz. Michel, I, 1-18);
la Tavola Ritondu (Bologna, Romagnoli, p. 232 e
seg.); Le Roman de Tristan publ. par J. Bédier,
T. I, Paris, Firmin-Didot, 1902 (Soc. d. anciens
textes) p. 198 e seg. Il KELLER (Kom. des Sept Sages,
Einl., p. CLXXVII) cita anche GoTTFR. von STRAS-
sBuro, Werke (ediz. Von der Hagen, II, 243) e il
Buch der liebe (ed. Biisching e von der Hagen, I, 49).
NOVELLA LXVI.
Qui conta d’ uno filosofo lo quale era chiamato
Diogene.
È la nota novella di Diogene al sole e Ales-
sandro Magno.
Quasi identica è la LXIII B.
Vedi VaLer. Mass. (IV, 3). Si trova anche nella
Discipl. Clericalis (ediz. Schmidt, p. 78; edizione
Labouderie, p. 179; BarBazaN-Méon, Fabl., II, 171;
Le GRAND D’A., Fabl., I, 365); ma ivi è attribuita a
Socrate, sicchè questa non può esser la fonte diretta
del Novellino. Per gli autori antichi e medievali
che riportano l’ aneddoto, vedi le annotazioni dello
SCHMIDT (op. cit., p. 162).
NOVELLA LXVII.
Qui conta di Papirio come il padre lo menò a
consiglio.
Papirio fanciullo romano viene dal padre con-
dotto in Senato un giorno di seduta segreta. La
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DEL « NOVELLINO » 127
madre vorrebbe saper da lui che cosa si è trattato ;
ed egli, per liberarsi dalla molestia, dice essersi
consigliato se sia più proficuo alla Repubblica che
gli uomini abbian due mogli o le donne due mariti.
La madre dice la cosa ad altre donne; la novella
si sparge, e ne nasce un tumulto delle donne
romane innanzi al Senato. La prudenza di Papirio
è lodata, ma si approva che d’ora innanzi niun
fanciullo sia introdotto in Senato.
Con lievi varianti è la LXIV B.
Vedi in proposito AuLo GeLLio, I, 23; MAcROBIO,
I, 6, 20; PoL1B., III, 20. Molte indicazioni sulle suc-
cessive versioni di questa novella trovansi nelle note
dell’ OesteRrLEy alla novella 392 del PAULI, Schimpf
und Ernst, e in quelle dello stesso OESsTERLEY al
cap. 126 dei Gesta (p. 732): aggiungasi l'indicazione
dei versi su questo soggetto di ILpEBERTO (Opp.,
col. 1356). In italiano trovasi la novella fra quelle
del Sercambi, con Merlino per protagonista (v. Nov.
ined. per cura di R. Renier, cit. p. 118), nel Vo/ga-
rizeamento del giuoco degli Scacchi (Milano, Fer-
rario, 1829, e in ZAMBRINI, Libro di Novelle, Bologna,
Romagnoli, 1868, p. 1), nel FrA PaoLino, Trattato
de Regimine Rectoris (ediz. Mussafia, Vienna, 1868,
p. LIII, 44), e nel Fiore di filosofi (ediz. Cappelli,
Bologna, Romagnoli, p. 16), in NANNUCcCcI, Manuale,
Barbèra, 1857, II, 305 e nell’ ediz. di H. Varnbagen,
Ueber die Fiori e Vita di filosofi ecc. (Erlangen,
Iunge, 1893, p. 9). L’ aneddoto è menzionato, ma,
a quel che pare, senza attribuirlo al fanciullo
Papirio, anche in un antico predicatore francese,
citato dal Lecoy DE LA MARCHE, La chaîre frane. au
moyen-Gge (Paris, Didier, 1868, p. 404). È poi un epi-
sodio del Marcolfo e del Bertoldo: v. G. CorTESE-PA-
GANI, Il Bert. e i suoi fonti, in Studi Mediev. III, 592.
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128 LE FONTI
NOVELLA LXIX.
Qui conta della gran giustizia di Trajano Impe-
ratore.
Con lievi varianti, e senza l’ ultima parte, è la
LXVII B.
È la notissima istoria dell’imperatore Trajano
(da Dione Cassio attribuita ad Adriano) e della
vedovella, riferita anche da DANTE (Purg. X, Para-
diso XX). Vedila in Giovanni Diacono (II, 44),
PauLo Diacono (17), Giov. DAMASCEN. (De iis qui
in fid. dorm. I, 16) e in SIGEBERT, Chron. ann. 521,
citati dal GREGOROVvIUS, St. della città di Roma,
III, 3, 2; nonchè nella Legenda aurea (ed. Grisse,
p. 196), nei Fiori e Vita di filosofi (ed. Varnhagen,
cit. p. XX e seg., e p. 31); e nel commento ai Docu-
menti d'Amore di FR. DA BARBERINO (ediz. della
Soc. filol. romana, p. 92). Quantità di testi, così
sopra Traiano e la vedova come sulla liberazione
dell’ anima di Traiano per opera di S. Gregorio,
sono raccolti dal MAssMann, Kaiserchrontk, III, 752
e seg.: ma su tutta la leggenda, le sue origini e
gli svolgimenti, vedi G. PARIS, La legende de Trajan,
Paris, Imprim. nation., 1878 e A. GRAF, Roma
nella memoria e nelle immaginazioni del M. Evo, II,
Torino, Loescher, 1883, p. 1 e seg.: e anche il
Commento dello ScartAzzINI al X, 75 del Purg.:
v. pure M. Bari, La Legg. di Tr. nei volgarizz.
del Breviloquium, Firenze, Carnesecchi, 1895. La
sola prima parte della novella trovasi anche nel
Dolopathos (in LoIsELEUR, Essaî, etc., p. 131; ediz.
Montaiglon, p. 265). Tutti gli antichi commentatori
danteschi ne fanno menzione, per es. l’AnoNIMO
Riccarpiano (ediz. Fanfani, Bologna, Romagnoli,
JI, 17), 1’ Ottimo (ediz. Torri, Pisa, II, 161), il DeLLA
LANA (ediz. Scarabelli, Bologna, Romagnoli, II, 116),
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DEL « NOVELLINO » 129
il Buti (ediz. Giannini, Pisa, Nistri, 1860, II, 235).
Notisi che secondo questi due ultimi è la lingua
stessa di Traiano, trovata ancor fresca, che parla
allo scongiuro fattole dal Pontefice, e dice a chi
appartenne. Trovasi questo racconto anche nel
Fiore di Filosofi (ediz. Cappelli, p. 58, e NANNUCCI,
Manuale, II, 315). In proposito della liberazione di
Traiano vedi il libro intitolato: Istoria del M. A.
F. ALronso Giaccone nella quale si tratta esser
vera la liberazione dell'anima di Trajano impera-
tore dalle pene dell’ Inferno per le preghiere di
S. Gregorio papa, fatta volgare ed aggiuntane
alcuna cosa del P. M. D. F. PirrERI camaldol.
(Siena, Bonetto, 1595) e anche la Historia ceu veris-
sima a calumniis multorum vindicata ecc. Vene-
tiis, 1993. La prima tradizione invece è riprovata
dal Baronio (t. VIII an. 119 e 604), e dal BeLLARMINO
(De purgat., 1I, 8); v. BAYLE, Dictionnaire ecc., ad voc.
NOVELLA LXXII.
Qui conta come Cato si lamentava contro alla
ventura.
Per il lamento del prigioniero contro alla For-
tuna, di cui trovasi traccia in molte opere medievali,
è da tener presente la grande diffusione dell’ opera
di Boezio. Anche in età più recente a quella del
Novellino si ebbero componimenti ispirati alla stessa
idea; v. A. MepIN e L. FRATI, Lamenti storici dei
sec. XIV, XV, XVI, Bologna, Romagnoli, 1887, (disp.
919 della Scelta di curiosità letter.) vol. I, p. 66 e seg.
NOVELLA LXXIII.
Come il Soldano avendo bisogno di 1inoneta volle
coglier cagione a un giudeo.
Per poter trarre moneta da un giudeo, il Sol-
ar
dano gli dimanda qual sia la vera fede: perchè
D’ AncONA - II 9
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130 LE FONTI
se egli dirà che sia la propria, ingiurierà quella
dei saraceni, e se dirà che sia questa, non dovrebbe
osservarne un’ altra. Il giudeo risponde col noto
apologo dei tre anelli simili lasciati da un padre
morente a tre figli, ma dei quali uno solo è vera-
mente prezioso, e il padre solo il conosce.
Con lievi varianti è la LXXII B.
L’ origine giudaica o maomettana di questa
novella è evidente, sebbene il libro ebraico del
Scebet Jehudà che la contiene, non sia che del
secolo XV (vedi LAnDAU, Die Q. d. Decam., p. 64,
2 ediz., p. 163). Il testo ebraico trovasi tradotto
in italiano dal LEVI, Cristiani e Ebrei (Firenze,
Le Monnier, 1866, p. 411), e su diesso è da vedere
quel che dice il NicoLas, Essais de philos. et d’ hist.
religieuse (Paris, Lévy, p. 325). É noto come questa
novella, della quale si è giovato il LEssINa pel suo
Nathan der meise, si trovi, oltre che nel nostro
libro, anche nel Decamerone (I, 3), nell’ Esopo di
Francesco del Tuppo (v. G. Rua, Di alcune novelle
inserite nell’ Esopo dî Fr. del Tuppo, Torino, nozze
Merkel-Francia, 1889, pp. 11-12), e nell’Avventuroso
Ciciliano di Boson Da Go8pio (III, 337, riportato in
ZAMBRINI, Libro di Novelle, p. 60). Questa stessa
narrazione, ma animata da spirito assolutamente
diverso, e per provare la preminenza della fede
cristiana, trovasi nei Gesta Romanor. (ediz. Keller,
cap. 89; ediz. Swan, I, 41; Violier, p. 224), e nel
Dis dou vraî antiel, analizzato nella Mist. litt. de
la Fr. (XXII, 259), e pubblicato dal prof. ToBLER
(Leipzig, 1871). Vedi altri raffronti nelle note del-
1’ OrstERLEY ai Gesta, p. 726. Il prof. SALVATORE
Marino (La Baronessa di Carini, Palermo, Pedone,
1873, p. 20) dice che la novella è popolare in
Sicilia.
Google
DEL « NOVELLINO » 131
NOVELLA LXXIV.
Qui conta una novella d'uno fedele e d'uno signore.
Un villano sapendo che a un signore piacciono
molto i fichi, gliene porta una soma, ma quando
già se ne trovavan tanti che si davan anche ai
porci. Il signore credendosi scornato da questo
dono, ordina che il villano sia legato, ei fichi gli
sieno l’uno dopo l’altro gettati in volto. A ogni fico
che gli capita presso all’occhio, il villano ringrazia
Dio. Interrogato del perchè, risponde: perchè se
avessi seguito un pensiero che ebbi di portar pesche,
a quest’ora sarei cieco. Il signore ride, perdona,
e lo ricompensa largamente.
È la LXXIII B.
Trovasi nel Talmud (Medrasch Rabà, Levitico,
parte VI, p. 172), riferita all’ Imperatore Adriano,
ed è tradotta dal Levi, Parabole, leggende e pen-
sieri racc. daé libri talmudici (Firenze, Le Mon-
nier, 1861, p. 213), e dall’ Hurvirz, Die Sagen d.
Hebraer (Leipzig, 1826, p. 69). Al buffone turco Nasr-
Heddin-Hodja troviamo attribuito questo stesso
motto, (v. A. GAZEAU, Les bouffons, Paris, 1882,
p. 203). Anche questa novella è secondo il Saro-
MONE Manino (op. cit., p. 20), popolare in Sicilia.
In Sveronio (Vit. Tiber., cap. 60) si narra di un
pescatore di Capri che portò a Tiberio una triglia;
ma l’ Imperatore malcontento che colui avesse sco-
perto ove egli si nascondeva, ordinò che con quella
gli si sfregasse la faccia: onde il malcapitato ebbe
a dire: meno male che non gli ho portato una
aligusta.
Google
| dee
133 LE FONTI
NOVELLA LXXV.
Qui conta come Domeneddio si accompagnò con
uno giullare.
Domeneddio e un giullare si accompagnano
insieme: un giorno il secondo va a nozze e l’altro
ad un mortorio. Avendo risuscitato il morto, Dome-
neddio ne ha gran ricompensa, e con una parte
dei danari, il giullare compra un capretto, lo arro-
stisce, ma ne prende per sè gli arnioni. Il com-
pagno dimanda gli arnioni e l’altro risponde che
in quel paese i capretti non ne hanno. Un’altra
volta, Domeneddio va a un par di nozze, ed il
giullare a un mortorio, ma non gli riesce di risu-
scitare il morto, onde è tenuto per beffatore e
condannato alla forca. Domeneddio vorrebbe saper
chi mangiò gli arnioni, ma l’altro persiste nella
sua risposta: pur tuttavia è liberato, perchè il
morto è risuscitato da Domeneddio. Questi però
dichiara di volersi partire dalla società, e fa tre
parti dei danari, una per sè, l’altra pel giullare,
e la terza per chi mangiò gli arnioni. Allora il
giullare confessa per ingordigia ciò che fino allora
aveva ripetutamente negato.
Più breve, e cangiato il Signore in un mago,
è la LXXV del codice Marciano, stampato dal
Tessier per nozze Della Volpe-Zambrini, Venezia,
1868, p. 13.
L’ Hist. littér. de la France (XXIII, 93) dà alla
novella una origine francese, ma senza arrecarne
nessuna prova. Le versioni tedesche notate dai
GRIMM (K. u. Hausm., III, 109) a proposito del
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DEL « NOVELLINO » 133
racconto popolare Bruder Lustig (n. 81) sono tutte
più recenti della nostra. Altre versioni popolari,
più o meno compiute, si leggono in GLINSKI, Bajarz
Polski (Wilna, 1862, II, 220); in SCHÒNWERT, Sttten
und Sagen (Ausburg, Rieger, 1889, III, 302): in
STRACKERJAN, Aberglaube u. Sagen aus dem Herzog.
Oldenburg (Oldenb., Stalling. II, 301); in PETER,
Volksthimliches aus éòsterr. Schlesien (Troppau,
1867, II, 136); in Wenzia, Westslamischer Mdàr-
chenschate (Leipzig, Lorck, 1857, p, 88); in Rat-
sToN, Cont. popul. de la Russie, Paris, Hachette,
1874, pag. 317; in Cosguin, Cont. popul. Lorrains
(Romania, a. 1877, VI, 578), e Cont. popul. de Lor-
raine, ecc., Paris, Vieweg, 8. a., I, p. 285; in
LuzeL, Lég. chrét. de la Basse Bretagne, Paris,
Maisonneuve, 1881, vol. I, p. 30 (v. anche p. 39
e sg.). Solo in parte vi troviamo riscontro in una
leggenda algerina edita da NicoLaipes, Folk-lore
des Arabes de l’Algerie, in La Tradition, VII (1893),
p. 192 sg., e in una riferita da F. PéTIGNY (Contfes
de la Beauce et du Perche, in Rev. d. trad. pop.,
XIII, p. 182-183). Vedi un art. del dott. K6AHLER
sul libro del PETER nei Gòtt. gelh. Anzeig. (1868,
L 1377) e le indicazioni aggiunte dal Cosquin,
. cit., p. 579 e p. 286-288; dal CRANE, Ifal. popul.
Di Boston and New-York, 1885, p. 361. Nella
Zeitschr. d. deutsch. morgenlina. Gesellsch. (XIV,
280), trovasi un testo persiano pubblicato e tra-
dotto dal RucKeRT, contenente questa novella, alla
quale si aggiunge anche l’altra, della quale diremo
più sotto al n. LXXXIII, ambedue appropriate,
come nel nostro libro, a Gesù. Il poeta persiano
FARÎ-DAT-DîNn- ATTAR che ne è autore, morì nella
prima metà del sec. XIII. La prima parte di questa
novella, fino cioè alla condanna del compagno, e
senza l’ episodio degli arnioni, trovasi in un rac-
Google
134 LE FONTI
conto popolare toscano, riferito dal De GUBERNATIS,
Novelline di S. Stefano (Torino, 1869, n. 31; Gesù
e Pipetta); il solo episodio del capretto trovasi in
un racconto abruzzese (A. De Nino, Usi e costumi
abruzzesi, Firenze, Barbéra, 1887, vol. IV, p. 77, ein
uno siciliano raccolto da R. CASTELLI (Arch. d. trad.
pop., XXII, p. 222); quello del miracolo mal riu-
scito, nella novella siciliana Lu Signori, S. Petru e
li apostoli (PitRÈ, Fiabe, Novelle ecc. vol. III, 54) e
nell’ altra S. Pietru e lu scarparu, in Fiabe e Leg-
gende, Palermo, Lauriel, 1888, p. 194; e cfr. p. 195-6
per altre indicazioni. V. pure M. MonNIER, Les contes
pop. en Italie, (Paris, Charpentier, 1880, p. 30); ed
anche un racconto abruzzese raccolto da G. Fina-
MORE (Arch. d. trad. pop., IV, 475). Tutta intera
la novella è in NERUCCI, Novelle pop. montalesi,
Firenze, Le Monnier, 1880, nov. XXXI: Pipetta
bugiardo; in A. BaLLaporo, Alcune legg. di {esù
Cristo e S. Pietro (Folk-lore veronese), Verona,
Franchini, 1897, p. il, 13 e sg., e nel periodico
Niccolò Tommaseo del Giannini, II, 121; in G. G.
BAGLI, Saggio di nov. e fiabe in diul. romagnolo,
Bologna, Fava e Garagnani, 1887, p. 18 e sg., e
in un’ altra versione abruzzese riferita da G. Fina-
MORE (Arch. d. trad. pop., IV, 487). V. poi in Arch.
d. trad. pop., XX, 44-45, alcune altre indicazioni.
NOVELLA LXXVI.
Qui conta della grande uccisione che fece il re
Ricciardo.
Il Soldano manda, sotto specie di cortesia, un
destriero al re Ricciardo, sceso in Palestina senza
cavallo. Ma il re vi fa montar su un suo scudiere :
il cavallo lo conduce al padiglione del Soldano,
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DEL « NOVELLINO » 135
che aveva tentato, con tale strattagemma, di impa-
dronirsi del nemico.
Con leggiere varianti è la LXXV B.
L’ Hist. littér. de la France (XXIII, 162) dice:
« L'’ histoire, qui ne parle point de cette ruse, dit
seulemeni que Malek-Adel, frère de Saladin, admi-
rant la bravoure de Richard, lui fit présent de deux
chevaux arabes sur le champ de bataille. L anecdote,
arrangée en fabliau, peut fort bien venir de nos
‘ rimeurs; nous ne l’ avons point retrouvée dans leurs
manuscrits ». Ivi sì rinvia al MicHAUD, Hist. des
Croisades, t. II, p. 509.
NOVELLA LXXXI.
Qui disotto conta il consiglio che tennero li figliuoli
del re Priamo di Troia.
Il Gorra (Testi ined. di storia troiana, ecc.,
Torino, Loescher, 1887, p. 212) avverte che « se il
racconto del Novellino.... deriva certamente dal
« Roman de Troie », non ne proviene però diret-
tamente; qualche anello intermedio è necessario
ad ammettersì ».
NOVELLA LXXXII.
Qui conta come la Damigella di Scalot morì per
amore di Lancialotto de Lac.
Questa damigella spregiata nell’amor suo, mo-
rendo disperata, ordina che il suo corpo sia messo
in una navicella, nobilmente arredata, e in una
borsa alla sua cintura si ponga una lettera che
dia ragione della sua morte. La navicella giunge
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136 LE FONTI
a Camalot, e tutta la corte del Re Artù legge la
lettera.
Con lievi varianti è la LXXXI B.
Vedi La morte Arthur (ediz. Furnival, London,
1864, vv. 1048-1095), La mort d’Arthure.... compiled
by sir TH. MaLory (ediz. Wright, London, 1866;
e ediz. Strachey, London, 1868, cap. IX, XIX, XX).
Di qui, principalmente, trasse il TEnnyson il suo
poema The lady of Shalott (v. D. LAURENCE CHAM-
BERS in Modern Language Notes, XVIII, 227).
NOVELLA LXXXIII.
Come Cristo andundo un giorno co’ discepoli suoi
per un foresto luogo, videro molto grande tesoro.
Cristo passa co’ discepoli da un luogo ove è
‘molt’oro e consiglia di lasciarlo stare, come quello
che è cagione che le anime si perdano. Giungono
dopo di essi due compagni che deliberano di divi-
dersi il tesoro: uno va alla città a prendere un
mulo per caricar la preda: l’altro resta a guardia.
Ma quegli riporta un pane attossicato che dà da
mangiare al compagno, e questi, volendo rimaner
solo possessore del tesoro, uccide l’altro a tradi-
mento. Poi è colto dalla morte, e i due corpi giac-
ciono accanto all’intatto tesoro. Cristo ripassa
coi discepoli, e mostra loro la verità della sua
sentenza.
Più svolta, e cangiato Cristo in un romito, è
la LXXXII B. e la XVI P.
Negli Avadanas (trad. JuLien, I, 60, II, 89) rac-
contasi che il Budda un giorno, viaggiando con
un compagno, scoprì un mucchio d’oro e di cose
Google
DEL « NOVELLINO >» 137
preziose: ed ecco, gli gridò, un serpente velenoso.
Ma un uomo che li seguiva raccolse il tesoro e lo
portò a casa, e fece tante spese e si mise in tanto
lusso, che eccitò la cupidigia del re, e venne spo-
gliato ed ucciso, mentre ricordando le parole del
Budda, esclamò: è un serpente velenoso. Il Lie-
BRECHT (Orîent. u. Occid., I, 656) assevera che il
racconto ha origine orientale, e rimanda al FABRI-
cius, Codex Apocr. Nov. Test. III, 395, e alle Malle
e una Notte (traduz. tedesca, Breslau, 1856, XIV,
91). Si vedano, a questo proposito, i Riscontri
orientali di I. Pizzi in Giorn. stor. della letter. ital.,
XXII, pag. 225. Varie redazioni di questa novella
ci dà R. Basset, Contes popul. berbères, Paris,
Leroux, 1887, p. 107 e 202; Recueil de textes et
docum. berbères, pag. 42; Contes popul. d’ Afrique,
cit., p. 185; Contes et légendes arabes, in Revue des
tradit. pop., XIV, p. 438-39; Un recueil des contes
de l’ Australasie, in Revue des trad. pop., XX, p. 2.
L’ origine orientale è confermata da A. LecLèRE in
un art. della Rev. d. trad. popul. XXVI, 277, dove
è narrato che quattro malvagi, un mentitore, un
ladro, un assassino e un seduttore si accozzano
insieme e raccolgono un gran tesoro, che ciascun
d’ essi vorrebbe per inganno far suo, e tutti restan
morti, e l’ultimo dalla donna che ha sedotto,
sicchè nessuno ne gode, e il tesoro resta nascosto e
introvabile. L’ avventura è entrata a far parte della
Rappresentazione di S. Antonio (Rappres. Sacre,
Le Monnier, 1872, II, 33) aggiungendosi alla primi-
tiva leggenda che non ne ha traccia. In Francese
trovasi nei Ci-nous-dit, raccolta inedita di novelle
ricordata da P. PARIS (Les Mss. frane., IV, 82). In
tedesco è fra le opere di Hans SacHs (ediz. Godeke,
I, 225), pel quale vedasi A. CesaANO, Hans Sachs
e i suoi rapporti colla letter. ital., Roma, Officina
Google
138
LE FONTI
poligr., 1904, p. 30 e seg., e la recens. di B. Co-
TRONEI, in Riv. d’Italia, VIII, 1905, p. 672-673.
Dal Novellino il racconto è passato al MorLINO
(nov. XLII, ediz. Jannet, p. 84) e forse al CHAUCER
(Pardoner ’s Tale). Per la versione orale popolare,
vedi KuHnn, Westfal. Sagen (Leipzig, 1859, I, p. 76,
945) e ZinaerLe, K. u. Hausm., (Regensb., p. 104).
Una variante veronese ne dà A. BarLaporo nel
giornale Niccolò Tommaseo (Arezzo, 1904), I, p. 20.
NOVELLA LXXXV.
Qui conta d'una grande carestia che fu a un
tempo in Genova.
La grande carestia di cui si fa menzione è vero-
similmente quella durata per sei mesi, nel 1171,
secondo ci racconta lo storico GIUSsTINIANI negli
Annali di Genova, I, 248 (v. Giornale Ligustico,
gennaio 1881, p. 40 e seg.).
NOVELLA XC.
Qui conta come lo imperadore Federigo uccise un
suo falcone.
Un giorno a caccia, l’ Imperadore lascia andare
il suo falcone prediletto dietro una grue; questa
fugge, e il falcone si rifà sopra un'aquila gio-
vane. Federigo, accortosi della preda, gli taglia
il capo, perchè il falcone uccise fellonescamente
il suo signore.
Il dott. KònLER m' avverte che l'avventura tro-
vasi anche col titolo: Der junge Konig und sein
Falke nella raccolta di novelle ebraiche di TENDLAU,
Google
DEL « NOVELLINO » 139
Fellmesers Abende (Frankfurt, 1856, p. 25), ma senza
alcuna citazione di fonti.
NOVELLA XCI.
Come uno si confessò da un frate.
Uno si confessò a un frate di aver avuto inten-
zione di rubare, ma non esser riuscito. Il frate
non vuol dargli l’assoluzione, dacchè egli ha pec-
cato come se avesse recato ad atto il suo divisa-
mento, se non gli porti i danari che da lui saranno
dati in elemosina. Un altro giorno il peccatore
promette di mandare al frate uno storione: non
lo fa, e l’altro aspetta invano. Redarguito, risponde
che, poichè aveva avuto l’intenzione di mandar-
glielo, faccia conto di averlo avuto davvero.
Si trova anche in PauLi (ediz. Oesterley, n. 248),
e a p. 507 l’editore cita per un racconto consimile:
Scherz u. Warheyt, 80, MeMEL, 77, p. 49, e Lustig-
macher, 86, 146. Trovasi anche in WALDIS, Esopus
(ed. Kurz, IV, 14), salvo che il peccato è l’aver
desiderato la moglie altrui. Tanto l’ OrsTERLEY
quanto il Kurz nelle loro note raffrontano questa
novella con l’ altra che vedemmo sopra al n. IX.
Il KòHnLeR m'indica anche NicoLas DE Troyes,
Le Grand Parangon des nouvelles, n. 28. Si ricordi
anche una novella italiana riferita da M. MonNIER,
Les contes popul. en Italie, Paris, Charpentier, 1880,
p. 217 (La poule volée), che ha somiglianza colla
nostra; una versione veronese di A. BALLADORO,
La coa de la pita (v. Folk-lore veronese — Novel-
line — Verona-Padova, Ducker, 1900, p. 191-92);
la novella popolare milanese £/ paisan e el pret,
recata dall’ Imbriani (Novellaia fiorentina, p. 619),
Google
£ Po)
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140 LE FONTI
che in nota ricorda una novella del Sacchetti, CXCVI,
e una del Bandello (IV, 3).
NOVELLA XCIV.
Qui conta della volpe e del mulo,
La volpe vedendo un mulo ne ha paura, e corre
al lupo raccontandogli qual nuova bestia ha in-
contrato. Vanno tutti e due, e il mulo dice loro
che ha scritto il suo nome nel piè dritto che alza.
La volpe si scusa di non saper leggere; il lupo
va sotto, ed è ammazzato con un calcio. La volpe
conclude che non ogni uomo che sa lettera è savio.
Con lievi varianti è la XCI B.
Sulle antiche raccolte di favole che contengono
anche questa, vedi RoBERT, Fabl. inéd. (II, 16, 365),
ScHMIDT, Beitrage, etc., (p. 181) e DuMÉRIL, Poes.
inéd. du moy. Gge, (p. 199); The Erempla of J. de
Vitry, ediz. Crane, London, Nutt, 1890, p. 13; si
v. anche Lecoy pe LA MARCHE, L’ Esprit de nos
ayeux, Paris, 8. a., p. 85. Fa parte anche del poema
di Renardo (v. RoBERT, id.), pel quale si veda
L. SuDRE, Les sources du roman de Renart, Paris,
Bouillon, 1893, p. 332 e seg., ed è anche nella tra-
duzione neogreca pubblicata dal GRIMM (p. XLVIII),
e dal GipeL, Étud. sur la littér. grecq. moderne
(Paris, 1866, p. 341). Trovasi anche in Schimpf und
Ernst (p. 170), nella Disciplina clericalis (edizione
Schmidt, p. 41), in ErieNnE De BouRBON, p. 244,
nel Libro de los enxemplos, n. CXXVIII, nei Pro-
verbi di Cintio DE’ FABRIZI, n. III (v. LieBRECHT in
Jahrbuch. f. roman liter., I, 433). Per narrazioni
orali e popolari, vedi Kunn, Merk. Sagen (Der
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DEL « NOVELLINO » 141
dumme Wolf), e HAuUPT unD ScHMALER, Wendisch.
Volksl. (II, 161). Ricordiamo inoltre un racconto
africano riferito da R. Basset, Contes popul. d'Afri-
que cit., p. 25 (Le lion, le chacal, le mulet, ecc.)
e da J. RIVvIÈRE, Recueil de contes popul. de la
Kabylie, Paris, Leroux, 1882, p. 141; uno greco
raccolto in Roccaforte (v. La Calabria, riv. di let-
teratura popolare, anno I, (1888) p. 46-47); e uno
toscano di G. PitRÈ. Nov. popol. toscane, Firenze,
Barbèra, 1885, p. 241-43, che ha qualche analogia
col nostro.
NOVELLA XCGVII.
Il BARTOLI (Storia d. lett. it., cit., III, 187-88) ci
indica in uno degli Assempri di Fra Filippo da
Siena (Siena, 1864, p. 78) il tema di questa novella,
più ampiamente svolto.
NOVELLA C.
Come lo imperadore andò alla montagna del
Veglio.
Vi si racconta in primo luogo, come Federigo
imperadore andò una volta alla montagna del Veglio,
e come questi, per mostrargli quanto fosse temuto
e obbedito, con un solo cenno fece che due assas-
sini che erano su una torre si gettassero giù
morendo incontanente.
Questa favola, nota l’AMARI, St. dei Mussul-
mani in Sicilia \III, 649, Firenze, Le Monnier,
1852), era stata già raccontata più volte in tempi
diversi mutando sempre i personaggi: nel IX
e X secolo fu attribuita agli Ismaeliani di Persia,
nel XII, a que’ di Siria quando Saladino andò a
trovare Sinàn. Il DEFREMERY, Nouv. recherches sur
Google
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149
LE FONTI
les Ismaeliens, plus connus sous le nom d' Assasins,
(in Journ. Asiatig., 1864), dice che il fatto fu attri-
buito prima al fondatore della setta degli Ismae-
liani di Persia, Hacan Ibn Sabbah (cfr. ELMAKIN,
Hist. saracenor., sub a. 483), e si racconta pure
del famoso capo dei Carmali Abou-Jhàhir-Soleiîman
(cfr. HerBeLOT, Bibl. orient., sub. Carmathe, 1776,
p. 326). Gli autori occidentali hanno pur essi avuto
contezza di questa leggenda; il continuatore di
GuaLieLMOo DI Tiro (in MicHAUD, Bibliot. des Croi-
sades, I, 372) e MARIN SanuDo, De secretis fidel.
crucis (p. 201) ne fanno menzione anch’ essi, ma
sotto una data posteriore di qualche anno alla
morte di Sinàn. In questi autori (vedi anche nella
Collection des histor. occident. des Croisades, II,
286, 230, 231), il cavalier cristiano è Enrico conte
di Sciampagna, cui le Novelle antiche sostituiscono
Federigo, e l’ AMARI crede originata tal sostituzione
dalla voce fatta correre che Federigo facesse per
suo conto pugnalare il Duca di Baviera dagli
Assassini, a’ cui ambasciadori diede un convito in
Melfi nel 1232.
La seconda parte della novella dice come l’Im-
peratore conoscesse di esser tradito dalla moglie,
perchè andando a lei, essa gli dice che vi fu pur
testè. È la XCVIII B. Trovasi già un simil racconto,
passato poi al Decamerone (gior. III, nov. 2), nel
Calila e Dimna arabo (traduz. ingl. di Windham
Knatchbull, p. 165), e nell’Anmari-Sohaili o Libro
dei Lumî, p. 167. Vedilo tradotto da GALLAND e
Carponne nei Mille et un jours (ediz. Loiseleur-
Deslong, p. 472). Leggesi anche nella versione
spagnuola del Calila è Dymna (in GAYANGOS,
Escritor. en prosa anter. al s. XV, Madrid, Riva-
deneyra, p. 36). In Francese trovasi nel Roman de
Trubert (Mfon, Nouv. Recueil, I, 213).
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DEI « NOVELLINO » 143
TESTO BORGHINI (')
NOVELLA VI.
Come un fabbro si riscosse d’ una quistione.
Un fabbro accusato présso all’ Imperadore Fede-
rigo di lavorare anche le feste, si scusa col dire
che ogni giorno deve guadagnare quattro soldi e
non più: dei quali una parte ne rende, l’altra ne
dà, la terza getta, la quarta adopera. Invitato a
meglio spiegarsi, dice che colla prima mantiene
il padre, colla seconda fa lemosine, colla terza
alimenta la moglie, e l’ultima spende pel suo
sostentamento. L’ Imperadore gli comanda di non
spiegare a nessuno questo mistero, se prima non
abbia cento volte veduto la sua faccia, e chia-
mati i Savj propone loro la questione dei quattro
soldi, spesi in quei quattro modi. I Savj non
sapendo come risolverla, vanno al fabbro che pro-
mette di parlare se gli si portino cento bisanti
d’oro. Così i Savj sciolgono la questione proposta;
ma l’imperadore si adira col fabbro, che venuto
alla presenza di lui si difende col dire di aver
cento volte visto la sua faccia sui bisanti d’oro.
Con non molte differenze è la VI P.
Vedi nei Gesta Romanor. (c. 57, ediz. Keller;
Swan, I, 189; Madden, X, 25, e p. II, 3, 279; Violier,
p. 128). Ma nelle diverse redazioni dei Gesta manca
(1) J. ULRICH nella sua traduzione tedesca del Novellino, Die hun-
dert alten Erzdihlungen (Romanische Meister-erzdîhler hrsgg. von
F. J. Krauss) Lipsia, 1905, p. 108, incorse in una svista; ivi si corregga
«Aus dem Texte Papantiîs », e a p. 103 « Aus dem Texte Borghinis ».
Google
sia Di
ESSI. de RL
144
LE FONTI
la seconda parte della novella. E la sola prima
parte di essa trovasi nel W.-C. SuyTH, The persian
moonshee (London, 1840, n. 21). Intera, e come
racconto popolare trovasi in Chioggia e î suoi canti
di A. GarLaTo, Venezia, Naratovich, 1885, p. 172, in
Simrock, Deutsche Mdrch. (n. 8), nelle Sicilian.
March. della GONZENBACH (n. 90), nel PiTrÉ, vol. IV,
p. 270 ed è riferita da X. MARMIER in Contes pop. de
diff. pays, cit., Paris, 1888, II serie, p. 307. La sola
parte seconda trovasi in racconti popolari del
Brandeburgo (v. EnaeLIEN, D. Volksm. tn d. Mark.
Br., I, 116), del Tirolo (ZingerLe, K. u. H. M.,
p. 121) e di Sicilia (PiTRÉ, Indovinelli, dubbii e
scioglilingua, ecc., Torino-Palermo, 1897, p. 312
e in Arch. delle trad. pop., XIV, p. 532 e seg.). Per
altri riscontri, vedi K6HLER nelle annotazioni alle
Sicil. March. (II, 234), LiEBRECHT, in Orient u. Occid.,
III, 372, e OESTERLEY, Gesta Romanor. (c. 57, p. 722).
Ricordiamo anche una novella greca di Lesbo rife-
rita da L. PineaU in Rev. des trad. popul., XII],
p. 194 e seg.; e i cenni su tal leggenda di A. Grar,
in Roma nella memoria e nelle immag. del M. Evo,
Torino, 1882, I, p. 245.
NOVELLA LI.
Come il Saladino si fece cavaliere, e il modo che
tenne Messer Ugo di Tabaria in farlo.
Si narra come il Saladino desiderasse esser
fatto cavaliere, e con qual cerimoniale procedesse
in farlo il suo prigioniero Messer Ugo di Tabaria.
È il poema De l’ordene de chevalerie, analizzato
nell’ Hist. littér. de la France (XVIII, 755 e segg.)
e in LegranD D’ Aussy, Fabdl., (I, 208), e pubblicato
per intero in Barpazan-Mfon, Fabl., I, 59. Trovasi
Google
DEL « NOVELLINO » 145
anche nel Roman de Jean d’ Avesnes (DINAUX,
Trouv. du Nord de la Fr., IV, 426), e in CHASTELAIN,
Instruct. d’ un jeune prince, (Mélang. d’ une grande
bibl., D., 297). Antiche versioni tedesche e fiam-
minghe sono notate nel BrunET, Manuel (III, 233;
V, 1514). Posteriore a questa del Novellino, checchè
ne dica in contrario il LAMI, Appendice al Manni
(Milano, Pirotta, 1821, p. 12), è, secondo noi, la
narrazione che si trova nel lib. IIl, c. 13, dell’Av-
venturoso Ciciliano di Mess. Bosone DA GoBBIO
(Firenze, ediz. Nott, p. 310): Come Messer Ulivo
di Fontana fece cavaliere il Soldano di Bambilonia.
È anche narrata dal Doni nella Libreria II, donde
passò alla raccolta di sue novelle (ediz. Lucca,
Fontana, 1852, p. 148, e a quella di G. Petraglione,
Bergamo, 1897, p. 49 e cf. p. 194). |
NOVELLA LVI.
Qui conta come una vedova con un sottile avvedi-
mento si rimaritò.
Essendo in Roma proibito alle vedove di rima-
ritarsi, ed una, ancor giovane, avendone voglia,
ordinò ai suoi famigliari che menassero per la
città un cavallo scorticato. Pel primo giorno se ne
discorse molto per tutta Roma, poi via via il rumore
si acchetò, e in breve non se ne parlò più, per
quanto lo spettacolo sì protraesse. Da ciò la vedova
prese coraggio, e si rimaritò, mostrando ai con-
giunti come delle cose nuove ed inusitate si discorre
qualche tempo, poi la gente se ne ristucca e pensa
ad altro.
Con varianti di dettato soltanto, è la IX P.
Trovasi anche fra le Novellette, Esempj morali
e Apologhîi di S. BERNARDINO DA SIENA (Bologna,
D’ ANncOoNA - II 10
Google
146 LE FONTI
Romagnoli, 1868, p. 27), e nell’ Esopus di WaALDIS
(ediz. Kurz, Leipzig, Weber, 1862, III, 6: Von einer
Witmwen und einem grinen Esel). 11 dott. KòBLER
a proposito di questa novella in un articolo dei
Goetting. gelehr. Anzeig. (10 novembre 1869) rimanda
a Boner, Eldestein (n. 50), ABSTEMIUS, Fad., n. 80:
de vidua et asino viridi, e a GELLERT. Vedi anche
le note del Kurz, II, 114. Sulla proibizione fatta
alle vedove di rimaritarsi, v. a proposito di questa
novella, G. AMATI nei prolegomeni alla Bibliogr.
Romana, vol. I, Roma, 1880, p. CIII e seg. Recen-
temente EmiLio RE (Bollett. Soc. Filol. Romana
del 1907) mostrò in questa novella « l’appropria-
zione della tradizione corrente a una persona deter-
minata ». È una Mabilia Savelli che rimasta vedova
d’ uno Stefaneschi andò sposa ad Agapito Colonna,
e morì nel 1815.
NOVELLA LXV.
Qui conta di due ciechi che contendeano insieme.
Durante la guerra del re di Francia col Conte
di Fiandra due ciechi contendono insieme di chi
avrà vittoria, ed uno sostiene le parti del re, l’altro
dice: sarà che Dio vorrà. Il re di ciò avvertito
fa cuocere due pani, in uno dei quali fa mettere
dieci bisanti d’oro, e questo dare al cieco che tiene
dalla sua. I due ciechi tornano a casa, e quello
che dice: sarà che Dio vorrà, mangia il pane
colla sua donna, mentre l’altro si ciba di altro
pane accattato, e delibera di vendere quello avuto
dal re. Il compagno, a cui il pane del re parve
assai buono, si offre compratore dell’altro, e vi
trova dentro il danaro. La mattina di poi conta
la cosa al compagno, il quale conviene anch’egli
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DEL « NOVELLINO » 147
che le faccende di questo mondo sono in mano di
Dio, e la cosa viene agli orecchi del re, che ne
resta pur esso convinto.
Con qualche variante è la XIV P.
Trovasi, a quel che dice il RoBeRT, Fables inéd.
(1. CXLIX), anche nel Renart le contrefait. Qualche
cosa di simile a questa novella, ritrovano il DUNLOP
(op. cit., p. 250) e il SimRocE, Quellen des Shakesp.
(Il, 246), nella nov. I, giorn. X del Decamerone, nel
Barlaam e Josafat, e nei Gesta Romanor. (c. 109),
nonchè negli Exempla di J. da VirRry (ed. Crane,
p. 18 e 153). La forma primitiva, senza menzione
della guerra, ma colla sola disputa se più giovi
l’aiuto di Dio o quello di Cesare, è probabilmente
quella che si trova nelle Latin stories del WRHIGT,
n. CIV, e nel PauLI (n. 326); ove son da vedere a
p. 510 le annotazioni dell’ OestERLEY, nonchè quelle
dello stesso a pag. 729 pel cap. 109 dei Gesta. Si
veda anche la versione che riferiscono L. PINEAU nei
Contes pop. grecs de V ile de Lesbos (Revue des trad.
pop., XII, 193, 194); il BenFEy, Introduz. al Panc.,
I, 407 e 604; G. FinAMORE in 7rad. pop. abruzzesi,
vol. 1, Novelle, Lanciano, Carabba, 1885, p. 115.
Sul tempo della guerra menzionata nella nov. si
veda ciò che congettura E. RE, op. cit., p. 63,
nota 1. Egli col RoB£kz®t, l. cit., ascriverebbe la
novella « circa al primo quarto del secolo XIV », e
conforta l’ipotesi con un passo del ViLLani (X, 87).
NOVELLA LXVIII.
Qui conta come fu salvato un innocente dalla
malizia de’ suoî nemici.
I cortigiani di un re, invidiosi di un donzello
venuto di recente a corte, gli dicono che il Re è
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148 LE FONTI
assai offeso del suo fiato, e che parlandogli, torca
la bocca o volga la faccia altrove. Il Re si mara-
viglia di questo contegno del giovane, e i corti-
giani glielo spiegano col dire che il donzello ha
detto che non può sostenere il fiato puzzolente
della bocca del Re. Questi adirato scrive ad un
fornaciajo che faccia gran fuoco, e metta nella for-
nace la persona che a lui manderà per prima. Dà
una lettera al giovane pel fornaciajo : ma essendo
ora di messa, il donzello indugia alquanto e
frattanto un cortigiano va al fornaciajo per sapere
se avesse bruciato l’invidiato rivale. Giungendo
per primo, è messo lui nel fuoco: e il giovane
torna libero a corte; il Re mandando a morte tutti
i suoi nemici, lo innalza di grado e di onoranza.
Secondo il LieBREcHT la prima parte di questa
novella è nel Somadeva, cap. 20 (trad. Brockhaus,
II, 62). Il KeLLER, Dyoclet. Leben (p. 44, Einleit.),
dice ch’ essa ricorda l’ avventura del giovane Ahmed
nei Sette Viziri (trad. ingl. Scott, X, p. 53), che
è riferita dal LoiseLEUR-DESLONGScHAMPS nel suo
Essai (p. 132-134). Cristianizzata, diventa questa
novella il racconto du roi qui voulut faire bràaler
le fils de son sénéchal (LE GRAND D' Aussy, Fabdl.,
V, 56; Méon, Nouv. Rec., II, 336), e il capitolo 89
dei Gesta Romanor. (in inglese, ed. Swan, I, CIV;
ed. Oesterley, 283). In italiano è divenuta la n. VIII,
6 degli Ecatommiti del GirALDI, una novella del-
l’ Esopo di Fr. del Tuppo (v. G. RUA, op. cit., p. 13),
e qualche cosa se ne trova nel poemetto popolare
di Florindo e Chiarastella. Per altri raffronti vedi
DunLoP (op. cîit., p. 487), E. Du MérIL (Poésies
inédites du M. A., cit., p. 219), la cit. Introduzione
del KeLLER, le note dell’OEsTERLEY, p. 749, e l’illu-
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DEL « NOVELLINO » 149
strazione di G. PARIS a una versione catalana del
sec. XV, nella Romania, V, 454 (a. 1876). Altre
versioni, oltre le qui notate, si ricordano dal-
l’ HerTz, Deutsche Sage in Elsass (Stuttg., 1872,
p. 279-93). Per la seconda parte della leggenda vedi
le ricche indicazioni del WessELOFSKy nella Roma-
nia, vol. VI, p. 181 e seg. (a. 1877). Di questo
divulgato tema ci dànno altre versioni J. RIVIÈRE,
Rec. de cont. pop. de la Kabylie, cit., p. 35 e seg. ;
A. Dozon, C. albanaîis, Paris, Leroux, 1881, p. 97
e seg.; SCHISCHMANOFF, Lég. rélig. bulgares, Paris,
Leroux, 1876, p. 97 e seg.; F. M. Luzet, C. pop. de
la Basse-Bretagne, cit., Paris, Maisonneuve, 1887,
vol. 1, p. $6; G. RonponI, Trad. pop. e legg. di un
comune mediev., cit., p. 161; L. NATOLI, Prosa e
Prosatori Siciliani del sec. XVI. Milano-Palermo-
Napoli, Sandron, 1904, p. 134 (dove si riferisce la
nov. secondo la dà lo scrittore siciliano ArGISTO
GiurFREDI nei suoi Avvertimenti Cristiani; cf. in
Documenti per servire alla st. di Sicilia, IV serie,
vol. V, p. 69); G. FinAMORE, Trad. pop. abruzzesi,
vol. I, p. 65 e 103. Del resto, sulle origini di questo
motivo si veda l’ importante articolo del KuHN in
Byzantinische Zeitschrift, IV, 244.
NOVELLA LXXIV.
Qui conta di certi che per cercare del meglio per-
derono il bene.
Nell’ultima parte della novella, o per dir meglio
nella terza novelletta che qui si contiene, ritrovasi
il racconto di colui che non poteva riavere un depo-
sito fatto in buona fede ad un falso amico. Una
vecchia lo consiglia di far sì che altri proponga
all’amico infedele un deposito di gran valore, e
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La LI i .
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150 LE FONTI
costui temendo che l’ ingannato non sveli la frode,
gli rimanda i suoi scrigni, e ne riceve in cambio
altri vuoti.
La novella è di origine orientale, e trovasi in
CARDONNE, Mélang. de littérat. ortent., II, 62, e
nelle Mille et un jours (ed. Loiseleur, p. 652) tratta
dall’ Agiaib-Elméaser. Vedila anche nella Discipl.
cleric. (ed. Schmidt, pp. 55 e 137; ed. La Bouderie,
p. 91; ediz. Biblioph. frang., p. 88; ed. Barbazan-
Méon, II, 107: Le Granp D’Aussy, Fabliaur, III, 248).
Vedila anche nei Gesta Romanorum (ed. Grisse,
ed Oesterley, n. CXVIII, e le note dell’OESsTERLEY,
p. 730), nel Libro de los enxemplos (n. XCII), e nel
Libro de li exempli edito dall’ ULRICH (0p. cit., p. 80,
cfr. Romania XII, p. 29). Parecchi critici (Hist.
littér. de la France, XIX, 829; Du MÉRIL, Hist. poés.
scandin., 356 ; LANDAU, Die Quell. des Decamer., 82;
DunLoP, p. 247), trovano in questa novella l’origine
della X novella dell’ VIII Giornata del Decamerone.
NOVELLA XCII.
Qui conta d'uno nobile romano che conquise un
8uo nimico in campo.
È il fatto di Tito Manlio Torquato tolto da Trro
Livio (prima deca, libr. VII, $ IX-X), colle parole
stesse dell’ antico volgarizzamento italiano. (La
prima deca di T. Livio.... per cura del prof. C. Dal-
mazzo. Torino, stamperia Reale, 1846, II, 163).
NOVELLA XCIV.
Come un re per mal consiglio della moglie uccise
i vecchi «li suo reame.
Un giovane re ha moglie giovane, invidiosa e
gelosa di un vecchio precettore del marito. Ottiene
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DEL « NOVELLINO » 151
da lui che si uccidano tutti i vecchi del reame.
Più tardi il re si fa uno strano sogno, ma i suoi
consiglieri, tutti giovani anch’essi, si scusano per
l’età loro di non saperlo dichiarare, ed egli manda
perciò ai sav) vecchi di un re vicino. Gli rispon-
dono che saprà decifrargli il sogno chi venga a
lui menando seco l’amico, il nemico e il giullare.
Un giovane quando venne l’ ordine di uccidere i
ve::chi, aveva salvato il padre nascondendolo senza
saputa della moglie, ma non senza che questa se
n’avvedesse. Quando andò in volta il nuovo bando
reale, il vecchio superstite consiglia il figlio a
presentarsi dal re col cane, la moglie e un figliuo-
letto. Ei va, ed afferma che il cane è il suo migliore
amico, perchè anche percosso gli è fedele; il figlio-
letto è il giullare che lo sollazza; e la moglie è
il peggior nemico. Questa si adira, e scopre al
re che il marito ha disubbidito ai suoi voleri,
salvando da morte il padre. Il re, accordando
perdono, manda a cavar fuori dal nascondiglio il
vecchio, che gli dichiara il senso del sogno.
Questo racconto già del sec. X trovasi in un ser-
mone di RATERIO vescovo di Verona (v. D’AcHERY,
Spicileg., I, 395; Mussaria, Ueb. eine altfranzbsisch.
handsch. d. Universit. biblioth. eu Pavia, in Siteungs-
berichte der K. Akademie d. Wissensch., philol.
hist. Klasse, LXIV (1870), p. 595 e seg.): vi manca
soltanto il fanciullo presentato come giullare, che
trovasi invece nella Scala coli di JOANNES JUNIOR
(Mussaria, id., id.), e nel Dolopathos (vedi Loi:se-
LEUR, Essaî, pp. 125, 291, ediz. Montaiglon, Paris,
Jannet, p. 225). Infinite sono le versioni più o meno
compiute di questo racconto. Ricorderemo soltanto
quelle dei Gesta Romanorum (ed. Keller, 124; Swan,
Google
152
LE FONTI
II, 164; Violter, p. 422), della Storia di Stefano
figlio d’ un imper. di Roma, ediz. del Rajna, cit.
p. 220 (v. anche in Romania, X, p. 25: P. RaJna,
Una versione in ottava rima del libro dei sette savi),
e del Schimpf u. Ernst del PauLi (ed. Oesterley,
n. 123), ove sono da vedere le note dell’ Oesterley
p. 732 dei Gesta, e 521 del Pauti, nonchè la citata
dissertazione del Mussaria ad illustrazione di un
favolello francese di tal argomento; si aggiungano
le notizie raccolte dal KòsBLER in una rassegna
sul lavoro del Mussaria inserita nei Geetting. gel.
Anz. (25 jan. 1871) e in Kleinere Schriften cit.,
vol. II, p. 401. V. anche A. GRAF, Roma nella
memoria ecc., cit., vol. II, p. 43; nonchè una nota
di A. WESSELOFSKyY, in Giorn. Stor. della lett. ital.
VIII, 275. Per la forma orale e popolare di questa
novella, vedansi oltre i due scritti citati del Mus-
SAFIA e del K6BLER, anche le annotazioni (III, 170)
alla novella 94 delle K. und Hausm. dei GRrIMM,
ed altre versioni riferite da G. FinAMORE, Tradiz.
popol. abruzzesi, vol. II (parte seconda) p. 45 e seg.
Il racconto è entrato a far parte anche del ciclo
bertoldiano: vedi GuUERRINI, G. C. Croce, p. 215.
Una novella di Hans Sachs, diversamente svolta
nei particolari, ha pure il motivo del maggiore
amico e del maggior nemico (v. A. Cesano, H. Sachs
e $ suoi rapporti colla lett. it., cit. pp. 32-33). —
L’ episodio del figlio che salva il padre dalla sorte
cui si vogliono condannare tutti i vecchi, trovasi
anche in una nov. di Francesco del Tuppo (vedi
G. Rua, op. cit., p. 13) la quale però nel rimanente
è altra cosa, e si riferisce a uno stratagemma che,
secondo le leggende sarebbesi usato spesso negli
assedj (v. G. PirrÈ, Di uno stratagemma leggendario
di città assediate, in Atti della R. Accad. di scienze
lett. e b. arti di Palermo, serie III, vol. I, 1891).
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DEL « NOVELLINO » 153
TESTO PAPANTI
NOVELLA I.
Come uno filosafo isputò in bocca al figlio del re
per lo più vile luogo della casa.
Un figliuolo di un re conduce un filosofo a vedere
la sua casa, e come questa era tutta a oro, e il
filosofo aveva bisogno di sputare, quando il gio-
vane aprì bocca, l’altro vi sputò dentro, consi-
derando quello il più vil luogo di tutta la casa.
L’ aneddoto è in Diogene Larrzio (II, 75) appro-
priato ad Aristippo e a Simo tesoriere di Dionigi
il tiranno (v. anche in GuALTERI BURLEI, Liber de
vita et moribus philosophorum). Di qui passò negli
Exempla di J. pe ViTRy, (ed. Crane, pp. 66, 195-196),
nel commento del Boccaccio all’ Inferno di Dante
(ed. Fraticelli, Firenze, 1844, vol. I, pp. 306-7); nel
Libro de los Enxemplos n, GXVIII, ecc. e nel libro
di Salomone e Marcolfo, donde probabilmente venne
al nostro Bertoldo. Veggasi in proposito C. Cor-
TESE-PAGANI, Il Bertoldo ecc., in Studi mediev. II,
p. 553, 567, 582. Trovasi anche nel PauLI (n. 475),
e vedi a p. 528 le annotazioni dell’ OgrstEeRLEv. In
italiano, trovasi pure nell’ Avventuroso Ciciliano (ed.
cit., p. 346) riferito a Gian di Berrì e al Saladino;
nel Rosaio della Vita del Corsini (ediz. Polidori,
Firenze, 1855, p. 78), è riferito a Diogene ed Ales-
sandro; nel BanpeLLo (III, 42) come accaduto
all’ ambasciator di Spagna in casa della cortigiana
Imperia.
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TuL PBPIOI
154 LE FONTI
NOVELLA XII,
Un cavaliere era felice tanto a questo mondo
che di lui solea dirsi: non gli manca altro che
lira di Dio. Sentendoselo sempre ripetere, gli
vien voglia di sapere che sarebbe questa ira di
Dio, e si parte con un servo per cercarla. Un
giorno si abbattono in due serpenti, che fra loro
combattono: l’uno spicca all’altro il capo, ma poi
subito corre a cogliere una certa erba, e postala
fra il capo e il corpo del compagno questi torna
sano e intiero. Al Cavaliere viene curiosità di
tentar la prova su di sè, e si fa spiccare il capo
dal servo, ma gli è poi rappiccato alquanto torto.
Il servo vorrebbe ricominciare per far meglio le
cose, ma l’altro si rifiuta, e ricordandosi dell’ira
di Dio, conclude col dire che tanto l’è ita cer-
cando che l’ha trovata e avuta.
Nelle novelle popolari troviamo chi va cercando
la paura e non ci riesce: vedi Grimm, K. u. H. Mdrch.
(n. 4, e le note, III, 9 segg.) e SCHNELLER, March. u.
Sagen aus Wdalschtirol (Innsbruck, Wagner, 1867);
e altro che cerca la morte e trovatala ne esce
malconcio, come il cavaliere della nostra novella:
vedi WoLr, Deutsche Mdrch. u. Sagen (Leipzig,
Brockhaus, 1845, n. 10). La serpe che riattacca il
capo coll’erba, e così insegna a far rivivere le per-
sone uccise, è nel Pentamerone I, 7, nelle Fiabe
e Leggende siciliane del PiTRÈ, I, 95, e IV, 372, in
FINAMORE, Trad. pop. abruzzesi, I, (parte prima)
p. 208; in un racconto greco di Chios, raccolto da
S. Tsapellas (La Tradition, VII, 243). L' esempio
vien dato invece da due tarantole in un racconto
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DEL « NOVELLINO » 195
che riferisce il Cosguin, Contes pop. de Lorraine,
cit., pp. 79-80. V. anche sul capo mal riappiccato,
NeRruccI, Novelle Montalesi, n. XLIV: Giovannino
seneca paura, e PirtrÈ, Nov. pop. toscane, cit. p. 204
e seg. Per l’ erba che risuscita v. R. Basser,
C. et lég. de la Gréèce ancienne (Rev. d. trad. pop.
XXI, 227); J. RivikRE, C. pop. de la Kabylie, cit.
p. 199; e una novella raccolta in Costantinopoli
dal NicoLaipes (La Tradition, VII, p. 86).
NOVELLA XIII,
Raccontasi qui di un Signore che aveva com-
prato uno schiavo il quale intendeva la lingua
degli uccelli. Questi gli predice molte sventure
che poi si avverano, sicchè il padrone lo licenzia
dicendo di voler stare al piacer di Dio, nè voler
più sapere le cose prima che avvengano.
Non trovo l’ origine precisa di questa novella,
ma il prof. TEZA, La tradizione dei Sette Savj nelle
novelline magiure (Bologna, 1864, p. 24), a propo-
sito di quel racconto che forma il poemetto popo-
lare intitolato: Il compassionevole caso e lieto fine
di Ermogene figlio di un mercante alessandrino,
ricorda alcuni libri e racconti orientali ove si ha
menzione dell’ intendere il linguaggio degli uccelli:
di ciò si vanta Salomone nel Corano (XXVII, 16),
e dialoghi di lui cogli uccelli si riferiscono nel
libro dei XL Visivi (ediz. Bernhauer, p. 96). Nella
redazione turca del libro del Papagallo (Rosen, I, 238)
il re indiano dimanda d’ intendere gli animali ecc.
Vedi per maggiori indicazioni la nota dello ScHAMIDT,
Die March. d. Straparola (Berlin, 1817, p. 323),
alla nov. 3 della notte IV. Anche nell’ Introduzione
alle Mille e una notte (ed. LoisELEUR, p. 12) sì narra
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uti. mo SF
156 LE FONTI
di uno che intende il linguaggio degli animali, e
l’ editore fa osservare che già lo ScHLEGEL, Journal
Asiat., 1813 (p. 509) aveva notato l’ origine della
novella dal Ramayana, aggiungendo che è pure
nell’ Harivansa (trad. Langlois, I, 108).
NOVELLA XXI.
Messer Dianese cavaliere trevigiano consuma
tutto il suo in gentilezze e magnificenze. Si an-
nunzia che il re di Cornovaglia bandisce una gio-
stra, e darà la figliuola al vincitore. Gli amici di
Dianese lo forniscono di tutto punto, ed egli si
avvia alla giostra. Dopo qualche tempo, nota come
la gente lascia la via diretta per un sentiero stretto,
e sa che ciò avviene da che in quella giace inse-
polto un cavaliere morto indebitato, ed è usanza
del paese non seppellire coloro che muoiono in
tal condizione. Egli si offre di pagare pel defunto,
e lo fa seppellire a grande onore, tanto che con-
suma tutto il suo, e non gli resta che un cavallo.
Quando si ripone in viaggio è raggiunto da un
mercatante, che gli si offre compagno e lo fornisce
di moneta, a patto che divideranno a metà tutto
ciò che guadagneranno. Arrivano in Cornovaglia ;
Messer Dianese vince la giostra, e ha in moglie
la figlia del re. Dopo qualche tempo, i due com-
pagni risolvono di tornare a casa loro, e sono ric-
camente donati dal re. Giunti vicino a casa, il
mercatante ricorda al cavaliere la sua promessa,
e fa due parti: l’una di tutto il tesoro, l’altra della
donna. Messer Dianese sceglie questa, e l’altro va
per la sua strada: ma poi lo raggiunge, e ren-
dendogli ogni cosa, gli dichiara di essere colui
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DEL « NOVELLINO » 157
di cui ebbe pietà, pagandone i debiti, e seppellen-
done il corpo. Indi sparisce, e va in paradiso.
È questa la novella del Morto riconoscente, della
quale sarebbe troppo lungo e forse impossibile
arrecare tutte le versioni letterarie e popolari.
Rimandiamo adunque per maggiori notizie ai libri
del SiMROCcK, Der gute Gerhard und die dankbaren
Todten (Bonn, 1856) e Die Quellen d. Shakespeare,
Bonn, 1870, vol. II, p. 238; alle giunte e osserva-
zioni del K6HLER nella Germania dello PFEIFFER
(III, 199, XII, 55), nell’ Orient wu. Occ. (II, 322), nelle
Sicilian. March. (11, 248) e meglio e più compiuta-
mente in Kleinere Schriften, cit. pp. 5-6, 32; del
LieBRECHT negli Heidelberg. Jahrb. d. literat. (1868,
n. 29), dello ScHIEFNER nell’Orient u. Occ. (II, 174) e
del BenFEY, Pantschat. (I, 219). Solo alle versioni
popolari ricordate più specialmente dal KGHLER nelle
note alle Novelle siciliane, aggiungeremo la men-
zione di alcune altre, per dare idea della grande diffu-
sione di questo motivo. Se ne ricorda una versione
australasiana, una berbera, una greca (v. R. BASSET,
Un recueil de contes de l’Austral., in Rev. d. trad.
pop. XX, 7); una slava ce la dà L. LeGER, in Rac.
d. contes pop. slaves, Paris, Leroux, 1882, p. 119, e
un’ altra, dove il motivo tradizionale è alquanto
alterato, è in X. MARMIER, C. pop. de diff. pays, cit.
p. 43. Della Francia ce ne danno varianli: J. F.
BLADE, C. pop. de la Gascogne, Paris, Maison-
neuve, 1886, II, 69; F. M. Luzet, C. pop. de Basse-
Bretagne, cit. I, 403 e II, 180; Lég. chretiennes de
la Basse-Bretagne, I, 76 e 90, II 40 e seg., 57;
SÉBILLOT, C. pop. de Haute-Bretagne, Paris, Char-
pentier, 1880, nov. 1; E. Cosquin, C. pop. de Lor-
raine ecc. I, 214, che fornisce altre indicazioni
importanti. L’episodio del morto riconoscente tro-
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158
LE FONTI
vasi anche nel Richars li Biaus, romanzo francese
del secolo XIII, analizzato da C. Casati (Paris,
Franck, 1868, p. 27). Ricordiamo inoltre una ver-
sione islandese (H. Gorina, Islendak Aeventyri,
Halle, 1884, vol. II, pp. 6-7), una catalana nei
Quentos populars catalans collecion. por F. MASPONS
y LaBRÒS, (Il, p. 34, Barcellona, Verdaguer, 1872);
quella delle Novelline popolari rovignesi dell’ Ive
(Vienna, Holzhausen, 1877, p. 19) ove sono degne
di osservazione le dotte illustrazioni dell’ editore;
una abruzzese in A. De Nino (Ust e costumi abruz.
cit. III, 309), e una toscana di G. NERuUCCI, (Arch.
d. trad. pop. III, p. 378). In italiano abbiamo questa
novella con maggiori o minori differenze e modi-
ficazioni, nello STRAPAROLA (Nott. XI, nov. 2);
(v. G. Rua, Intorno alle Piacevoli Notti ecc. in
Giorn. Stor. d. letter. ital., XVI, pp. 272-74), e nel
poemetto popolare: Istoria bellissima di Stellante
e Costantina figliuola del gran Turco, la quale fu
rubata da certi cristiani che teneva in corte suo
padre e fu venduta a un mercante di Vincenza
presso Salerno, con molti intervalli e successi, com-
posta da GiovANNI Orazio BRUNETTO. Il poemetto
popolare diede anche argomento ad una commedia
del teatro torinese di marionette dei fratelli Lupi
(v. P. ToLpo, Nella baracca dei burattini, in Giorn.
Stor. della letter. ital., LI, 33-34).
Altre notizie sulla leggenda del morto ricono-
scente 8° avranno, infine, dagli studj seguenti:
M. Hippe, Untersuch. 2. d. mittelengl. Romanze von
Sir Adamas, in Arch. fir das Studium d. Neuren
Sprachen und Litter. LXXXI, (1888), pp. 141-182;
G. HuetT, Le conte du mort reconnaissant et une
coutume de l’ Ile de Timor, in Revue d. trad. pop.
XXIV, 305; G. HacL GeRrouLD, The gratefull Dead,
London, 1908.
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DEL « NOVELLINO » 159
L’ origine del racconto non è ben determinata.
Il Benrey inclina ad ammettere una origine orien-
tale, notando che alcuni particolari rinvengonsi
in racconti indiani, ed opinando che la versione
russa possa esser l’ anello di congiunzione e di
trapasso dall’ Asia all’ Europa. Invece il SimRocK
crede che la patria e la vera sede del racconto sia
la Germania, e risolutamente lo connette colla
mitologia tedesca (Deutsch. Mythol., p. 478). Il
prof. COMPARETTI (Prefazione alla Novella di Messer
Dianese, ecc., Pisa, Nistri, 1868) opina che l’idea
fondamentale del morto riconoscente trovisi già in
un passo di CicERoNE, De divin. (I, 27, cfr. VAL.
Mass., I, 7, 3), citato anche da altri (German.,
III, 209). Il Renan, a proposito della versione giu-
daica ch’ è nel libro di Tobia, mostrò credere ad
un’ origine babilonese della leggenda (v. L’ Église
chrétienne, Paris, Calman-Lévy, 1879, p. 560).
NOVELLA XKXII.
La moglie di un cieco, geloso tanto che da
quella mai non si partiva, dà la posta all’amico
sopra un albero di pere. Al marito che è rimasto
sotto, stringendo il pedale perchè altri non vi
monti, cadono addosso le pere, e chiestone ragione
alla donna, ella gli risponde che non v’è altro
modo per coglierle. San Pietro, che vede dal cielo
lo scorno e la beffa del povero marito, chiede a
Dio che a questo sia resa la vista. Alle parole
irose del marito, la donna risponde che s’ella non
avesse fatto così, egli non avrebbe mai più veduto
lume, e quegli ne rimane lieto e contento.
La novella trovasi tale quale nelle Latin Storîes
del WRIGHT (nov. 78) e tra le favole metriche di
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160 LE FONTI
ApoLrus (in Append. alle Lat., Stor., p. 174, e in
LevsER, Histor. poetar. med. aev., p. 2008). In
tedesco, secondo avverte il KòBLER nei Gétt. gel.
Ane. (1869, p. 774), trovasi anche nel KELLER,
ErzaAhlung. aus altdeutsch. Handschriften (p. 298),
e fu imitata da WieLAND (Oberon, VI, 80 e seg.).
Un'altra versione vedi in XPYIITAAIA, recueil de
docum. pour servir è l’étude des tradit. popul.,
Heilbronn, Henningen, 1883, vol. I, p. 65 e seg.;
e per altre v. Mélusine, IV, 277. Rammenta, solo
in parte, la nota novella dell’ albero delle pere del
Decamerone (VII, 9), che trovasi già nel Bahar
Denusch (ed. Scott., II, 64), e che tu imitata da
CHauUCcER, The Marchantes Tale, in Canterb. Tales,
vv. 9089 (vedila analizzata in PkccHIO, Sf. critica
della poes. inglese, Lugano, Ruggia, 1833, II, 197),
da Pope (January and May), e dal LAFONTAINE
(La gageure des trois comméères, II, 7).
NOVELLA XXIII.
Quattro figli di un Re vanno a cercar loro ven-
tura. Il primo va a Parigi e vi apprende tutte le
scienze: il secondo in Cicilia e vi diviene balestriere:
il terzo in Catalogna e v’ impara ad esser ladro:
il quarto a Genova e diventa esperto in far navi.
Tornati a casa, vanno tutti e quattro a liberare
una donzella e ad acquistare un gran tesoro custo-
dito in una isola da un drago, e menano a buon
fine l'impresa.
La novella è qua e là mutila, e manca della
fine, nella quale si dovrebbe disputare chi abbia
avuto maggior parte alla liberazione della fanciulla,
e meriti averla per sua insieme col tesoro.
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DEL « NOVELLINO » 161
Il racconto trovasi nel Vetalapangavinsati
(I venticinque racconti del vampiro). Se ne veda
la versione in Rev. d. trad. popul., I, 370 e in
Arch. a. trad. pop., XI, 27; si cfr. la versione di
G. Grion, in Giorn. St. d. lett. It., XIX, 454, e
v. E. PAvOLINI, Appunti di novellistica indiana, in
Giorn. Soc. Astat., XII, 161. Si trova anche nel
Tàti-NAméh (nov. IV del Pappagallo), e nel Siddikùr
(nov. I, ed. Jiilg, Leipzig, 1867). Lo stesso motivo,
alquanto variato e con esito diverso, si ha nella
novella delle Mille e una notte intitolata Storia di
Achmed e della fata Peiri-Barun (ed. Loiseleur,
p. 610-41), nel libro persiano il Trono incantato
(v. Le Tròne enchanté, ecc., par Lescallier, New-
York, Desnoues, 1817, I, p. 193 e seg.); in un rac-
conto caldeo (Rev. d. trad. pop., XXIII, 331), e
altrove con maggiori o minori differenze (vedi
BeNFEY, Pantsch., I, $ 104 e DECOURDEMANCHE, Notes
sur le livre de Sendebad, in Rev. d. trad. pop., XIV,
405. Per le versioni popolari tedesche, ungheresi,
russe, e perfino dei Negri del Madagascar, vedi oltre
che in Grimm, annotaz. al numero 129 (III, 212),
SCHNELLER, March. aus Wdlschtir. (n.° 14), e in
WeESsSsELOSFKY, Il Paradiso degli Alberti (Bologna,
Romagnoli, 1867, vol, I, part. II, p. 238 e segg.)
Vi è anche una versione malese riferita dal BASSET
(Rev. d. trad. pop., XX, 6) e una araba, dal mede-
simo (ib., XV, 114); una greca di Lesbo (LE PinEAU,
C. pop. de l’île de Lesbos, in Rev. d. trad. pop.,
XII, 202), una dell’ Asia Minore (CARNOY ET Nico-
LAÎDES, Trad. pop. de Vl Asie Mineure, Paris, Mai-
sonneuve, 1889, p. 57 e La Tradition, V, 326); una
albanese (Dozon, C. alban., Paris, Leroux, 1881),
oltre due slave (X. MARMIER, op. cît., I, p. 23 e
A. REMBAUD, La Russie épique, Paris, 1876, p. 414);
una estonica (MARMIER, op. cît., p. 264), una della
D’ Ancona - II 11
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162 LE FONTI
Bassa-Bretagna (F. M. Luzac, C. pop., cit., III, 312),
una inglese (Rivista Europea, N. 5, anno IX,
Firenze, 1878, p. 505). Trovasi anche nel Penta-
merone (giorn. V, tratt. 7), e nello STRAPAROLA
(Nott. VII, fav. V), nonchè nel Mortino (n.° 80,
Paris, Jannet, p. 155). V’ è relazione fra la nostra
novella ed una delle questioni d’ amore del Filocolo
(v. P. RAJNA, L'episodio della questione d’amore
nel Filocolo del Boccaccio, in Romania, XXXI, p. 58
e seg.). Una redazione popolare italiana fu pubbli-
cata nel Jahkrb. f. rom. liter. (VII, 30-36); un’altra
siciliana è nella raccolta della GONZENBACH (n.° 45),
e pure in quella del PirrÈ, vol. I, p. 197; e una
toscana: i tre regali o la Novella de’ tappeti, nelle
Novelle Montalesi del NeRUCCI, n.° XL.
NOVELLA XXVII.
Un imperatore scorgendo somiglianza fra sè e
un pellegrino, domanda a costui se sua madre fu
mai in Roma. L’altro gli risponde che non la
madre, ma il padre suo fu in Roma spesse volte.
Trovasi già, secondo avverte l’ OestERLEy (nota
al n.° 502 del PauLi), in Prinio (7, 12, 10, $ 55),
SoLino (I, 83), VAL. Massimo (9, 14, 3), MacRroB.,
Saturn. (1, 4, 21), ecc. È anche negli Exempla
vagabunda di frate Bono DEGLI STOPPANI (in Studi
Mediev., II, 200) e si trova nei Contes di BonAVvEN-
TURE DES PeRIERS (ed. P. L. Jacob, Paris, Garnier,
8. a., p. 57), il quale però, evidentemente, trae il
motto da Valerio Massimo o da Macrobio. Altri
autori cita il LieBRECHT nei Gòotting. gel. Anz. (1872,
stéick 17) in un art. sopra le Novelle untiche del
PapPANTI. Il BaLLADORO riferisce un motto uguale
al nostro, raccolto in Verona, e che sarebbe stato
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DEL « NOVELLINO » 163
detto da un gondoliere veneziano all’ Imperatore
d’Austria (Folk-lore veronese, Novelline, cit., p. 125).
NOVELLA XXXI.
Un pellegrino commette un delitto ed è perciò
condannato o a pagare mille lire o a perder gli
occhi. Non avendo di che pagare, è condotto ben-
dato, alla giustizia. Per via lo vede una donna
ricca ma brutta, e si offre a pagar per lui, purchè
la sposi. Quando gli è tolta la benda, vista la
brutta donna che doveva sposare, comincia a gri-
dare: Ribende, ribende, che meglio è non veder
mai, che veder sempre cosa che gli spiaccia. Il
Signore della terra, saputa la cosa, lo lascia
libero.
Cfr. colla fav. 69, lib. IV, dell’Esopus di WALDIS.
In nota, il Kurz (p. 70) rimanda fra gli altri a
Hans Sacgs (IV, 3, 13, cfr. con PAULI, Anhang.
n.° 4), ma il paragone non ci sembra esatto. Nei
Proverbj di Cintio DEI FABRIZI (n.° 37), si trova
narrato l’ identico fatto, col motto di: Rebdbindemini
(v. V. IMBRIANI, Rebindemini di Aloise Cinzio delli
Fabrigi, ediz. di CL esempl., Napoli, Morano, 1886,
e G. RuA, Intorno al « Libro della origine di vol-
gari proverbi » di A. C. det Fabrizi, in Giorn. Stor.
d. lett. it., XVIII, p. 95). Il prof. LEMGKE, (Cintio
dei Fabrizi, in Jahrbuch. f. roman. Literat., I, 318)
darebbe alla novella e alia parola una origine
arabica: a noi pare che questa venga senz’ altro da
benda, bendare. Il LiEBRECAT nei Gòott. gel. Aneeig.
(1872, stéch 17) riferisce in questo proposito un
passo del Zeloso di Don ALPonso Uz pe VELASCO.
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NL)
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V.
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
IN OCCIDENTE
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Dagli Atti dell’ Accad. dei Lincei serie IV, vol. IV, p. 111-267 (1888)
e dal Giorn. Storico della Lett. Ital., XIII (1889), p. 199 e segg.,
con aggiunte.
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I.
Nell’ antico rifacimento in versi italiani del
Tesoro di Brunetto Latini, * che probabilmente
appartiene alla fine del XIII secolo, sotto brevità
ma pur facendo una aggiunta al testo, si accenna
per tal modo alle favole che corsero in Occidente
fra le genti cristiane intorno al fondatore del-
l’ Islamismo:
(159 r°) Poi li mise in errore Machumitto;
Ò udito dire che fue monaco e cardinale,
Che lui lasciò Eradio che dovesse predicare.
Era di vita et di spirito tanto,
Che Cristiani et Pagani l’adoravano per santo,
Et Pelagio era il suo nome;
Della casa della Colonna di Roma fue sua natione.
Ma il secondo versificatore del Tesoro, che com-
pose l’opera sua nel 1310, maggiormente, com’ è
suo costume, si diffonde sulla vita e i fatti del
Profeta, e così ne discorre:
(149 vo) Ò trovato e udito novellare
Ch’ Eradio lasciò oltre mare
Uno de’ Cardinali, romano,
Che predicasse [al popolo ?] cristiano,
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TEL. ©
168
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Ch'avea nome Pelasgio,
Monacho de la badia di San Damagio.
In quel tempo, come piacque a Dio,
EI Papa ch’era allora si morio;
Pelagio adomandò a’ chardinali il papato,
E perchè lo domandò, nolli fue dato:
Chè l’averebbe avuto,
Sì era a’ chardinali il fatto suo piaciuto;
E perciò, siccome gran dottore,
Rimase tutta quella gente in errore,
E avevavi adoperato tanto
Tutta la gente l’adorava per santo.
Egli era in ongni scientia perfelto,
E impuosefnjli nome Malchonmetto 2:
È a dire, in eloquio romano:
Messo dell’alto Dio Sovrano. 3
Ora un giorno ch’eran grandi le biade,
Pelagio chavalcava per le contrade
Con molta gente a sua compagnia.
Or avenne a una incrociata di via
Fecie ristare la gente,
E esso s’andò a purgare il ventre.
Nella ritornata molto piacente 4
(Che ivi fossono, Pelagio nol sapea)
I porci li dierono addosso
E tutto lo ’nfransono la charne e Il’osso.
Et ebbe tardi il socorso,
Chè una troia li diede di morso,
E gli altri porci l’aveano sì conchulchato
Che poco meno n°era ito il fiato.
Ma si aveva perduta la favella;
Per lo morso gli uscivano $ le ciervella.
Ma innanzi che morisse,
Tutto acorto disse,
Che ’1 batesimo avea [ch'] è lucerna 9
D’ andare al rengno di vita eterna;
E perciò quelli che sono di quella corte
Quando s’ aprosimano a la morte
Si fanno battezare,
E credonsi per quello cotale batesimo salvare;
E perchè i porci Maometto attoiro
E ’n loro ydioma avea nome il porco siro, 7
Statuirono et ordinarono comunemente
Che d’ indi innanzi niuno di loro gente
Non manduchi della carne del ziro;
E chi lla manicasse, stabiliro
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IN OCCIDENTE 169
Che, sicome traditore e testimonio falso,
Che sanza rimedio dovesse essere arso.
El corpo suo in Baldacha è tumulato
In uno avello di pietra et di ferro lavorato
Sotto uno avorio molto adorno;
Quattro colonne il sostengono intorno,
Che à dentro nel colmo della giuntura
Una pietra di chalamita pura,
Che vi sta come gemma in uno anello,
Che tiene inn’ aria quello avello.
Qui dunque troviamo, compendiata tuttavia e
mozza, anche nel secondo rifacimento, che pure è
più diffuso, la leggenda occidentale sopra Mao-
metto; intorno alla quale giustamente osservava il
Renan, che una curiosa storia da farsi sarebbe
questa appunto, del concetto che si fecero e lun-
gamente mantennero le popolazioni cristiane sul
fondatore dell’islamismo, sino al giorno in che
la critica storica n’ ebbe pienamente illustrata la
vita. * Noi, sperando ch’ altri più dotto nella mate-
ria e più esperto delle fonti a cui attingere, tratti
a fondo quest’ argomento, dell’ ampia e complicata
leggenda toccheremo almeno due punti, menzionati
nei sopra riferiti testi: l’anteriore cristianità di
Maometto e il modo della sua morte.
Facendo morire il profeta sbranato dai porci,
la tradizione europea e cristiana non seguiva nè
trasformava nessuna relazione scritta od orale che
venisse dall’ Oriente, essendo concordi gli scrittori
musulmani nel narrare che Maometto perisse di
veleno; ma obbediva per tal modo ad un istinto
di avversione contro il fondatore dell’ islamismo.
Per quel ch’ è, invece, dell’ anteriore cristianità
di Maometto, concorrevano a farla comunemente
ammettere e il niodo di sentire dei tempi e le tra-
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170 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
dizioni, non disformi in tutto dal vero, che dal-
l’ Oriente giungevano alle popolazioni occidentali.
Le genti cristiane del medio evo non considerarono,
nè potevano considerare l’Islamismo altrimenti che
come una eresia, uno scisma; non videro nè pote-
vano vedervi una religione nuova, che, venendo
dopo il Giudaismo ed il Cristianesimo, doveva
necessariamente tenere, come realmente tenne, del-
l’ uno e dell’ altro. Secondo la comune credenza,
il Cristianesimo, unica religione di verità, era a
suo tempo comparso nel mondo in adempimento
d’immancabili promesse, come fede comune del
genere umano; e a suo tempo avrebbe trionfato
degli ultimi recalcitranti, che, non contando i
pochi pervicaci giudei, raccoglievansi nella gene-
rale denominazione d’ idolatri o pagani. Non essen-
dovi perciò omai più che una religione, ogni novità
di credenza diveniva necessariamente scissione
dell’ unità cristiana, prodotta, come qualsivoglia
eresia, dall’ orgoglio o da ignobili passioni, ad
istigazione del diavolo, perpetuo nemico dell’uomo.
L’islamismo adunque alle menti degli uomini del-
l’età di mezzo dovette naturalmente sembrare una
delle tante aberrazioni dalla verità predicata da
Cristo: uno dei tanti scismi che, già anche prima,
aveano lacerato l’ inconsutile veste: un episodio
della guerra continua del re delle tenebre contro
la vera fede introdotta da Cristo nel mondo: e
i seguaci di Maometto, « haeresiarca potentior
Arrio®», apparire come eretici e null’ altro. !°
Se non che, se tale era il concetto che del mao-
mettismo si formavano, e non potevano non for-
marsi, quelle antiche generazioni, ** vi erano anche
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IN OCCIDENTE 171
autorevoli e diffuse tradizioni, provenienti dai cre-
denti stessi in Maometto, le quali confortavano
siffatta opinione. Secondo tali racconti, un seguace
di Cristo, un eremita avrebbe profetato l’ opera di
Maometto; non molto ci voleva poi, perchè colui
diventasse iniziatore e maestro: e, via via proce-
dendo, e talvolta i due personaggi confondendosi
in uno, l’eremita salisse a patriarca, e il patriarca
a cardinale; anzi, poco gli dovesse mancare per
divenir Papa. Attratto dalla fiaba volgare in seno
al cristianesimo, Maometto «doveva avere, come
tutti gli eretici che lo precedettero, un luogo emi-
nente nella gerarchia. Ma l’origine e il punto di
partenza di queste favole cristiane è nella tradi-
zione musulmana, se non nella storia: e noi vo-
gliamo appunto mostrare il nesso fra la leggenda
occidentale e l’ orientale, e seguire poi il naturale
incremento ed ampliamento di quella fra le plebi
europee nell’ età di mezzo.
ll.
Gli agiografi musulmani già di buon’ora intro-
ducono nella vita del loro legislatore un monaco ?*
cristiano; e denominandolo più generalmente
Bohayra o Bahîrà,! o anche, come vedremo,
Sergio, ne fanno un prenunziatore del profeta. Si
sa che la tradizione musulmana è feracissima di
racconti (hadit) intorno a Maometto ; Bokhari, che
visse nel secondo secolo dall’ Egira, ne conosceva
dugentomila, ma ne raccoglieva solo settemiladu-
gentoventicinque, da lui tenuti per sinceri. Fra
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172 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
questi può mettersi, e non è rifiutata da parecchi
biografi del profeta, !* la tradizione dell’ incontro
di Maometto con Bohayra o Bahîrà. Noi qui la
riferiamo nella forma in che sì trova in Ibn-Hi$àm,
editore, come noi diremmo, della Vita del profeta
(Sirît ar rastl) di Ibn-Ishàq (m. 768): e la tra-
duzione del testo arabo ci fu fornita dalla cortesia
del dotto amico Michele Amari.
Raccontato come Maometto fanciullo partì per
la Siria col suo zio e tutore Abù Talib, in una
carovana di mercatanti, Ibn Ishàg segue in questo
tenore : « Fermossi la carovana a Busra in Siria,
» ad un monastero, nel quale vivea un monaco
per nome Babhîrà (o Bohayra): uom dotto nella
scienza cristiana: chè ab immemorabili non era
mai mancato in quel monastero un monaco, che
possedesse la loro scienza, cavata, a quanto
dicono, da un libro, che passava in eredità da
superiore a superiore. Spesso la carovana erasi
fermata in quel monastero, e Bahîrà non aveva
detto una parola a’ mercatanti, nè era andato
loro incontro. Ma quest’ anno, com’ei li vide
adagiare presso il suo monastero, imbandì loro
un gran desinare. Si crede ch’ei l’abbia fatto
per qualche segno che vide; e dicono ch’ egli
dal monastero si accorse di una nuvola che
facea ombra al Profeta, a lui solo fra tutta la
carovana: e che, ferma che fu la carovana, e
messasi sotto un albero, i rami di esso si acco-
stavano l’ uno all’ altro per far ombra sul posto
dove sedeva il Profeta. Bahîrà allora mandò loro
a dire: Io v’ ho imbandito questo desinare, o
signori Coreisciti, e voglio che tutti vi prendiate
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IN OCCIDENTE 173
parte, giovani e vecchi, schiavi e liberi. Come
va, gli disse uno di loro, o Bahîrà, che oggi tu
pensi a questo e non l’ hai fatto mai le tante
volte che siam venuti qui? che pensi tu oggi?
Hai ragione, rispose il monaco: ma oggi siete
ospiti miei, e io bramo di farvi onore. Mangiate
dunque tutti quanti. Allora si messero tutti a
desinare, lasciando il Profeta là dov'era: e ciò
per la sua fanciullezza, sicch’ egli rimase sotto
l’ albero co’ cammelli. Ma Bahîrà non vedendo in
alcuno de’ convitati i segni a’ quali avea rico-
nosciuto il Profeta, O signori Coreisciti, ripigliò,
non va lasciato fuori dalla mia mensa niuno
della brigata. Risposero: Non manca nessuno
che possa presentarsi a te; soltanto un ragazzo,
il più piccino, e però l’ abbiam lascialo in
disparte. Oh no, disse Bahîrà, chiamatelo, chia-
matelo, e ch’ei segga a mensa con noi. E un
coreiscita aggiunse : Sì per, Allat o per ’Ozzah !°
sarebbe male di lasciare in disparte il figliuolo
di ‘Abd Allah ib Abd’ al Muttalib. É si volse a
lui, lo prese in braccio e lo fe’ sedere cogli altri.
Bahîrà si messe fitto a guardarlo, e riconobbe
nella sua persona alcuni segni, che egli aveva
trovati nella descrizione del Profeta. D’onde,
fornito il desinare e andati i commensali chi
qua e chi là, Bahîrà [preso in disparte il Pro-
feta] gli disse: O giovane per Allat e per ’Ozzah,
io ti chieggo che tu risponda alle mie domande.
Ei disse così, perchè aveva sentita la gente della
carovana giurare a quel modo. Or v° ha chi rac-
conta che il Profeta rispose a Bahîrà: Non mi
scongiurare per Allah e per’Ozzah, ma per Allah:
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174 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
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io non ho mai profanato [Iddio] con codesti due
nomi. Allora rispose Bahîrà, rispondimi per Allah!
Ebbene, disse Maometto, dimanda pure. Lo inter-
rogò circa alcuni fenomeni che gli avvenissero
nel sonno, e delle immagini che gli si presen-
tassero in mente, e d’ogni sua cosa, e Maometto
gli raccontò tutto, in guisa che Bahîrà si accertò
della identità sua e alfine guardatogli il dorso,
vi scoprì il suggello della profezia nel mezzo
delle spalle. — Annota qui Ibn-Higàm che somi-
gliava alla cicatrice d’ una coppetta. — Ripiglia
Ibn Ishàq che Babhîrà, voltosi ad Abù Talib, gli
domandò se quello fosse suo figliuolo, e rispo-
stogli di sì, replicò: Non può essere: questo fan-
ciullo non può avere padre vivente. Invero, disse
AbA Talib, egli è figlio di un mio fratello. —
E del padre che n’ è? — Morì lasciando la vedova
incinta di questo bambino — È il vero, disse allora
Bahîrà. Fa di ritornare con lui al suo paese e
guardalo da’ Giudei, chè, per Dio, se lo vedes-
sero e sapessero di lui quel che so io, lo fareb-
bero capitar male. Questo ragazzo avrà allo
stato! Fa presto a ricondurlo al suo paese. E
Abà Talib, fornite le sue faccende, ritornò presto
alla Mecca. Secondo alcune tradizioni, si sup-
pone che Zurair, Tammam e Darîs, kitabii
(uomini del libro, cioè Giudei, Cristiani 0 Sabii),
avessero visto in quel viaggio gli stessi segni
che Bahîrà, e che fossero andati presso costui,
ma che ei li abbia allontanati da Maometto,
ricordando loro i comandamenti di Dio, e i segni
che apparivano in Maometto. Dicesi ancora, che
quei tre, andati presso Bahîrà, non rimasero
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IN OCCIDENTE 175
» soddisfatti se non quando loro ebbe detta ogni
» cosa, e che allora si persuasero che fosse vero il
» suo giudizio, e andaron via ».
Così Ibn Ishàq nell’ottavo secolo ci parla di
Bahîrà ; !” e quasi colle stesse sue parole la tradi-
zione si ritrova due secoli dopo negli Annali del
più illustre storiografo arabo, il Tabarî (m. 923). 1°
Ma uscita dai confini dell’ Arabia, noi la vediamo
ben presto giungere e in Siria e in Mesopotamia:
paesi in più stretle e continue relazioni con Bisan-
zio, e perciò ottime e dirette vie alla propagazione
di questa leggenda fra le genti cristiane.
La versione siriaca potrebbe, se non erriamo,
esser rappresentata da due testi in cotesto idioma,
che si conservano nella collezione Sachau della
biblioteca di Berlino, e che furono fatti recente-
mente conoscere dal dott. Riccardo J. H. Gottheil
di New-York.® Ambedue trovansi in copia mo-
derna, ma evidentemente sono assai antichi, e i
fatti menzionati nell’ uno di essi ci porterebbero
al nono secolo, ai tempi cioè di Hàrun ar-Ragid.
L’un d’ essi direbbesi di mano di un nestoriano,
l’allro di un jacobita; ma il racconto parrebbe
sostanzialmente appartenere, o per lo meno ver-
rebbe appropriato a un Yesu‘yab: forse quel Yesu
‘yab di Gadala che visse nel secolo settimo. °° La
versione jacobita è così intitolata: « Scrivo la
» storia di Rabbàan Sargis, che è chiamato il Sara-
» ceno, Bahîrà, e il Siro. Lo chiamano odiatore
» della croce, monaco che vive sul monte Sinai,
» e la storia di come insegnò a Maometto. Amen ».
Il succo del racconto è questo. Cacciato dalla sua
chiesa, per certe sue speciali opinioni sulla croce,
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176 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Yesu‘yab va in Yatrib (Medina) dove trova Bahîrà
(Sargîs), vecchissimo, che da oltre quarant’anni
non aveva veduto cristiani, e che è grandemente
lieto della sua venuta. Dopo sette giorni il vec-
chio muore, e un discepolo di lui, di nome Hakim,
gli racconta le relazioni del monaco col Profeta.
Dalla sua cella Sergio un giorno avea visto Mao-
metto in una carovana, con un nembo di luce
intorno al capo. Sergio gli predice la sua futura
grandezza di riformatore religioso e gli inculca
di dire che ricevette la sua dottrina dall’ angelo
Gabriele. Gli promette inoltre un libro, ch’ egli
dovrà altaccare alle corna d’ una vacca: ?” rac-
colto poi il popolo, dirà aver ricevuto quel libro
dal cielo.
La stessa immedesimazione di Bahîrà con Ser-
gio ?* troviamo in uno scrittore insigne del decimo
secolo, cioè in Masùdi (900-956) di Bagdad. « Uno
» dei personaggi, così egli scrive, del fitrah (inter-
» vallo), fu, infine, Bohayrà il monaco. Era egli un
cristiano zelante, il cui nome nei libri cristiani
è Serdjes, ?° e discendeva da Abd-el-Kais. *
Quando il Profeta, in età di dodici anni, si recò
in Siria per faccende di commercio collo zio Abù
Talib, accompagnato da Abù-bekr e da Bela],
passarono innanzi la cella dove Bohayrà viveva.
Questi riconobbe il Profeta ai suoi lineamenti e
a certi segni particolari, quali i suoi libri gli
avevano rivelato, e scorse una nube, che cir-
condavalo quand’ei posava. Fece scendere i viag-
giatori, li ricevè con onore, e preparò loro un
pasto. Uscì dalla sua cella per riconoscere il
suggello della profezia fra le spalle del Profeta;
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IN OCCIDENTE 177
» pose la mano su cotesto segno e credette alla
» missione di lui. Rivelò poi a Abà-bekr e a Belàl
» ciò che doveva accadere a Maometto, che pregò
» di rinunziare al viaggio mettendo in guardia i
» suoi parenti contro le insidie dei Giudei e dei
» Cristiani. Abù Talib, lo zio del Profeta, avvi-
» sato di siffatti pericoli, ricondusse indietro il
» nipote ». 35
UI.
Cosiffatta è nella sua prima e più semplice
forma la leggenda che l’ Oriente ?*° musulmano
trasmetteva all’Occidente cristiano, e che questo
avrebbe lentamente, ma costantemente trasfor-
mata. In essa abbiamo un eremita, un asceta,
cristiano ?” ma eretico, e probabilmente, secondo
la condizione de’ tempi e de’ luoghi, seguace di
Nestorio, che prevede la futura grandezza del gio-
vane coreiscita. Se non che, preannunziando egli
la missione religiosa di Maometto, non vi prende
parte alcuna: resta un disinteressato precursore,
un mero privilegiato veggente. Già però nel testo
siriaco, che è evidente scrittura di un settario cri-
stiano, ei comincia a diventare, oltrechè prenun-
ziatore, cooperatore del Profeta.
Ma a poco a poco, anche presso alcuni scrit-
tori musulmani noi vediamo attribuita maggior
importanza a Bahîrà. Narrano essi di un secondo
viaggio di Maometto in Siria fatto in età più
adulta, e quand’egli era già ai servig) di Cadiga
(Hadîgah), la quale, fidando nella onestà e nella
D’ Ancona - II 12
-
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178 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
prudenza di lui, gli aveva affidato una quantità
di merci da trafficare, e datogli per compagno
Maysarah. Quando da costui ella seppe che due
angeli proteggevano il capo di Maometto dai raggi
del sole, ** e ebbe veduto i vantaggi che il servo
le aveva procurato nel mercatare, deliberò sen-
z’altro di sceglierlo a marito. Ora, secondo tali
scrittori, in questo secondo viaggio in Siria, Mao-
metto, non più bambino ma uomo, si sarebbe
imbattuto in Bahîrà : ?° e questi, dolente di vederlo
prestar culto agli idoli, gli avrebbe comunicato
la cognizione del vero Dio, e letto, inoltre, passi
della legge, dei Salmi, degli Evangeli. *° Altra men-
zione di Bahîrà si trova presso alcuni commenta-
tori del Corano, nel luogo dove si parla di ottanta
uomini che accorsero in Medina al profeta, quan-
d’ egli già aveva cominciato la sua predicazione:
fra quelli, e in mezzo a un maggior nucleo di
abissini, vi sarebbe stato il rahîb Bahîrà con altri
sette sir), fra i quali Zurair, Tammam e Darîs. ®
Di queste tradizioni musulmane intorno a Babhîrà
passò in Occidente or la prima forma soltanto, or la
seconda : or quella cioè che lo dava per un semplice
veggente, or l’ altra che lo dipingeva come maestro
ed ispiratore di Maometto. E in quest’ultimo caso,
Bahîrà diventa il più spesso Sergio monaco ere-
tico, che qualche autore arabo, come Ibn‘Sad *?
chiama Nestorio, quasi personificando in lui la setta
eretica cui apparteneva; e noi già abbiam visto che
l’autore del libro siriaco e Masùdi conoscevano
l’ identità dei due personaggi di Bahîrà e Sergio, **
e Masîdi cita gli autori cristiani che ricordavano
Sergio. Già dunque dal decimo secolo la leggenda
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IN OCCIDENTE 179
di Bahîrà erasi largamente diffusa fuori dei paesi
musulmani. Non però essa sola; ma insieme con
essa anche quella che gli scrittori musulmani
raccontavano intorno ad un altro asceta arabo:
Varaka.
Varaka (Waragah), figlio di Naufal, era uomo
pieno dello spirito di Dio e desideroso di profes-
sarne il vero culto : scandalizzato perciò dell’ ado-
razione prestata agli idoli ed alla pietra nera della
Mecca. Già prima che Maometto principiasse la sua
predicazione, egli aveva avuto un colloquio con
alcuni amici, animati del suo stesso spirito, Otman,
Obaydallah e Zayd, per provvedere insieme a toglier
via l’errore e ricondurre gli arabi al vero. Ognun
d’essi tentò proprie e diverse vie per raggiungere
quest’ alto fine: di Varaka si assevera che cono-
scesse l’ ebraico, leggesse assiduamente il Vecchio
e il Nuovo Testamento, finisse col farsi seguace del
Vangelo, traducendone parte in arabo. Quan-
tunque più o meno cristianizzato, aveva ferma fede
che ben presto dal seno stesso della sua gente
dovesse sorgere un nuovo profeta. A lui, grave
ormai d’anni e ricco di senno, ebbe ricorso Cadiga
per sapere il vero circa le visioni che da qualche
tempo agitavano Maometto, e nelle quali egli diceva
mostrarglisi l’ angelo Gabriele. Dei dubbj che tene-
vano così sospeso Maometto, tanto da credere alcuna
volta di esser posseduto da maligni spiriti, sola
Cadiga era partecipe: e mentre il profeta si ritirava
sul monte Hira, cercando nella solitudine e nel
silenzio di conoscere il vero su sè stesso, la fida
moglie andava in persona ** ad interrogare nel suo
recesso Varaka, che era cugino suo. Il solitario la
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-39ye°
180 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
rassicurava, e le confermava che Maometto era
l’ atteso profeta. 3°
Così, in sullo stesso nascere dell’ islamismo, al
punto della vita di Maometto quand’egli era ancora
inconsapevole dei suoi destini e anche quando poi
confuse voci lo chiamavano alla sua missione, la
storia e la tradizione musulmana ponevano due
solitarj, cristiani o semi-cristiani; l’un de’ quali non
solo prevede quel che farà Maometto ma, secondo
alcuni, anche lo ammaestra; e l’ altro, distruggen-
done i dubbj, lo sospinge per la sua via. Dell’ uno
e dell’ altro ebbero evidentemente contezza le genti
occidentali *” spesso anche confondendoli insieme ;
ma tanto bastava perchè scorgessero in Maometto
il discepolo di un cristiano eretico, e poi, collo
svolgersi della leggenda, facessero di Maometto
stesso un apostata, e dell’Islamismo una corrotta
diramazione del Cristianesimo.
Alla leggenda di Varaka si ricollega la più antica
narrazione che di Maometto e de’ fatli suoi troviamo
in scrittori non asiatici: vale a dire quella conte-
nuta nella Chronographia di Teofane bizantino
(751? - 818). Ecco un sunto di ciò che Teofane scrive.
Dopo aver raccontato che la morte di Maometto
è imputabile a dieci Giudei, che in lui avevano
dapprima scorto il Messia, e che poi vedendo che
sì cibava di carne vietata di cammello si eran ricre-
duti, ma erano rimasti presso di lui per far danno
al cristianesimo, il cronista ripiglia di più addietro
i fatti del Profeta; e fattane la genealogia, giunge
alle nozze con Cadiga, proseguendo poi con queste
parole : « Profectus autem in Palestina, cum Jud®is
» et Cristianis versabatur, et quedam de sacris
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IN OCCIDENTE 181
eorum scriptis venatus est. Porro, cum morbo
comitiali laboraret, uxor virum eo aliquando cor-
reptum animadvertens, gravem inde concepit
dolorem; quod nobilis ipsa tali viro, non solum
pauperi, sed etiam comitiali infirmitate affecto,
conjuncta esset. Is autem eam delinire commi-
niscitur hujusmodi verbi: Angeli cognomento
Gabrielis visio mihi manifestatur : cujus aspectum
ipse ferre non valens, mentis deliquium patior,
et concido. llla, cum ad manum Monachum
quemdam haberet, ob pravos in fidem sensus
relegatum, et istic morari consuetum, hominem
consuluit, cuncta viri secreta denunciavit, ac
ipsius Angeli nomen. Is, cum mulieri rem plane
persuasam vellet, dixit ei: Verum enunciavit:
iste quippe Angelus ad omnes Prophetas desti-
natur. Ipsa itaque ceteris prior Pseudabbatis
verbis credula, viro deinceps adhibuit fidem, ac
inter alias feminas contribules eum Prophetam
esse disseminavit etc. ».**
Sulle orme di Teofane procedono nelle loro
narrazioni Anastasio bibliotecario (— m. prima
dell’ 886), ** Costantino Porfirogenita (905-959), ‘°
Cedreno (— m. 1057), ‘** Zonara (— m. 1130?) ‘* ed
altri, 4 salvochè i dieci Giudei non appariscono in
essi come autori della strage di Maometto. Presso
tutti questi autori, Varaka non è più, come nella
tradizione orientale, un asceta arabo, alla cui
mente, insieme con una confusa speranza di un
nuovo messo di Dio, splendano più o men chiari
alcuni dommi del cristianesimo; ma è un monaco
esule, anzi cacciato dal suo convento per erronee
dottrine, che, senza ragione apparente, conferma a
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189 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Cadiga la missione celeste del marito. Andando
innanzi vedremo che la ragione non mancherà : la
leggenda svolgendosi logicamente, farà che per tal
modo il monaco rejetto si vendichi della ricevuta
offesa.
Quest’ ulteriore svolgimento della leggenda di
Varaka, presenta molta varietà; ma il più delle
volte Varaka si confonde con Bahîrà: non però
col Bahîrà mero prenunziatore, ma col Babîrà
maestro ed istigatore di Maometto. Quando di tal
personaggio si parla come di consigliere di Cadiga
al momento in che si manifesa in Maometto il mal
caduco e qual persuasore a lei della divina mis-
sione del marito, si ritrovano in lui i tratti essen-
ziali di Varaka; laddove poi, quando dai racconti
gli è attribuita tanta parte nella formazione del
nuovo culto, e sopratutto quando se ne fa un cri-
stiano, per quanto eterodosso, ei viene meglio a
ragguagliarsi con Bahîrà.
IV.
Cominciamo ad esaminare questa serie di leg-
gende già iniziate nel racconto di Teofane, riferendo
ciò che scrive l’ abate Guiberto di Nogent (1052-
1124). Trattando di Maometto, Guiberto evidente-
mente ignora quando precisamente egli vivesse,
ma lo crede « parvae multum antiquitatis », perchè
non trova nessun dottore della Chiesa che abbia
scritto contro di lui; niuno si meraviglierà, dunque,
se volendo parlarne, riferirà « quae a quibusdam
disertioribus dici vulgo audierim ». Non è sicuro
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IN OCCIDENTE 183
neanche del nome: ma « plebeja opinio » è che si
chiamasse: « si bene eum exprimo, Mathomus ».
Tra il fine dell’ undecimo e il principiare del duode-
cimo secolo, il nome e la vita del fondatore del-
l’islamismo erano ormai, come si vede da quello
che dice Guiberto, dominio della plebe, materia
di popolare racconto; nè è perciò da meravigliarsi
se al vero della storia si fosse così largamente
mescolata, anzi sovrapposta, la favola.
Non so in qual tempo, prosegue Guiberto, morì
un patriarca di Alessandria. Fra i suoi successori
la voce pubblica indicava anche un eremita di
quelle parti. Ma quando si volle più addentro cono-
scerne le dottrine, si concluse che queste non erano
rigorosamente conformi alla fede cattolica. Fu allora
abbandonato anche dai suoi partigiani, sicchè egli
cominciò a pensare in qual modo potesse vendi-
carsi. Allora, l’antico nemico, vista l’ opportunità,
gli susurrò all’ orecchio che ponesse mente ad un
giovane di tali e tali fattezze, di tal e tal nome,
che gli sarebbe occorso innanzi: lo istruisse nelle
sue dottrine, e mentre ne avrebbe conforto all’in-
giuria, conseguirebbe autorità maggiore di quella
invano agognata. Il giovane si presentò, e fu amo-
revolmente accolto dall’ eremita e da lui imbevuto
delle sue ree credenze : e di povero che era fu fatto
ricco, procurandogli il matrimonio con una ricca
vedova, alla quale l’ eremita aveva annunziato
volerle dare in marito un profeta. Se non che, poco
dopo le nozze apparve in Mathomus il mal caduco.
La moglie, di ciò spaventata, ricorse al solitario,
dicendogli preferire la morte al conjugio con uomo
siffatto. Ma egli, astutissimo, cessa, o sciocca, le
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raro
7 ba I.
- la te.
184 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
disse, di ascrivere ad obbrobrio ciò che è segno di
gloria: non sai tu che, ogni qualvolta lo spirito
profetico scende sull’ uomo, non può questi resi-
stere alla maestà divina che l’agita e scuote? Essa
si lascia persuadere, e a poco a poco si sparge fra
i popoli il grido che è sorto un nuovo profeta. Il
quale intanto, consigliandosi col suo dottore, pre-
para la nuova legge, che a favore di chi la segua
scioglierà i freni ad ogni turpitudine. Radunate le
turbe, fattele per tre giorni digiunare, Mathomus
annunzia loro che Dio manderà la nuova legge in
modo insolito e meraviglioso. Aveva egli ammae-
strato una vacca, dandole di sua mano il cibo, in
modo che lui solo conoscesse, discernendolo fra
tutti. ** A lei legò fra le corna un libretto, e al
terzo giorno essa uscì fuori da un nascondiglio,
quasi prostrandoglisi. Il libro fu sciolto ; e, letto
alle avide turbe, venne da esse ricevuto con
gaudio, per la licenza di costume che consa-
crava. Per questa perversa istituzione, che non
solamente scusava i vizj della carne ma li impo-
neva come virtù, venne gran danno al Cristiane-
simo, dacchè la nefanda dottrina si sparse fra
breve in Affrica, in Egitto, in Etiopia, in Libia e
sino in Spagna. ‘
Nè d'altronde che dalla tradizione orale, come
Guiberto apertamente confessa, o da una forma
assai simile a quella onde attingeva cotesto monaco
di Nogent, e che sembra aver qualche relazione
col libro di Yesu‘yab, doveva trarre materia al
poema su Maometto l’arcivescovo di Tours Ilde-
berto (1055-1133), se realmente è suo quel curioso
Google
IN OCCIDENTE 185
componimento che va sotto il suo nome. Del quale
tale è il sunto. Un ipocrita
... male devotus... baptismate lotus,
Plenus perfidia vixerat in Ecclesia,
Per magicas fraudes quaerens hominum sibi laudes,
Ut sua per studia corruat Ecclesia :
Quod dum celabat et caute dissimulabat,
Ceu lupus Ecclesiis sedit in insidiis. @
Questo monaco ipocrita ‘* vorrebbe diventare
patriarca di Gerusalemme: ma vi si oppone l’ impe-
ratore Teodosio, sì che fugge in Libia, dove, fin-
gendosi buono e credente, entra nelle grazie del
console. Si determina così in Ildeberto il teatro
delle gesta di Maometto, che rimane ignoto nella
narrazione di Guiberto. Servo del console di Libia
è Mamuzio, ‘** sul quale il monaco, o mago, che
così è indistintamente chiamato, pone gli occhi pei
suoi fini perversi, promettendogli di farlo console,
se seguirà i suoi ordini. Il perfido fa per sua arte
venire un morbo al console, ma poichè la malattia
non riesce a spegnerlo, segretamente lo uccide.
Tutti piangono la morte del buon signore: servi,
monaci, clero. Poi induce la vedova a sposare
Mamuzio, che per tal modo divien console. l due
complici intanto, meditando altre imprese, nascon-
dono in una caverna un torello, che solo dalle loro
mani riceve il cibo, e solo essi vede e conosce.
Muore nel frattempo il re di Libia
»..Quo regnante pia floruit Ecclesia...
Africa meerebat, quasi pro se quisque dolebat,
Omnis christicola, miles et agricola.
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ris
186 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
I maggiorenti si adunano per eleggere un re;
interviene anche Mamuzio e dice:
Nosco virum quemdam, non personam reverendam,
Sed contemptibilem, sed misero similem,
Et tamen est plenus hic religionis egenus,
Simplex et sapiens, queque futura sciens,
Et puto sermone sapientior esse Salomone,
Namque prophetia sunt sua consilia.
Iste requiratur ut judicet atque loquatur
Quid recti fiat, quid male conveniat.
Il consiglio è accettato, e si va a cercare il mago,
che si fa molto pregare; poi si induce a venire,
ma su un asino: more Domini. Prima però libera
il toro e gli circonda la fronte di auree bende. Nel
concilio dei maggiorenti così si esprime:
«.. de colo vobis modo nota revelo.
Sensus et ista meus non dabit, immo Deus.
Digne regnabit taurum quicumque jugabit
Qui juga non tulerit, ferreque nescierit.
Il toro sciolto scorre il paese infuriando e ucci-
dendo: ma arrivato presso a Mamuzio
Ore manus lambit, dominumque frequentius ambit,
Quem sicut voluit Mahometus tenuit.
Esso gli pone il giogo, e fra le corna del toro si
legge:
Hunc Deus elegit cui me servire coegit.
E così Mamuzio o Maometto, benchè fingasi
reluttante, è fatto re. Ma il mago gli promette di
levarlo ancor più alto, se vorrà mutar le leggi del
Vangelo, in specie quelle contro la carne:
Ut modo sit licitum quicquid erat vetitum...
Ergo fac liceant omnia que libeant...
Ut quicquid libeat, hoc etiam liceat.
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IN OCCIDENTE 187
Maometto acconsente; e il popolo, lieto di libertà
siffatta, accetta la nuova legge:
O gens confusa, magico male dogmate lusa!
O socianda feris, o miseranda, peris!
Libera sum, dicis: libertas haec inimicis
Nostris eveniat, nosque, precor, fugiat!
Venere diventa il Dio dell’ Affrica: ogni peccato
di carne, adulterio, stupro, concubinato, incesto,
divien lecito. Solo pochi rifiutano la nuova fede,
e vengono uccisi se non fuggano presto nei deserti
e nelle selve. Ma Dio manda a Maometto l’ epi-
lessia ; e il mago inventa che ciò è segno di celeste
protezione, e che durante gli assalti del male,
quegli è rapito in cielo. Maometto conferma questa
credenza:
Cum velut amentem me cernitis atque dolentem,
In coelum rapior et minime patior:
e al popolo annunzia l’ avvenire glorioso della
nuova religione. Ma una mattina, essendo uscito
solo per preparar nuovi dogmi, è colto dal male:
Et cadit exanguis, torpens quasi perfidus anguis.
Sic absente mago, tenet hunc dum mortis imago,
Accurruere sues digna repente lues;
Qui rapidus sic grex quasi spernens quod foret hic rex,
Totus in hunc properat, et miserum lacerat.
Ac vite reliquum quod adhuc sustentat iniquum
Exhaurit leviter, ille gemit graviter;
Et tandem moritur, morienti Styx aperitur
Et stygius latro vertitur in barathro.
Et quia damnavit animas et corpora stravit,
Nil parcens anime, corporibus minime,
Nune ipsum porcus, animam depascit et Orcus
Et sordis proprie vertitur in sanie.
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188 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Il mago vede la strage, ed al venir suo i porci
fuggono. Egli si fa cuore, coll’esempio di Priamo:
... quando pater Hectora flebat
Numquid ei lacrymae profuerunt? minime!
Ne ricompone le membra su un letto ed empie la
stanza di balsami: poi convocato il popolo, gli
racconta ciò che avvenne, asseverando Dio aver
ciò permesso per mostrare la viltà della nostra
carne, e solo l’anima poter esser salvata seguendo
i precetti di Maometto. Aggiunge il precetto di
astenersi dalla carne porcina:
Ex hoc gens illa, contempta carne suilla,
Pollutum credit de sue quisquis edit.
Et quia porcorum grex regem rosit eorum,
Ficta superstitio venit ab hoc odio.
Il mago fa preparare un magnifico sepolcro, scri-
vendoci sopra:
Hic bene quod petitur, per Mahumet dabitur.
La calamita tiene sospeso il tumulo in aria, con
gran meraviglia del popolo:
Ergo rudes populi prodigium tumuli
Postquam viderunt, rem pro signo tenuerunt,
Credentes miseri per Mahumet fieri,
Pondere res plena quod pendeat absque catena,
Nec sit pendiculum quod teneat tumulum.
Haec ubi viderunt stulti Mahomet coluerunt,
Gente quod in Lybica fecerat ars magica.
Hactenus errorum quia causas diximus horum,
Musa manum teneat, et Mahumet pereat. @
Passiamo ad altro poema. Di quel maomettano
convertito, dalla cui voce Waltherius o Gualterius,
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IN OCCIDENTE 189
per mezzo dell’ abate Varnerio professa di sapere
ciò ch’ egli riferisce su Maometto, non so se debba
tenersi quel conto in che si tiene l’ arcivescovo
Turpino, invocato dagli autori di romanzi caval-
lereschi come testimone o narratore delle stranezze
da essi raccontate. Tuttavia Waltherius potrebbe
ben essere un Galterius di Compiègne, monaco di
Marmoutiers, che si sa esser vissuto nel secolo XII;
e Warnerius, che dal maomettano convertito, per
mezzo di un «clericus Senonum magnus in Eccle-
sia », avrebbe avuto i ragguagli poi trasmessi al
poeta claustrale, potrebbe anch’ esso. identificarsi
con un abate di Marmoutiers morto nel 1155. Rag-
guagliato con quello di Ildeberto, il poema di Wal-
therius ha con esso talune rassomiglianze come
anche talune dissomiglianze, che ora vedremo;
ma si ricongiunge in complesso colla tradizione,
che il poema di Ildeberto doveva avere in certi
punti capitali più stabilmente determinata e fatta
comune. Ed anche qui ritroviamo Varaka, sebbene
la parte sua non si restringa, come nella leg-
genda orientale, ai conforti largiti a Cadiga, ma
si allarghi così da farne il maligno ispiratore di
Maometto.
Il sunto che diamo anche di questo poema
varrà meglio a determinare le modificazioni della
leggenda orientale fra i volghi cristiani di occi-
dente.
Illis temporibus et in illis partibus unus
Vir fuit, egregii nominis et meriti,
Conversans solus inter montana, rogansque
Pro se, pro populo, nocte dieque Deum.
More prophetarum gnarus prenosse futura,
Totus mente polo, carne retentus humo. ®
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190 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
A lui come ad uomo « Christi doctum legibus
ac fide », venivano da ogni parte per consigli; e
a lui si presentò anche Maometto, servo di un ricco
e nobil signore. Il sant’ uomo appena lo scorse,
conobbe ch’ era posseduto dal demonio, e si fece il
segno della croce. Maometto gli si gettò ai piedi,
ma l’ eremita gli rispose:
.«.«. Vere possessio demonis es tu;
Lex sacra, sacra fides, te tribulante, ruet.
Maometto giura piuttosto voler essere arso, che
produrre tale jattura; ma il santo uomo lo scaccia,
ed egli si allontana rivolgendo in mente le cose
predettegli; senonchè il demonio
Ducebat eum quocumque volebat.
Intanto muore il suo signore; e la vedova,
dopo qualche tempo, si volge a lui per consiglio
sul nuovo marito da prendere: egli piglia tempo
a rispondere, e dopo otto giorni le si presenta:
Rhetoricosque suis verbis miscendo colores,
Cum domina tamquam Tullius alter agit,
e la trae a presceglier lui; e colla sua astuzia fa
in modo che anche i « proceres » eccitino la vedova
a sposare il fedel servo:
Presentant proceres Machometum, suscipit illa.
De servo liber protinus efficitur.
Ma in mezzo alla festa delle nozze, Maometto
è colto dal mal caduco. La sposa fugge nel talamo
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IN OCCIDENTE 191
e vi si chiude: egli cerca invano di blandirla;
finalmente le dice:
Quod me sperasti nuper tormenta tulisse,
Nulla fuit morbi passio, crede mihi:
De colo virtus in me descendit, et illam
Immensam fragilis ferre nequivit homo.
E aggiunge che nel cadere gli apparve l’ angelo
Gabriele, che gli spiegò come fu istituita la legge
di Cristo, la quale ora, essendo il mondo corrotto,
è voler di Dio si corregga, rendendone più facile
l’ osservanza:
Legis onus minuet, tollet baptisma, decemque
Uxores unus ducere vir poterit.
Scribere mandavit Deus haec mihi per Gabrielem,
Catera jussurus tempore queque suo.
His mihi de causis, Gabrielo superveniente,
Sicut vidisti, concido, spumo, tremo.
Ma la moglie irritata non vuol prestargli fede,
ed egli così le replica:
«.. Ut credas profero testem,
De cujus dictis sit dubitare nefas.
Nos omnes scimus quod in isto monte propinquo
Est quidam magni nominis et meriti.
Vada a consultarlo, e saprà il vero. Essa accoglie
tal proposta, e dice che vi andrà domani; ma
Maometto ci va subito, e dapprima ricorda all’ ere-
mita ciò ch'egli tre o quattro anni innanzi gli
aveva profetato sui danni che apporterebbe alla
fede cristiana ed ai credenti. Se vorrà fare ciò
ch’ei proporrà, si salveranno lui e il suo tempio
e i discepoli che lo circondano:
Et miserante Deo, modico de semine posset
Christi cultorum surgere magna seges.
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192 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Il sant’ uomo acconsente, purchè non gli chieda
nulla di contrario alla fede; e Maometto:
... Christi contraria multa videntur
Que dispensanter sempe licet fieri.
Del resto, ciò ch’ ei chiede, è che confermi quello
che ha asserito alla moglie:
Tunc sanctus, Christi plusquam sua commoda pensans,
Dicere promittit que Machomes monuit. 81
La sposa ingannata crede ciò che il solitario
le assevera e lo rivela ad altre donne, e queste
ai mariti. Allora Maometto scava dei ripostigli
ove pone latte e miele, e nasconde in una caverna
un bianco vitello, che ivi cresce prendendo da lui
solo il cibo. Le genti sono da lui convocate, perchè
si riveli ad esse la volontà di Dio: tutti del resto
desiderando che qualche segno celeste dimostri
voler Dio stesso ammorbidire il rigor della legge.
Maometto astutamente dà la via alle due fosse, e
ne sgorgano fiumi di latte e miele, presagio della
dolcezza che governerà il mondo. Il vitello, che
sente la voce di Maometto, rompe i vincoli e corre
ai suoi piedi: esso ha fra le corna un breve, dove
è scritta la nuova legge: che cioè al battesimo
sia sostituita la circoncisione, e che ogni uomo
possa aver dieci mogli. Tutti credono in Maometto,
e la sua potenza si amplia per nuovi seguaci.
Quando poi muore, il suo corpo è posto in un’ arca
sospesa: e la Mecca è il luogo ove, non senza
ragione, è sepolto:
Nam Machomes immunditis totius amator
Mechiam docuit, mechus et ipse fuit. 5
» Google
IN OCCIDENTE 193
Dopo esserci così a lungo intrattenuti su questo
poema, sarebbe superflua ogni parola intorno alla
traduzione che in francese ne fu fatta nel 1258 da
Alessandro Du Pont ®. Egli stesso cita per sua
fonte (« mon exemplaire »: vv. 1159, 1161), il
poema di Gautier (— Walther), che ne aveva rice-
vuto notizia dall’ abate Gravier (= @Guarnier
=. Warnerius), il quale si riferiva a ciò che Diu-
donnés, maomettano battezzato, aveva già raccon-
tato al canonico Adans, suo signore, di Sens in
Borgogna. La rispondenza fra il Roman de Mahomet
e il suo originale è strettissima: salvo che, come
osserva l’ultimo editore di quello, °% ben si avverte
che il poema latino è opera di un ecclesiastico, e
il francese di un laico, che ha famigliare la materia
cavalleresca.
V.
Mentre in molta parte d’ Europa correvano su
Maometto queste fiabe, e si diramavano ampia-
mente col mezzo delle scritture, da altri cercavasi
di schiuder più pure fonti, tornando direttamente
alla tradizione musulmana. 5 Questo tentò fare
Pietro il Venerabile, abate di Cluny (— m. 1156),
che nel 1143, 5° coll’ aiuto di un saraceno di nome
Mahumet, e di alcuni dotti cristiani. che studia-
vano in Spagna presso un astrologo: cioè Roberto
Recensis (al. Recenensis e Retenensis), Ermanno
dalmata, Pietro di Toledo, cui si aggiunse Pietro
notaio, tradusse in latino il Corano, più una bio-
grafia del profeta e un dialogo fra un cristiano ed
D’ ANCONA - II 13
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194 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
un maomettano (Disputatio Christiani eruditissimi
et Saraceni sodalis ipsius), di tali materiali gio-
vandosi a comporre quattro libri Contra sectam
sive haeresim Saracenorum, nonchè una Summula
brevis contra haereses et sectam diabolicae fraudis
Saracenorum, inviando ogni cosa con una sua
Epistola a Bernardo abate di Chiaravalle. *”
Prima di esporre ciò che narra Pier di Cluny,
giova notare che il nome che ricorre nella sua
narrazione accanto a quello di Maometto, e dopo
di lui più costantemente in molte altre, è quello
di Sergio. Ma Sergio non corrisponde, come il
monaco delle fiabe sinora esaminate, a Varaka,
sibbene a Bahîrà: non però, lo ripetiamo, al Bahîrà
veggente, che scoprì i destini di Maometto fanciullo,
ma al Bahîrà eretico nestoriano, in che Maometto
si sarebbe, come vedemmo, imbattuto in un secondo
viaggio in Siria. Già nel libro di Yesu‘yab ed in
Masîidi abbiam potuto notare l’ idenlità di Bahîrà
con Sergio : vedremo, andando innanzi, che Sergio
è identico con altri personaggi di diverso nome,
ma che tutti rappresentano nelle leggende su Mao-
metto la parte qui a Sergio attribuita.
Intanto in queste narrazioni sempre più appa-
risce la ferma credenza diffusa fra le genti dell’ età
media, che l’islamismo fosse una eresia cristiana,
e Maometto un perverso strumento di scisma in
mano di un malvagio apostata inviperito, e ope-
rante per diabolica insufflazione. °° Or qui è oppor-
tuno soffermarci più specialmente su siffatto modo
di considerare cotesto grand’avvenimento storico,
necessariamente proprio a quelle genti e a quella
età. Che molta parte delle due anteriori religioni
Google
IN OCCIDENTE 195
monoteistiche trapassasse nel maomettismo, è cosa
ben naturale; nè gli scrittori musulmani tacciono
o dissimulano le relazioni che il profeta ebbe con
cristiani °° e con giudei. °° Ma laddove per i cre-
denti nel Corano ciò che in questo si conserva
delle leggi di Mosè e di Cristo è prova della verità
della legge nuova, venuta a compiere, correggere,
rettificare, perfezionare le antecedenti: ai cristiani
invece, le rassomiglianze del Corano coll’ Evan-
gelio dovevano sembrare furti e plagj sacrileghi,
e chi aveva a Maometto comunicato le dottrine di
Cristo, apparire un malvagio eretico, un perfido
apostata, che, mescolando il vero al falso, per orgo-
glio o per vendetta, strappava dal grembo della
Chiesa nazioni che già vi posavano, o che un
giorno immancabilmente vi sarebbero accolte.
Ed è pur da notare che la gran parte attri-
buita da Pier di Cluny e da altri ai Giudei nelle
fallacie maomettane, corrisponde non tanto forse
a una reale ma confusa notizia storica, * attinta
a fonti arabe, quanto ad un nuovo impeto d’odio
e furore di persecuzione, che a que’ tempi appunto
arse in Occidente contro i Giudei. °°
Pietro di Cluny narra adunque * che Satana
stesso congiunse insieme Maometto e Sergio mo-
naco, seguace dell’eretico Nestorio, espulso dalla
Chiesa e venuto nelle parti di Arabia. Sergio porse
a Maometto ciò che appunto gli mancava, comu-
nicandogli notizia del vecchio e del nuovo Testa-
mento, giusta però la interpretazione di Nestorio,
che negava Cristo esser Dio; e aggiungendo poi
alcune favole tolte dai libri apocrifi, fece del suo
discepolo un vero cristiano nestoriano. Ma perchè
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196 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
nulla mancasse alla iniquità di Maometto e alla
perdizione di lui e de’ seguaci suoi, all’ eretico si
aggiunsero alcuni Giudei, anch’essi adoperandosi
con le favole che gl’insinuarono, a far sì che
Maometto non fosse un vero cristiano. Così, istruito
da ottimi maestri giudei ed eretici, Maometto com-
pose il suo Alcorano, intessuto di favole giudaiche
e di eretiche nenie. *
Questa biografia di Maometto, della quale il
primo nucleo parrebbe appartenere ai mutazeliti,
seguaci eterodossi del Profeta, cui poi i Cristiani
avrebbero aggiunta la satanica insufflazione, e gli
uni e gli altri data tanta parte alla comune avver-
sione contro i Giudei, doveva ormai nel duodecimo
secolo essere assai diffusa in Oriente, e su per giù
la ritroviamo anche in una scrittura mandata da
frati laggiù peregrinanti. Narra invero Matleo Paris
(1195-1259) che circa il 1236 °° dalle parti d’Oriente
pervenne a Papa Gregorio 1X una lettera di Pre-
dicatori colà inviati, la quale giunse a notizia di
molti, desiderosi di conoscere i fatti di Maometto
falso profeta, in essa descritti. Ciò che il cronista
qui riferisce e che meglio andrebbe, ei dice, all’anno
622, è o il documento stesso, o un estratto fedele
del medesimo. °° In questo scritto, Maometto, figlio
di Abdimenef, nipote di Hebenabecalip e marito
di Adige, figlia di Hulait, è rappresentato come
un insigne predone di strada, rifugiatosi a Macta,
dove le genti erano parte giudee, parte idolatre.
Già innanzi aveva cominciato a predicare una
nuova religione, rifiutandosi però a far miracoli.
À poco a poco ebbe molti seguaci, principalmente
allorchè fu nota la libertà di costume ch’egli per-
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IN OCCIDENTE 197
metteva, perchè le genti stimavano troppo aspra
la castità imposta dal cristianesimo. Ma la causa
principale per la quale prevalse la legge di Maometto,
dicesi esser stato un monaco già cristianissimo, di
nome Solio (o Sergio), che, scomunicato per eresia,
era stato espulso da ogni chiesa di Dio. Questi,
desideroso di vendicarsi contro i cristiani, si con-
dusse al luogo che dicesi Thenme, e di là al de-
serto di Malsa, ove trovò uomini di due religioni:
la parte maggiore era ebrea, la minore adorava
gli idoli. Ivi insieme si congiunsero quel monaco
apostata e il suocero di Maometto, e divennero
amici. Il monaco mutò il suo nome e si fece chia-
mare Nestorio. Insegnò a Maometto molti oracoli
e testimonianze del vecchio e del nuovo Testa-
mento e dei profeti, e collegò il tutto astutamente
a confermare co’ suoi errori la nuova legge: e
così con l’aiuto e le suggestioni di costoro, quel
seduttore cominciò ad essere esaltato su tutte le
tribù. Erano invero uomini rozzi, incolti e sem-
plici, facili ad esser sedotti, e carnali. ®
Con Jacopo di Vitry (— m. 1244) siamo sempre
a Sergio: modificatone però il nome non più in
Solio, ma in Sosio, forse solo per colpa di menanti.
Secondo questo storico, il diavolo provvide di
maestri e di cooperatori Maometto, di per sè rude
e illetterato. Primo dunque, fu un monaco apo-
stata ed eretico, di nome Sosio, il quale pubbli-
camente convinto a Roma d’eresia e condannato,
espulso com’era da ogni consorzio con fedeli, fuggì
in Arabia cupido di vendetta. Messosi poi d’ac-
cordo con un giudeo, istigò Maometto a farsi
profeta, e d’altra parte persuase il popolo a credere
Google
a Itrariee
198 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
in lui, che con siffatti aiuti accozzò insieme dal
vecchio e dal nuovo Testamento la nuova legge,
introducendovi di proprio ciò che il diavolo stesso
gli suggeriva. °*
Grande autorità e diffusione ebbe a quei tempi
la cronaca di Martin Polono (— m. 1274), che non
differisce guari dai sopracitati nel narrare, agli
anni 616-618, la vita e i fatti di Maometto. Ei fu
mago, dice il cronista, pseudo-profeta e capo di
ladroni. Ad ingannare il popolo era istruito da un
certo monaco apoustata, di nome Sergio. La legge
di Maometto, che, dettante il diavolo col mezzo
dell’apostata monaco Sergio, i saraceni possiedono
scritta in arabo, fu fondata e si mantiene colla
spada. °°
Ma molto più sull’argomento si diffonde Vin-
cenzo Bellovacense (1210 9-12709), il famoso scrittore
enciclopedico del decimo terzo secolo. Egli segue
pel suo racconto tre fonti diverse: la prima delle
quali è da lui stesso additata (1. XXIII, cap. 39)
nella Cronaca di Ugo Floriacense: autore che espli-
citamente professa attenersi in questa materia ad
Anastasio bibliotecario ; 7° ma detto dell’arte negro-
mantica di Mabmetto e del suo matrimonio con
Cadiga (più sotto mutata in Adige) e della succes-
siva epilessia, niuna menzione fa egli di Sergio. Poi
(cap. 40) passa a giovarsi del Libellus in partibus
transmarinis de Machometi fallaciis, ricavandone
la nota storiella della vacca, dei ricettacoli di latte e
miele, oltre quella della colomba ammaestrata a
beccare nell’orecchio di Maometto e da lui fatta
credere lo Spirito Santo: e se non erriamo, essa
comparisce qui per la prima volta nelle leggende
Google
IN OCCIDENTE 199
occidentali. ”* Ma subito dopo, Vincenzo abbandona
questa scorta, per seguire invece, senza più stac-
carsene fino alla fine (cap. 41-67), la Disputatio
cujusdam Saraceni et cujusdam Cristiani de Arabia,
super lege Saracinorum et fide christianorum inter
se, nella traduzione di Pier Cluniacense, ?* dalla
quale toglie che Sergio monaco, avendo grave-
mente peccato nel suo monastero, e perciò essendo
stato scomunicato od espulso, capitò nella regione
di Cubenne, °° e indi discendendo fino alla Mecca,
dove erano due popoli, uno cultore degli idoli,
l’altro giudeo, ivi trovò Maometto che adorava
gli idoli; e volendo far qualche cosa per pia-
cere ai monaci che l’avevano cacciato, e meri-
tare di riconciliarsi con loro, che erano eretici
nestoriani, i quali dicono Maria non aver partorito
un Dio ma soltanto un uomo, con ogni studio e
sforzo persuadeva Maometto di abbandonare gli
idoli e farsi cristiano nestoriano. La qual cosa
avendo conseguito, Maometto si fece discepolo suo,
ed egli perciò si chiamò Nestorio. ** E così avvenne
che istruito da quel monaco di alcune cose del
vecchio e del nuovo Testamento, Maometto le
introdusse nel suo Alcorano fra altre favolose e
mendaci. Quando però i giudei conobbero che
molti, e Maometto con loro, erano addotti a una
qualche immagine di cristianesimo per opera del
monaco nestoriano, temendo che per avventura
Maometto non venisse alla vera cristianità, anda-
rono a lui, e protestandosi .suoi socj e discepoli,
lo persuasero a introdurre nella sua legge tutte
quelle altre cose che sono nell’Alcorano, turpi ed
inique, e stettero con lui fino alla morte. E poi,
Google
200) LA LEGGENDA DI MAOMETTO
per sempre più richiamare la nuova dottrina ai
riti giudaici, ’° ricevuto da Alì il libro che Mao-
metto gli aveva lasciato, qualunque cosa parve ad
essi aggiunsero, tolsero o mutarono. ’° Così, per
mezzo del cluniacense, Vincenzo di Beauvais risale
alla fonte araba di Al Kindî.
Importante assai è il trattato di Guglielmo da
Tripoli dell'ordine dei Predicatori, composto evi-
dentemente coll’aiuto di materiali arabi. Questo
Guglielmo peregrinò fra gli infedeli nel 1271,
stette nel convento di Accone, donde prese il nome
di Tripolitano, e probabilmente scrisse la sua
relazione dello stato dei Saraceni, dedicandola a
Tedaldo arcidiacono leodiense, nel 1273.” Egli
racconta adunque come nell’ anno 601 viveva un
religioso cristiano, semplice e di austera vita, di
nome Bahayra, recluso in un monastero posto
sulla via che conduce gli Arabi dalla Mecca verso
il monte Sinai.” A questo monastero, come a
stazione, si raccoglievano frequentemente i mer-
canti Siri, Arabi, Cristiani e Saraceni, che viaggia-
vano per loro affari. A Babayra era stato rivelato
che un giorno vi passerebbe tale, da cui la Chiesa
avrebbe grande afflizione. Giunse quel giorno, e
il solitario riconobbe per divina rivelazione colui,
che gli era stato prenunziato, în un fanciullo,
orfano, malaticcio, povero e vile, e custode di cam-
melli. I Saraceni narrano che la piccola porta del
monastero per la quale enirò, si alzò nel momento
ch’egli vi passava sotto, e parve un arco di curia
imperiale. Il fanciullo venne da Bahayra accolto
amorevolmente ; fu da lui nudrito e vestito, e da
tutti tenuto suo figlio adottivo. Egli lo istruì inse-
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IN OCCIDENTE 201
gnandogli a spregiare il culto degli idoli e ad
invocare con tutto il cuore Gesù figlio di Maria.
Ma dopo qualche tempo il fanciullo si allontanò
dal monastero, perchè era al servizio di un ricco
mercante, che lo aveva raccolto derelitto e povero.
Promise tuttavia di ritornare. Crebbe intanto in
età, in prudenza ed in prestanza del corpo. Eser-
citava fedelmente e con protitto la mercatura in
pro del suo signore, e spesso tornava al suo
maestro, il solitario. Morì intanto il signore, ed
egli ne sposò la vedova divenendo potente per
possessi e clientele. Spesso veniva a trovare il
suo maestro Bahayra; ma dell’andare e dello stare
presso di quello erano scontenti dieci compagni
che si era prescelti; e ciò perchè egli volentieri
ascoltava il maestro e molte cose faceva per lui.
Laonde i compagni pensarono di uccidere Bahayra;
ma temevano la collera di Maometto. Accadde
però che una notte, noiati di una conferenza tenuta
fra il solitario e il loro signore, vedendo uscirne
quest’ultimo avvinazzato, uccisero il sant'uomo
colla spada stessa di Maometto, al quale poi die-
dero ad intendere che egli, fuori di senno dal
troppo bere, lo avesse trafitto. Egli vi prestò fede,
ma inveì contro il soverchio bere; e perciò i buoni
maomettani si astengono dal vino. Intanto morto
il cristiano Bahayra, i seguaci di Maometto sciol-
sero ogni freno, e predando paesi e uccidendo
uomini durarono in tal modo fino alla morte di
lui. Seguono molte altre cose, che non fanno all’ in-
tento nostro, sulla storia dei Saraceni, e quindi
un’ampia esposizione della dottrina di Maometto,
per concludere che i Saraceni sono poco lontani
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II LA LEGGENDA DI MAOMETTO
dalla verità della fede cristiana, ma che la religione
maomettana in breve cadrà. ”°
Conoscenza diretta dell’ Alcorano e di altri
libri arabi, ebbe, come spagnuolo e in contatto
coi musulmani, S. Pier Pascasio (1228-1300), ve-
scovo di Granata e poi di Jaen, che per la sua
fede colse la palma del martirio. Scrivendo egli
un diffuso trattato în sectam Mahometarum, narra
come Maometto fanciullo fosse dallo zio Avitalip
condotto in carovana, e in una solitudine s°’ im-
battesse in un eremita cristiano, « cujus nomen
» erat Bahirsa : et, ut Mauri dicunt, christianus
» iste literatus erat, et quidem valde: et insuper
» communis vox erat, quod Deo erat valde gratus
» et amicus, et admodum religiosus ». Salvo dunque
un lieve storpio nel nome, e l’aggiunta della
molta dottrina alla già nota devozione, ritroviamo
qui il Bahîrà profeta della ventura grandezza di
Maometto. Poi l’autore prosegue a narrare sulla
scorta degli autori arabi (ut Mauri dicunt) ciò
che l’eremita confidò allo zio dell’ adolescente ;
ma a questo punto gli viene un dubbio : se costui,
cioè, non sia una persona stessa col perverso
monaco, del quale dirà più oltre. « Et potest esse
» quod iste eremita sit ille perversus pravusque
» monachus, de quo infra dicemus: cum tamen
» verum sit, quod in nominibus non conveniunt,
» sed hoc nihil refert.... Et potuit esse quod Mo-
» nachus ipse nomen suum mutavit, ut se melius
» occultaret ». °° E la storia del malvagio monaco
poi così raccontata: Un monaco molto dotto e
sapiente, perito nelle arti liberali, ambizioso di
onori e cupido di vana gloria, giunge a Roma;
(e°L)
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IN OCCIDENTE 203
ma vedendo di non potervi conseguire ciò che
desiderava, confuso e vergognoso propone in cuor
suo di macchinare qualche cosa di iniquo contro
la Curia Romana, e così semina fra i cristiani
divisione e scisma. Aveva letto in Baruch profeta,
che i discendenti di Agar sarebbero stati vani e
mobili e avidi di potenza materiale. Passò dunque
oltre mare e arrivò fra popoli discendenti da
quello stipite. Qui però Pier Pascasio è colto da
un altro dubbio. Potrebb’ essere, ei dice, che
questo monaco fosse nato in Etiopia, perchè egli
era di sua natura falso e fallace. * Ad ogni modo,
avendo costui trovato fra gli Arabi un popolo di
recente convertito al cristianesimo, vi si fermò,
vivendovi rigidamente come un eremita e abitando
un luogo solitario. Dopo un po’ si abbattè in
Maometto adolescente, che custodiva e conduceva
cammelli, e avendolo trovato bello di forme e sot-
tile d’ingegno, gli insegnò molte cose; e quando
poi fu certo di esserselo avvinto, gli promise di
farlo signore della città e di più ampio dominio,
se lo volesse ascoltare in tutto, e seguire. Avendo
Maometto annuito, lo fece esperto in negromanzia,
astronomia e linguaggi. Morì intanto il re di quella
regione, senza lasciare discendenti, e sorse di-
scordia fra il popolo, dolendosi i giovani della
soverchia rigidezza della legge. I vecchi allora ricor-
sero all’eremita, perchè componesse tanto dissidio,
ed egli rispose che tornassero tutti fra otto giorni.
In questo tempo egli si mise d’accordo con Mao-
metto, e ordì l’ inganno del torello bianco e della
colomba. Quando le turbe tornarono a lui, egli pro-
pose che scegliessero a loro re, chi sapesse fermare
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204 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
un {orello che scorreva libero su pei monti. Il
solo Maometto, che l’aveva ammaestrato, riuscì
a domarlo; ed alle turbe stanche ed assetate
dalla caccia dischiuse poi il rivo d’acqua pura,
ch’egli aveva messo negli otri, e sotterrato. Così
divenuto re, Maometto promulgò la sua legge, che
serviva insieme a Dio e alla voluttà, e col Monaco
compose l’Alcorano, che fu posto sulle corna del
torello, mentre la colomba ammaestrata, fatta da
lui credere un angelo, sembrava parlargli all’orec-
chio. Tale il racconto del vescovo spagnuolo,
dove prevalgono le favole attinte non già a fonti
musulmane, ma a quel composto di tradizioni,
che già abbiamo rinvenuto nel poema d’ Ildeberto.
In questa narrazione di S. Pietro Pascasio il
monaco è innominato: ma più oltre egli assevera
che in « Maurorum libris » ha trovato menzione
di Sergio, cristiano e compagno di Maometto,
e ne dà qualche cenno: nè di lui loda, come
altri, l’ acutezza dell’ intelletto e la dottrina reli-
giosa, ma la grande attitudine « ad grassandum
et latrocinandum ». Costui conosceva tutte le vie
e i sentieri del deserto, e quando la masnada
partiva per le sue imprese, egli, ricorrendo alle sue
imposture, sotterrava nella rena ova di struzzo
piene d’ acqua, che poi dava a bere ai compagni
reduci e ai loro cammelli. Le genti predate non
perseguitavano i rapitori, pensando che morreb-
bero ad ogni modo di sete nel deserto : ma quando
poi vedevano ciò non essere avvenuto, se ne accre-
sceva la reputazione di Maometto, attribuendo
il fatto a miracolo. Da questo Sergio, conclude
l’autore, si può comprendere che razza di gente
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IN OCCIDENTE 205
fossero i primi discepoli di Maometto, e quale la
dottrina ch’egli introdusse a salvezza dei corpi e
delle anime. * Per Pier Pascasio adunque, Bahîrà
può forse essere una persona stessa col monaco
perverso: ma Sergio, quantunque cristiano, non
è nè eremita nè monaco, bensi astuto guidatore di
predoni.
La sorgente alla quale Tommaso Tusco, scri-
vendo nel 1278, attinse le sue informazioni fu,
per quel ch’egli ci dice, un libro che si conservava
nella sagrestia di una chiesa di Bologna: « Hec de
» Maumet in quadam extraordinaria legi Historia,
» quam in sacristia Bononiensi Ecclesie repperi,
» in antiquissimo quodam libro ». Anche laddove
è concorde cogli scrittori già riferiti, ha qualche
varietà od aggiunta. Per esempio, il matrimonio
con Cadiga è un fatto necessario : « Cum ad annos
» puberes advenisset, domine in stupro commixtus
» est, et illi vehementi amore conjunctus est,
» cumque amor jam ultra celari non posset, ejus
» maritus effectus est ». Dopo il matrimonio, dive-
nuto ricco e potente, Maometto volge l’animo a
conoscere i costumi e le leggi degli uomini e le
loro credenze religiose. S’imbatte allora in un
Monaco cristiano, ma di setta nestoriano, o come
altri raccontano, in un certo chierico che si era
separato con sdegno dalla Chiesa, perchè in quella
non aveva conseguito l’onore del quale si repu-
tava merilevole. Questi che per la sua facondia
attraeva parecchi a sè, divenne a lui familiare, e
in breve fu da lui istruito sul vecchio e sul nuovo
Testamento. * Allora cominciarono insieme a pen-
sare in qual modo potessero soprastare a una
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4
MEO
9. a i
206 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
qualche gente e averne la signoria. Vano era pro-
vare in proposito i Romani, più sapienti di loro,
o i Persiani più forti: si volsero dunque agli Arabi,
uomini semplici, e cominciarono a seminare fra
loro le nuove dottrine, dicendo prossima la venuta
di un profeta. Si giovarono dell’inganno della
colomba e della vacca, da essi ammaestrate, e un
certo giorno congregarono il popolo in un luogo
deserto. Ivi era un pozzo profondo e secco, dove
si nascose il chierico. Maometto in mezzo alle
genti orò a Dio che manifestasse i suoi voleri; e
una voce uscì dal pozzo ammonendole che cre-
dessero in Maometto e nella legge ch'egli promul-
gherebbe. Intanto la vacca uscì dal suo ripostiglio,
portando fra le corna il testo della nuova legge.
Dopo averla letta, Maometto si avvicinò al pozzo,
e disse doversi questo dedicare a Dio e non più
farlo servire ad uso degli uomini, ordinando che
ciascuno vi gettasse una pietra finchè fosse col-
mato. Così morì il chierico, che solo era conscio
di tanta fallacia, e Maometto divenne signore degli
Arabi e dei Persiani e loro legislatore religioso. 84
VI.
Accanto al Monaco nestoriano, cacciato per
eresia dal suo convento, ecco apparire nei rac-
conti di Pier Pascasio e di Tommaso Tosco, il
chierico allontanatosi iroso dalla Chiesa, per
non aver conseguito gli onori di che credevasi
degno: accanto alla leggenda che più spesso prende
nome da Sergio, ecco mostrarsi quella nella quale
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IN OCCIDENTE 207
prevale il nome di Niccolò. Ma più antica del
secolo XIII è l’appropriazione di cotesto nome al
fondatore dell’Islamismo e I’ identificazione di lui
col Niccolò diacono dei tempi apostolici; poichè
già nel secolo antecedente, ne parla, pur negan-
dovi fede, Pier di Cluny. 85
Non era pertanto questo di Niccolò un nome
posto a caso, poichè sebbene nulla provi che i
nicolaiti dell’ Apocalisse discendano dal Niccolò
degli Atti, ei fu nella tradizione ecclesiastica, come
osserva il Renan ®° l’eretico per eccellenza, il padre
d’ogni eresia, sicchè non v’era nome più appro-
priato per designare il fondatore della novissima
secessione delle genti umane. Ed è degno di osser-
vazione come in un dipinto di Buffalmacco in San
Petronio di Bologna, rappresentante l’ Inferno, for-
mano un gruppo tre personaggi, come nella pittura
dell’Orgagna nel Camposanto pisano; ma invece
dell’ Anticristo e di Averroè, si danno per com-
pagni a Maometto, l’Apostata e Nichola. *’
Non sempre però in quest’altra serie di leggende,
dove un dignitario della Chiesa è istigatore di
Maometto, ovvero diventa egli Maometto, si trova
il nome di Niccolò. In un codice laurenziano
(XLVII, 27) della prima metà del secolo XIII si
contiene una Ars lectoria, che sembra appar-
tenere ad un Siguino, grammatico francese del
secolo XII *°. A pag. 34 r° volendo l’autore definire
che sia la Cronaca, egli riferisce un esempio di cro-
nologia a questo modo: « A Jesu passo anni sunt
» mille quinquaginta quinque ». F più oltre: « A
» Christo nato usque ad transitum Ocin, quem
» Saraceni Maumitum dicunt, quem Osius papa ad
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X)8 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» Hispanias direxit corrigendi gratia, anni sescenti
» decem et octo. Unde ad nos anni quadrigenti
» septuaginta octo »: Son questi esempj presi dai
varj autori, sui quali Siguino compilava il suo
libro: ma il secondo di essi, mostrerebbe che nel
1096 già era comune un’altra forma della leggenda
di Maometto, qui denominato Ocin, e da Papa
Osio mandato in Spagna a correzione della fede.
In altro codice laurenziano (XVI, 5), pure del
XIII secolo, vi è un’altra opera grammaticale,
che forse è la fonte a cui Siguino attinse, e che
vien attribuita ad un Aymerico.* A pag. 55 r°
si trova un esempio di calcolo cronologico, ma
in forma alquanto diversa: « Anno Xp. DCVII
» obiit Adocin diaconus, quem Sarraceni Mau-
» mitum vocant, qui ab Osio p. p. ad Hispanias
» missus legatione officii fungens, sed deceptus
» decepit, anni quadrigenti septuaginta octo: fal-
» luntur enim qui Nicholaum unum de VII primis
» putant. Inde usque ad nos anno X! M° LXXX° VI,
» anni CCG! LXXXt [Xen », °° Questo calcolo ci
darebbe l’anno 1086: con differenza di pochi anni
dal calcolo anteriore. Ad ogni modo, resta che già
da molto tempo esisteva la leggenda di un diacono
della chiesa romana, che sarebbe stato o ispiratore
di Maometto o una persona stessa con lui, varia-
mente chiamato Ocin, Adocin, o Niccolò. In cotesti
esempj di calcolo cronologico, si ha appena un
cenno della leggenda, quale la conosciamo in scritti
ulteriori: ma non vi è dubbio che si tratta di quella
strana fiaba, secondo la quale Maometto sarebbe
stato un prelato, anzi un cardinale di santa Chiesa.
Più oltre, dove parleremo della plausibil ragione
Google
IN OCCIDENTE 209
de’ varj nomi dati dai cristiani a Maometto, ritor-
neremo su questo nome di Niccolò. Qui diremo
che, probabilmente, da principio dovettero star
fra loro separate e distinte due forme di questa
leggenda : nell’una delle quali, Maometto era con-
fuso con Niccolò, diacono dei primi tempi aposto-
lici: e nell’altra, Maometto era un prelato della
Chiesa occidentale: chierico, diacono, legato, car-
dinale, per dignità : per nascita, romano, bolognese,
spagnuolo ; e questa era forse ulterior trasforma-
zione della fiaba, menzionata da Guiberto e da
Ildeberto, dell’eremita cupido di diventar patriarca
di Gerusalemme o di Alessandria, e che per ven-
dicarsi del rifiuto, aizzò contro i credenti in Cristo
un fiero avversario. Se non che, se presto ed auto-
revolmente fu mostrata erronea l’ immedesimazione
dell’antico diacono con Maometto, qualche cosa
ne sopravvisse: si corresse cioè l’anacronismo, ma
il nome di Niccolò, se non in tutte, in alcune
versioni, restò all'oscuro eremita, divenuto via
via, per naturale svolgimento della leggenda,
dignitario della Chiesa.
Ad ogni modo, con questa forma della leggenda
risaliamo ben addietro, non solo per la confusione di
Maometto con Niccolò, ma per ciò che spetta ai mo-
tivi che indussero il malvagio uomo alla vendetta.
L’egregio nostro Michele Amari nella versione
di questa fiaba, in che Niccolò sarebbe stato ingan-
nato dai suoi colleghi, scorgerebbe un segno
di « malizia ghibellina », che « volle apporre alla
» Corte di Roma la maggior calamità avvenuta
» alcristianesimo dopo le persecuzioni degli antichi
» imperatori romani »; e versione guelfa sarebbe
D’ ANCONA - ll 14
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210 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
invece quella in che tutto il male sarebbe nato
da orgoglio e delusa ambizione del monaco. ®? La
supposizione è ingegnosa; ma l'origine della no-
vella sembra più antica del tempo in che mag-
giormente arsero le contese delle fazioni ghibellina
e guelfa: ben può ammettersi però, che più tardi
l’una o l’altra versione fosse, a seconda dei proprj
umori ed interessi, accolta e propagata dall’una
o dall’altra delle due parti nemiche. Tuttavia non
potrebbe dirsi ghibellino l’autore del secondo rifa-
cimento poetico del Tesoro, che accolse la lezione
del papato promesso e poi non conferito.
Fu anche scritto che la leggenda di Maometto
prelato e cardinale fosse di origine italiana, anzi
nascesse addirittura nell’ Italia superiore. °*? Certo
la menzione che se ne fa nei rifacimenti metrici
italiani e non nel Tesoro francese, e poi, come
vedremo, in alcuni commentatori di Dante e nel
poema del Casola, parrebbe dar forte rincalzo a
questa opinione, specialmente dacchè il più antico
testo francese ove sinora si era rinvenuta, è un
brano del romanzo di Renart le contrefait, ®* com-
posto fra il 1310 e il 1330. ®** Ma con Seguin e con
Aymerico, e prima con Pietro il Venerabile, siamo
tra francesi, anzichè tra italiani.
Vedremo d’ora innanzi frequenti allusioni a
questa strana e maggior trasformazione della leg-
genda popolare su Maometto: ora raccogliamone
il succo analizzando il Liber Nicolay, secondo un
codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, scritto
nel secolo XIV, ma certamente di più antica
composizione, comechè faccia una confusione già
invano rettificata da Aymerico e dal venerabile
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IN OCCIDENTE DIL
cluniacense. Leggesi nella storia romana, così
asserisce il Liber, che Niccolò, il quale è detto
Maometto, fu uno dei sette diaconi cardinali della
Chiesa romana. Essendo egli versato in ogni scienza
ed esperto nei fatti umani e parlatore d’ogni lin-
guaggio, il Sommo Pontefice, che allora teneva il
papato e che era in età decrepita, col consenso di
tutti i cardinali, lo elesse a suo successore, essendo
necessario che si dilatasse la fede di Cristo. In
quei tempi si seguiva l’esempio di Cristo, che
elesse a suo successore Pietro, come Pietro de-
signò poi Clemente. Intanto Niccolò fu mandato
in Spagna e Barberia, legato generale della Chiesa
apostolica: ed egli ridusse alla fede cattolica tutte
quelle regioni; sì che quasi tutto il mondo ormai
era battezzato. Ora, mentre Niccolò era in lega-
zione, il papa morì: ma essendo uso che il pon-
tefice defunto non si abbia a porre sotterra se il
suo successore non gli dia l’assoluzione, Giovanni
dal titolo di S. Lorenzo in Damaso, cardinale dei
preti, fu eletto papa; e ciò avvenne perchè era
molto vecchio, e pareva dovesse morire da un
momento all’altro. I cardinali mandarono a dire
a Niccolò che tornasse a Roma, e ci voleva più
di un anno fra andare e tornare: essi però pen-
savano che in questo tempo il vecchio papa mor-
rebbe. Ma questi che nel cardinalato era stato
debole e macilento, divenne da papa vigoroso e
sano. All’approssimarsi di Niccolò, i cardinali gli
andarono incontro, e benchè egli restasse molto
indignato di ciò che era occorso, l’ira sua si mitigò
quando ebbe le scuse e la promessa che nulla
sarebbe fatto senza il suo consenso. Presentatosi
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9192 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
al papa, non gli fece niuna reverenza: sicchè il
papa gli diede ordine che non venisse in Curia se
non chiamato: ond’egli pieno d’ira se ne partì.
Da questo momento cominciò a pensare come
potesse sovvertire la religione cristiana, e fare una
nuova setta. Qui segue l’enumerazione delle dot-
trine nuove escogitate da Niccolò pei Saraceni, la
maggior parte delle quali sono quelle sulle molte
mogli, sulle abluzioni ecc., che gli scrittori gene-
ralmente riferiscono a proposito della legge di
Maometto, terminando colla consueta descrizione
dell’arca tenuta sospesa dalla calamita. ° Fu poi
morto da Marzuco, della moglie del quale, di nome
Carufa, si era invaghito : e quando insieme l’ebbero
ucciso, per non non essere straziati dal popolo,
inventarono che gli angeli avevano portato Mao-
metto in cielo, e che in mano a Carufa, che voleva .
trattenerlo, era rimasto il piede di lui. ?”
Certo è intanto che questa fiaba del papato
promesso e poi non conferito, con qualche varia-
zione di particolari, ora col nome ora senza il
nome di Niccolò, talvolta facendo del cardinale
apostata un semplice ispiratore di Maometto,
tal’altra facendone una persona stessa con lui,
ebbe gran diffusione nei volghi. Una prova della
sua popolarità può offrircela un brano dell’ Attila,
che Niccolò da Casola compose verso la metà del
secolo XIV, ove si descrivono le storie ond’era
dipinto il padiglione di Foresto. °* La prima rap-
presentava appunto Maometto:
Coment il prehichoit au poples à desmesure.
Por li faus incins que il fist, coment dist la scripiure,
De la columbe blance, que le fist sa pasture
Dens in sa oreilles.
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IN OCCIDENTE 913
Ora, dice il poeta, rivolgendosi al suo mecenate:
Cil mauves Mahon, seignor, que ie vos di,
Fu ia gardenel et mout dagne de fi,
Sace in scripture et in la sainte li,
Mout ingigneus et parlant et forment signori.
Et li saint apostoille dont celui obehi
Le avoit tramis in sauvac pai
Per prehicher la loy de Jesu et de Hely
Et der insegnament a la gent mendi
De sauver sa arme que ne soit in peri.
Aveva convertito tutta Pagania ed Arabia, in
premio di che gli era stato promesso il papato
quando la sedia si rendesse vacante:
Quant in celle temps li apostoille mori
El concistoire s’ asembloit tot li
Et firent consoil in pales et in secri.
Quant furent bien consiles non trovent nul parti,
De Mahomet alire distrent serot il pi,
Il croist la crestentez, se il fust reverti
Il seroit le piz, nul plus fust converti;
Mielz est que il exauce prehichant le pai
Et abat l’ ignorance et li mauves deli ®.
Per questo bel ragionamento, per siffatto pru-
dente consiglio, !°° i cardinali mancarono alla data
fede ed elessero un altro « mout franc et ianti ».
Quando la notizia, volando di qua e di là per
tutte le contrade, giunse oltre mare agli orecchi
di Maometto
li cors li est inflee
D’ ire ed de coruc, et d’invie amassee.
Dont venger se pense desor la crestentee.
Oiez que fist le faus renoiee!
Tot par le pais qu’ el avoit prehichee
Tornoit mantinant, nou fist plus destinee,
Avec ses desiples, Apolin l’ adotrinee
Et Jupiter et Trivigant qu’el avoit amaestree.
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914 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Tot ce qu’ el avoient dit avoient revochee,
Contre la loy firent, con ie vos ai parlee
De la columbe blanche com avoient incignee;
Tost in petit termen li avoient retornee
A la loy mescreant la pais de tot lee.
Ancor tot la Perse que estoit acrestianee
Mahomet li proffete, le faus renoie,
Aveit a sa ley conduite et amenee etc. 101
E circa la metà del secolo successivo l’autore
del poema popolare sul Danese così scriveva nel
canto quarto :
Or vi dirò del falso Machometto.
Quel Machom fu pagan principalmente,
Poi rinnegò la fede saracina:
Fugli promesso da cristiana gente
Ched e’ sarebbe papa a tal destina:
Ond’ egli andò a predicar presente
Fra quella giente pagana meschina;
Molti ne convertì sensa soggiorno :
Per esser papa tosto fe’ ritorno 1%.
Vera cosa è che costui fu ingannato
Dalla cristiana giente, al mio parere,
Però ch’ un altro Papa ebbor chiamato,
Benchè tal cosa già non fu dovere.
Quel Machometto si fu ritornato
In pagania senza più sofferere :
Tutta le giente ch’ avea convertita
Fecie tornare alla prima sentita.
Dunqne ben fu quel Machon traditore,
E per ragion ben debb’esser perduto:
Dunque ben sono i pagani in errore
Per loro Iddio tengon quel discreduto.
Tu, re Luchan, ben èi preso il migliore
Poi che adorare lui sì se’ pentuto .
Sempre in mia corte con méco starai,
Più ch’ altro re onorato sarai 10,
La leggenda del Cardinale s’ introduce di sbieco
anche in una popolare narrazione cavalleresca : in
quella di Guerrin Meschino, dove nel capitolo 18
del libro IV, 1’ eroe racconta come giungesse
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IN OCCIDENTE 215
sulla riva del mar Libico, e chiedesse alle sue guide
un cenno delle terre che gli son presso; dopo di
che « sentendo tante province quante m’avèno
raccontate, volli provare di fargli convertire e
cominciai a parlare loro della fe’ Cristiana, e poi
domandai loro che cosa è Maometto, et eglino
come ingnoranti, rispuosono ch’ è grande Iddio a
presso a Dio grande. Io contai loro come Mao-
metto fu cristiano e Cardinale, e come egli tradì
tutta la loro legge, e come ipocrito fa (fe’ ?) per-
dere tutta la generazione sarraina, e solo per un
beneficio ch’ egli perdè a Roma, di non essere
fatto Papa; e come Apolino fue il primo medico, e
però fu chiamato Dio della Sapienza, e come Bel-
zabù fue Bello Re di Nove (altri mss. India) e che
Belzabù veniva a dire Iddio delle mosche ecc. ». 1%
Veramente non si potrebbe ammettere che quella
gente libica fosse tanto « ignorante », se non cre-
deva a sì grosse fandonie. E meno ancora, più tardi,
nel bel mezzo del secolo decimosesto, vi prestò
fede una cortigiana celebre, poetessa, ed autrice,
coll’aiuto molto probabile e proficuo dei suoi amici
letterati : la Tullia d’ Aragona, che riducendo in
ottave, nè buone nè cattive, l’ antico romanzo,
mise in versi anche l’episodio sopra ricordato. 1°
Non spiacerà forse che riferiamo qualche brano
del canto XXI del suo Guerrino, ov’è riprodotto :
Guerrino, poi che tanta roba intese,
Tante città nomar e tanti regni,
E dovendo ei cercare ogni paese
Già nominato, con nuovi disegni
A. predicare or le sue guide prese,
E mostrò lor per evidenti segni
Ch’ è male a creder che Macon sia tale
Ch’ ei sia appresso a Dio fatto immortale.
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216 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
E narrò lor com’ egli fu cristiano
E cardinale, e per isdegno preso
D’ un beneficio, si fece Pagano,
E per meglio sfogar l’ animo acceso
Si pose a predicare il rito strano
Che poi dai Turchi è sempre stato atteso :
Ma s’ egli disse questo di Macone,
Lettore, io n’ ho contraria opinione.
Penso che l’ autor che questo scrisse
Male informato fosse di tal fatto.
E potrebbe esser anco ch’ io fallisse,
Per ch’io non fo già di giurarlo patto;
Dico ben ch’ altri in altro modo disse;
E quel che m’ha per farlo noto tratto
È, ch’a chi sono l’altrui storie amiche
Non tenga perse qui le mie fatiche.
E qui segue la storia di Maometto desunta da
fonti meno impure, secondo se ne sapeva, o si
presumeva di saperne a quei tempi: e prima, se-
condo le narrazioni dei suoi, la nascita di vil
gente in Arabia, il suo esercizio di traffici, il
giunger suo presso un romitorio, l’ alzarsi della
porta al suo passaggio, sebbene « per confermare
queste ragioni Possono addurne magri testimoni ».
Poi lo sposalizio colla vedova del re di Corondaria,
le ansie di lei pel suo mal caduco e la spie-
gazione del fatto datale da Maometto coll’ asserire
che allora veniva a lui l’ angelo Gabriele. Ma da
queste tradizioni musulmane diverge a un tratto
la poetessa, e scrive:
Dirò quel che da veri testimoni
Traggo, senza più ch’ altri indarno sudi
A cercar di Macon l’ origin vera.
Per ciò segue narrando la nascita di Maometto
alla Mecca, la sua orfanezza, la nutrice, i fratelli,
gli zii ed altri, pur protestando che « l’opinione
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IN OCCIDENTE 217
d’altri racconto »; lo sposalizio con una cugina,
la fondazione della nuova fede diffusa colle armi.
Molte altre cose fatte similmente
Ne la sua vita lor narrò: si come
Con grande astuzia gabbava la gente
Per acquistarsi di Profeta il nome;
Disse degli idolatri d° Oriente,
Che credono in nel Sol, che per cognome
Chiamasi Apol; gli dieron quel vantaggio
Ch’ un tal fra gli uomin grossi fu ’l più saggio.
L’ altro fu Belzebù: questo fu quello
Che in Ninive adorar si fece Nino,
Che fu suo padre, chiamato Re Bello,
Sopra ’1 qual venne, per ordin divino,
Por tante mosche, che non sol vedello
Ma non poteva starsi in quel confino.
Tullia non ci parla anche di Trevigante; ma pos-
siamo contentarci di sapere perchè Belzebù fosse da
alcuno, come vedemmo, designato Re delle Mosche.
Che più ? questa favola penetrò fin nella glossa
del giure canonico, non però forse col nome di
Niccolò, 1° ma, ad ogni modo, da cardinale dimi-
nuendone l’eroe a chierico. Annotando invero. la
clementina de Judaeis et Saracen., Giovanni Andrea
(1275-1347) parla di Maometto riferendosi gene-
ricamente all’ Istoria ecclesiastica, e facendone
l’allievo di un nobil chierico romano, che, ai
tempi di Bonifacio IV papa, per non aver potuto
conseguire certe cose da lui chieste, apostatò dalla
fede. °° Forse al glossatore parve enorme parlare di
una promessa e di un mancamento di fede, egual-
mente peccaminosi : e 0 mutò e corresse di suo, o
si attenne ad una più benigna versione orale. Ma
i posteriori interpetri volendo a lor volta correg-
gere ciò che il vecchio maestro aveva scritto, al
Google
318 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
chierico romano sostituirono Sergio, e a lui, ariano,
aggiunsero il nestoriano Giovanni e un talmudista
giudeo : *°* poi invece di un romano posero un
bolognese !°° ed a ragione: perchè Bologna era
tenuta madre di sapere: e dottrina non piccola,
aggiunta a molta malvagità d’animo occorreva
a far prevaricare tanta gente, già ben avviata sul
vero sentiero.
Alla tradizione su Niccolò anzichè a quella su
Sergio si riaccostano i rifacitori e accrescitori del
Tesoro. Brunetto aveva scritto: « Puis i fu li
mauvais preeschierres qui fu moines, qui ot non
Sergius (altri cod. Mahomès), li quels les restraist
(é Persiani) de la foi et les mist en mauvaise
error ». "!° Ma le giunte italiane del Tesoro
abbandonano Sergio per Niccolò, che è bensì mo-
naco, non però di Siria o d’Antiochia, ma «delle
» Smirne ». Esso «usava in corte di Romaet era
» molto savio e bene letterato ». Andato nelle
parti di Arabia, si accostò a Maometto, che « era
» grande uomo e grande capo di Cabilia », e
trasse lui e gli arabi alla fede cristiana. Qui ab-
biamo un nuovo motivo dato all’ulteriore diser-
zione di Niccolò dal drappello di Cristo. « Quando
l’apostolico seppe ch’elli erano tornati alla fede
cristiana, sì mandòe uno patriarca, perch’ elli
fosse loro procuratore. Quando questo Nicolao
intese che omo venîìa per la corte di Roma, che
dovea essere sopra lui, sì ne li pesde molto,
come quelli che si credea essere signore per
l’apostolico, et misesi a grande iniquitate contro
sua coscienza medesima; e fu a questo Mao-
metto che molto li credea... e fe’ li accredere
% VV %“% %
vu % % % % % % % %
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IN OCCIDENTE 219
come Dio l’aveva fatto suo messo per predicare
sua novella legge, e simigliantemente lo fece
accompagnare con altri X grandi uomini, e sì
com’elli fece in prima loro accredere la legge
» dei cristiani, così la rimutòe, quasi non isfor-
» mando la legge cristiana in alcuna cosa ». 1!
Quanto ai due nostri versificatori, abbiamo visto
che, mutando soltanto il nome di Niccolò in Pelagio,
si attengono alla versione della leggenda, che
pone motivo all’apostasia la fallita promessa del
papato.
% % %
VII.
Questa matassa della vita di Maometto era
pertanto al finire del secolo XIII talmente imbro-
gliata, che Jacopo da Varagine (1230 ?-1298 ?),
quand’ebbe a trattarne nella sua Legenda aurea
era impacciato a qual versione attenersi, e ne
proponeva tre. In qualche storia di Maometto,
mago e pseudo-profeta, e in qualche cronaca, così
ei dice per primo, si trova che un chierico molto
famoso, non avendo potuto ottenere nella Curia
romana l’onore a cuì aspirava, fuggendo indignato
nelle regioni d’oltremare, molte genti a sè attrasse
colla sua simulazione, e imbattutosi in Maometto
gli disse che lo voleva far capo di quelle. Ricorse
dunque all’ inganno della colomba, che il popolo
adunato prese per lo Spirito Santo; sicchè il
popolo obbedì a Maometto, e sotto la sua condotta
occupò il regno di Persia e parte dell’ impero
orientale fino ad Alessandria. Ma questo è ciò
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390 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
che si racconta fra il volgo; ed è, come ognun
vede, la versione di S. Pier Pascasio e di Tom-
maso Tusco; la versione, su per giù, che s'’ inti-
tola da Niccolò; ma più vero è invece secondo
il Varagine, quello che ora si dirà. "* Maometto
veramente si valse di quest’ inganno della colomba,
e così dettò le sue leggi, inserendovi alcune cose
dell'uno e dell’altro Testamento. Ma in gioventù,
esercitando la mercatura e andando coi cammelli in
Egitto e in Palestina, spesso avea conversato con
Cristiani e Giudei, dai quali avea appreso molte
cose della loro religione. Perciò egli conviene coi
Giudei nella circoncisione e nel divieto della carne
porcina; e coi Cristiani nel credere ad un solo
Dio, e nell’ammettere che Cristo, sommo profeta,
nascesse da madre vergine. La vedova Cadiga,
signora della provincia di Corocanica, vedendolo
frequentare Giudei e Saraceni, credè scorgere in
lui un che di divino, e lo prese a marito, sicchè
egli ottenne il principato di cotesta provincia. Colle
sue fallacie fece poi in modo che Giudei e Sara-
ceni lo tennero, come si predicava, il promesso
Messia. Intanto cominciò a soffrire di morbo epi-
lettico, e Cadiga molto se ne attristò, ma egli
confortolla coll’asserire che in tali momenti l’an-
gelo Gabriele gli appariva e gli parlava; e la
moglie e gli altri vi credettero. ‘* Questa è “la
seconda versione: altrove però si legge, che colui
il quale istruì Maometto fu un certo monaco, di
nome Sergio, che essendo caduto negli errori di
Nestorio, espulso dai suoi confratelli venne in
Arabia, e si accostò a Maometto: sebbene poi
presso altri "4 si legga che fu arcidiacono dimo-
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IN OCCIDENTE 991
rante nelle parti di Antiochia, e, come si asse-
risce, giacobita; di quelli cioè che predicano la
circoncisione e affermano Cristo non esser Dio,
ma uomo giusto e santo, concepito dallo Spirito
Santo e nato da una vergine: le quali cose credono
anche i Saraceni. Adunque il predetto Sergio, molte
cose, comeraccontano, insegnò a Maometto del vec-
chio e del nuovo Testamento.!! Maometto intanto
divenuto più ricco e potente pel matrimonio, volse
in mente di usurpare il regno degli Arabi: ma
vedendo di non poterlo fare colla violenza, adoprò
la simulazione, giovandosi dei consigli del pru-
dentissimo Sergio. Ed è per lui che i Saraceni
adoperano un abito monastico, cioè la cocolla
senza cappuccio, e, come i frati, fanno tante genu-
flessioni. Molte leggi pertanto, ispirate da Sergio,
promulgò Maometto, le quali il da Varagine enu-
mera largamente, ma che qui non è necessario
riassumere. Dopo di che, racconta come il profeta
morisse di veleno, già molti anni innanzi comuni-
catogli nella carne di un agnello. 119
Ricoldo da Montecroce (— m. 1320), che viaggiò
in Palestina e studiò nell’Alcorano, pone anch'egli
come vero ispiratore di Maometto il diavolo invi-
dioso delle vittorie di Eraclio: ma non esclude
che avesse cooperatori umani. Invero, dice il frate,
poichè Maometto era idiota ed illetterato, il dia-
volo gli diede alcuni compagni, cioè alcuni giudei
e cristiani eretici. Aderì a lui un giacobita di
nome Baira, che durò con lui sino alla morte, e
del quale si narra anche che Maometto lo ucci-
desse. Vi furono pure alcuni giudei, cioè Phinees
e Audia, detto Salon, e poi Andala, detto anche
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DID LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Salem, !” che si fecero Saraceni. E vi furono alcuni
nestoriani, che convengono coi Saraceni nel cre-
dere Gesù Cristo uomo, non Dio, ma nato da
Maria Vergine. Per tal modo, Maometto compose
la sua legge, prendendo qualche cosa dal vecchio
e qualche cosa dal nuovo Testamento : ma quando
morì non c’era l’Alcorano. Nelle storie degli Arabi
si trova che Maometto dicesse: Descendit ad me
Alcoranum in septem viris: e dicono che questi
fossero Napte, Eon, Omar, Owmra, Eleesar, Asir
figlio di Cethir, e il figlio di Amer. !!*
Chiuderemo quest’enumerazione di scrittori del
secolo XIII con Jacopo da Aqui (— m. 1337 ?),
autore della Imago mundi. Si dice, ei scrive, che
tutto il processo di Maometto vien dai Cristiani.
Fuvvi un certo monaco cristiano di nome Nicolao,
che disse aver ricevuta grande ingiuria dalla chiesa
di Roma, e di ciò disperato, abbandonò la fede
cristiana, e andato oltre mare, come uomo sottile
e malizioso pensò come potesse vivere e pervenire
ad alto stato. Era invero uomo letterato ed elo-
quente, affabile e di graziosi costumi. È perve-
nuto in Persia, simulò gran santimonia e in ogni
cosa astinenza e castità. In quelle parti vi erano
allora Cristiani e Pagani: e i primi erano in basso
per mancanza di predicatori, e perchè fra essi
sorgevano molti eretici. Questo Nicolao rinvenne
al fatto suo un socio somministratogli dal diavolo,
cioè un mercante e un conduttore di cammelli,
chiamato Maometto, che conversava con tutti,
Cristiani, Giudei o Pagani, per la sua professione,
ed era di sottile ingegno, e abbastanza letterato
e conoscitore dei costumi e degli uomini di quella
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IN OCCIDENTE 223
regione. Nicolao chierico e Maometto si unirono,
e poi si aggiunsero un altro, detto Sergio, già mo-
naco cristiano, e convennero di formare nuova
setta contro il cristianesimo, nella quale si con-
ducesse vita gioconda. !° E prima convocarono gli
Agareni, e dissero a quei grossi montanari: non
vogliamo che vi chiamate più così, da una schiava,
ma Saraceni, da Sara. E perchè Maometto aveva
più apparenza degli altri due, questi lo predicarono
profeta di Dio, e quei montanari lo tennero per
tale, tanto più dopo ch’ebbe messo in opera l’astuzia
della colomba. Maometto cercò di piacere a Cri-
stiani ed a Giudei, lodandone le leggi e con esse
mettendo insieme la sua propria. L’autore, rias-
sunta questa legge assai largamente, finisce col
dire come Maometto morì avvelenato, e come fu
deposto nell’arca sospesa in aria. ?°*°
VIII
Può dirsi davvero tot capita tot sententiae : nè
maggiore potrebb’essere la confusione. !*! Invero,
il maestro o consigliere di Maometto talora ritiene
le fattezze del Bahîrà, talora quelle del Varaka
delle leggende musulmane: talora è credente e di-
fensore del cristianesimo, tal altra è eretico,
ariano, !* nestoriano, giacobita: secondo una ver-
sione, opera per tornar in grazia ai confratelli
che l’hanno espulso, secondo un’altra per vendi-
carsene: è via via monaco ??, patriarca, cardinale ;
ha nome Babîrà, Felice, Sergio, Sosio, Solio o
Grosio, Nestorio, !** Niccolò. Maometto anch’esso
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Py! LA LEGGENDA DI MAOMETTO
qualche volta ci è dato per pagano, qualche altra
per cristiano: si chiama Ocin, Pelagio, Niccolò: è
mago, è illetterato, è scolaro di Bologna: viene da
Costantinopoli, da Antiochia, dalle Smirne e d’altre
parti della pagania o della cristianità : è arabo,
è spagnolo, *** è romano, è di casa Colonna; '*
qualche volta si confonde col maestro, ed è lui
il diacono, il cardinale prossimo al papato ; presso
l’ultimo autore che citammo, e che sembra voler
procedere eccleticamente, abbiamo una triade :
Niccolò, Sergio e Maometto ; e altrove diverranno
quattro. Vedremo ancora altre varianti, altri me-
scolamenti, altre contaminazioni di varie leggende
fra loro. Dall’una leggenda all’altra, i personaggi
si scambiano i nomi e le parti: la voce pubblica,
la tradizione orale, fissandosi nella scrittura, rispec-
| chia la confusione delle menti. In tanta incostanza,
quel che riman fermo si è pur questo : che Mao-
metto o fu cristiano o da un cristiano fu ammae-
strato, e che l’Islamismo è propaggine eretica del
Cristianesimo.
Non altrimenti, in fin dei conti, la pensò anche
Dante mettendo Maometto nella bolgia dei semt-
natori di scandali e di scisma. Così facendo, egli
non giudicava di testa sua, ma seguiva un giudizio
a lui trasmesso dalle età precedenti, e che doveva
ancora per qualche tempo perpetuarsi nelle suc-
cessive. Senonchè, per quel felice accorgimento,
per quella lucida intuizione che appartiene al genio,
ei vide che l’andar più oltre in quel viluppo di
leggende per sbrogliarne il vero, era mettere il
piede in una selva selvaggia, e si contentò di
riordare Maometto con Alì, e farlo interessare
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IN OCCIDENTE 225
alle sorti di Fra Doleino. !*” Bisogna ricorrere ai
suoi commentatori, che da fonti diverse attingono,
per avere di che abbellirsi, e vedere quanta scelta
avrebbe avuto il poeta ove avesse voluto distesa -
mente narrare i fatti di Maomettlo.
Invero l’ Anonimo Laurenziano '*8 identifica
Maometto con Niccolò cardinale, che i colleghi
defraudarono del promesso papato: le Chiose !?°
attribuite a Jacopo Alighieri fanno di Maometto
un prelato di Spagna, mandato a convertire gli
infedeli, e del quale il papa non avrebbe voluto
riconoscere le fatiche e i merili. Questo premio
sarebbe stato negato, secondo le Chiose del falso
Boccaccio !* e secondo Jacopo della Lana, !* non
a Maometto, ma a Niccolo monaco delle Smirne,
che poi avrebbe sedotto Maometto stesso : sebbene
vi sia altra lezione di quest’ ultimo commento,
che ritorna a Maometto cardinale. Ma questa fiaba
è risolutamente negata dall’ Ottimo, ?* che a Mao-
metto dà per maestro e consigliere il monaco ere-
tico Sergio: nè altrimenti scrivono Benvenuto da
Imola !3° e Pietro di Dante, ?*' il quale però non
ignora ciò che favoleggiavasi e di Niccolò chierico
romano e dell’esser Sergio diacono di Antiochia.
L’Anonimo riccardiano, !*8 citando in sul prin-
cipio la Cronaca Martiniana, sembrerebbe che ad
essa volesse riferirsi, ma il testo ch’ei segue, nella
parte almeno che fa menzione di Bahîrà, o, com’ei
dice, Bacayra, e dell’aver questi scoperto in Mao-
metto fanciullo i segni della profezia, si direbbe il
libro di Guglielmo di Tripoli od altro simile ; pol
evidentemente prende altra guida ricordando Sergio,
già gran chierico in corte di Roma e di lì scac-
D’ ANCONA - Il 15
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296 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
ciato per eretico, che rifugiatosi in Arabia, si unisce
ad un giudeo e a Maometto, e fra loro tre formano
la nuova legge. E a questo commentatore s’ ac-
costa assai nel racconto su tal materia Giovanni
Villani: rimanendo tuttavia dubbio per noi, se
l’uno abbia attinto dall’altro, o ambedue si rife-
riscano a una fonte comune. Il Buti! dice voler
scegliere fra le versioni del Varagine quella che
sembri più vera, e comincia da Sergio monaco
nestoriano espulso dal monastero, ma non tace
di Sergio arcidiacono e dell’altro defraudato del
cappello. E questi tre ricorda il Bargigi:!* e il
primo e il terzo il Landino. ***° Ma quasi ci scor-
davamo che se Pietro di Dante fa di Maometto un
giudeo, le Chiose falsamente attribuite al Boccaccio
lo dicono figlio, nientemeno! di Abramo e di Agar.
. Tutti questi antichi illustratori di Dante potreb-
bero in coscienza dire ciò che confessa il Buti,
dopo esposto il dubbio che Alì punito insieme
con Maometto sia non il discepolo, ma il maestro:
« Di queste istorie m’abbi scusato tu, lettore, chè
» non se ne può trovare verità certa ». E più
tardi Guiniforto: « Di questo Macometto non si
» può sapere la certa verità; in tanti modi si
» conta la storia »: confessioni che riproducono e
comprovano le dubbiezze dei contemporanei, per
non dire la loro ignoranza sulla verità dei fatti
risguardanti Maometto e l’ Islamismo. 14°
Ai commentatori di Dante può non inopportu-
namente aggiungersi un imitatore del gran poeta:
Fazio degli Uberti; il quale nel Dittamondo ragio-
nando assai a lungo di Maometto e della sua
legge, pone il trattato in bocca a Fra Ricoldo,
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IN OCCIDENTE DI7
al modo che altre parti del poema sono in quella
di Solino o di Tolomeo, volendo così significare
che si serve delle costoro scritture. Se non che,
in materia così ampiamente diffusa nel parlar
delle genti e nei libri degli storici, dei viaggiatori,
dei teologi, e così diversamente riferita, Fra Ri-
coldo non è la sola guida del poeta. Anzi può
risolutamente dirsi che se nel riferire le dottrine
di Maometto (lib. V, cap. 11-13) Fazio segue in
tutto il peregrinatore francescano, nel raccontarne
invece la vita (cap. 10), attinge a fonte men pura,
anzi a più d’una fonte di diversa bontà. Ma poichè
ciò che a noi più particolarmente preme è quello
che dicevasi del maestro o de’ maestri cristiani
di Maometto, a questo ci restringeremo, notando
che dapprima si legge;
Monaco Sergio, dalla fede sciolto,
Si trasse a lui (Maometto), e col suo operare,
Fe’ che fu re di quel popolo stolto. 141
E qui segue il noto inganno della colomba, che,
dal Bellovacense in poi, trovasi in tanti scrittori,
non però in Fra Ricoldo : indi fra altre cose, si
parla dei compagni del profeta:
Tra gli altri suoi compagni furon diece
Che ordinfr l’ Alcoran ; de’ quai t’ incronico
Gli tre cristiani con lor viste biece:
Sergio fu l’un, del qual t'ho detto, monico,
L'altro Nicola chierico, ed appresso
Lo disperato del Papa canonico. 14
Jacopo da Aqui, come abbiam visto, accoglie
nel suo racconto, come due personaggi distinti,
Sergio e Niccolò, ambidue, viridbus unitis, istitu-
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DRY LA LEGGENDA DI MAOMETTO
tori ed istigatorìi di Maometto. Qui Fazio parrebbe
andar più oltre, registrandone tre: Sergio, dalla
fede sciolto, cioè il monaco eretico ; Nicola chierico,
e il canonico disperato dal Papa. Di questi due
ultimi l’uno parrebbe Nicola, non più cardinale
ma chierico, cui fu negata la promessa tiara:
l’altro, qui detto canonico, quegli al quale fu fatta
ingiuria dal Papa, non riconoscendogli i servigj
resi in paganìa, sicchè egli de hoc desperatus,
come scrive Iacopo da Aqui, a fide christiana
recessit. 14 Se non che, il chierico e il canonico
sono uno sdoppiamento dello stesso personaggio
leggendario, che talora ci è presentato come Car-
dinale, cuîì il saero Collegio non mantenne la data
parola, e tal altra come Prelato, al quale il Papa
mancò di riguardi mandandogli un sopracciò nei
paesi da lui conquistati al cristianesimo. Abbiamo
qui una duplice versione della stessa leggenda:
il protagonista, con nome diverso e diverso atteg-
giamento, è sempre lo stesso, al modo che Sergio
è sempre Sergio, sia che cì apparisca in figura di
monaco, sia in figura di patriarca. Nella relazione
del frate da Aqui ben possono comparire insieme
Sergio e Nicola: ma se in Fazio lo stesso perso-
naggio comparisce duplicato nel chierico e nel
canonico, ciò non può avere origine se non da un
equivoco : e il non trovar altrove tal fatto, con-
ferma questo nostro giudizio.
Con Fazio degli Uberti (1304?-1368?), siamo
ben oltre nel secolo XIV, e con lui terminiamo
le nostre ricerche. ‘4* Ma sarebbe utile insieme
e curioso il proseguirle ancora, per vedere fino a
qual tempo negli scrittori, e specialmente in quelli
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IN OCCIDENTE DI9
che più riflettono le opinioni e dottrine del volgo,?4
sì rinvengano le discorse favole su Maometto e sul-
l’Islamismo,! e quando su l’uno e su l’altro comin-
cino ad apparire notizie più conformi al vero.!
IX.
Come in più piena luce di storia, prima nel
secolo XVIII, e poi, e ben meglio, nel XIX, a poco
a poco si sapesse il vero, e, in qualche parte rimasta
men chiara, il probabile sulla vita e le gesta di
Maometto, è noto a tutti gli studiosi, e via via ci
è occorso di citare le opere più notevoli su tale
argomento. Nè ci è permesso passare del tutto in
silenzio due opere poetiche, l’una delle quali notis-
sima, il Mahomet di Voltaire, e l’altra di un
ingegno grandissimo, il Goethe. Della tragedia del
primo fu non senza ragione sospettato che più che
contro il Maomettismo mirasse a colpire il Cri-
stianesimo, e più che il fanatismo musulmano ogni
religione positiva: per l’autore tedesco dovevasi
dimostrare una tesi filosofica sui limiti che l’uomo
di genio trova, volendo attuare le idee più sublimi,
nella realtà delle cose; e fu durevole rimpianto di
lui il non aver posto ad effetto quel divisamento
della sua giovinezza, del quale resta soltanto un
Canto di Maometto.!*
Nè forse si dorrà il lettore se accenniamo a un
quasi ignoto poema italiano del secolo XVIII: al
Maometto legislatore degli arabi e fondatore del-
l'impero musulmano, poema esegetico, in XII Canti
epici, del canonico kav. Baccanti di Casalmaggiore,
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230 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Vice- Custode della Colonia Eridania già uno dei
XII Colleghi d’Arcadia, stampato in due volumi a
Casalmaggiore dai fratelli Bizzani nel 1791 con
figure ad ogni Canto. Perchè sia detto « poema
esegetico » l’autore spiega nella breve prefazione :
« cioè narrativo di ciò che fece Maometto per la
» sua religione e per fondare l’ impero dei Musul-
» mani ». Che i canti siano « epici » è ben naturale, e
certo sono elaborati, essi e tutto il poema, secondo
le ricette retoriche del tempo, derivate dall’esempio
del Tasso, e suoi successori. Nivildo Amarinzio (chi
diavol era ?) Custode generale d’Arcadia, sentito
il parere di sei a ciò deputati: Narcete Cirurense,
Demoleo Aristodemio, Mirtino Nassio, Simario
Cronizio, Libario Egirèo e Ragilio Trezeniaco (chi
diavol saranno costoro ?) dà licenza a Penteo Alci-
medonziaco, che è poi l’autore del poema, di
potersi servire pubblicandolo, del nome pastorale
e dell’ insegna d’ Arcadia: e la censura ecclesia-
stica vi aggiunge il suo Potest îimprimi.
Chi è questo Canonico e anche Kav.? È, come ci
narra il concittadino Giovanni Romani,'‘ Alberto
Baccanti, nato in Casalmaggiore il 85 novembre 1718,
che si laureò a Parma nel ’41, e poi si recò a Roma,
dove fu del Collegio dei XII Colleghi Arcadi, indi
a Napoli e in Sicilia, segretario del principe di
Raffadali, e poi di quello di Castelnuovo. Visitò
tutta Italia, e poi passò le Alpi e andò in Ger-
mania, ove fu segretario di Eleonora Carlotta di
Holstein, duchessa di Guastalla, dalla quale ebbe
incarichi alle Corti di Sassonia, di Baviera e di
Prussia. Conobbe allora Federigo II, Maria Teresa,
Voltaire, l’Algarotti ed altri illustri del tempo. Tor-
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IN OCCIDENTE 231
nato in patria, vi ebbe un canonicato, e si recò
in varie città come predicatore. Morì, essendo Vice-
custode della Colonia Eridania, il 30 aprile 1805.
Oltre il Maometto scrisse Lettere sopra letterati che
vi sono stati al mondo (Casalmaggiore, 1779): Poe-
metto lirico sopra il giuoco del pallone (ivi, 1790);
Canzoniere (Mantova, 1794); Ultime Poesie (Casal-
maggiore, 1804).
Il Baccanti è un credente, non un fanatico.
Già lo direbbe il suo ritratto, posto in fronte
all’opera, con occhio vivo, faccia pienotta, proprio
da canonico, con un ben ostentato crocione sul
petto ; e meglio lo dicono alcune parole premesse al
poema, dopo aver accennato alle contradittorie
opinioni sul suo eroe: «Io però da quanto ho po-
tuto rilevare da var) autori che hanno scritto la
sua vita, dico: esser lui stato fornito di talenti
rari, con una mistura di buone e ree qualità ».
E udiamo ora la protasi obbligatoria :
Canto l’ arabe imprese e il fondatore
Del formidabil musulmano Impero:
L’arte che usò, l’ ingegno ed il valore
Per farsi al trono d’Asia ampio sentiero,
Indarno accesi d’ un ostil furore
Gentili Ebrei Cristiani ostacol fero.
Appena fuori l’ {slamismo sorse,
Arabia mise ogn’altra fede in forse.
Ma il lettore certamente non chiederà ch’io
gli dia una analisi del poema, che per dodici
canti, con verseggiatura facilona e prolissa, si tra-
scina sulle orme degli autori che nel secolo deci-
mottavo scrissero su Maometto e sulla sua legge.
Basterà dar un saggio di esso, nella parte che
concerne l’opera di Sergio-Bohaîrà.
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039 LA LEGGENDA Di MAOMETTO
Il Mubadano, o capo dei Magi, spaventato da
strani fenomeni tellurici che sconvolgono fin anche
la Persia, spedisce nella Siria per saperne la causa
Mazem famoso al par dei Zoroastri,
il quale sapeva dai suoi libri magici che doveva
esser nato un uomo di gran valore:
Asèm in paradiso ei verrà detto
Acmet in cielo, e in terra Maometto.
E poichè sa anche che costui spesso capitava
a Bosra, ivi si reca:
Qui Fra Sergio trovò, quel che la schiena
Ad Ario volse, e andò fra’ Nestoriani,
Che d’albergarlo amò nel suo convento,
Sebben fusse dei frati malcontento.
Mazèm nel chiostro appena giunto fue,
Che ritrovossi Maometto allato,
Pria di lui giunto colle merci sue
Su la piazza di Bosra a far mercato.
Operò egli i suoi incantamenti e scongiuri, e
poi, tratto l’oroscopo di Maometto, lo comunicò ad
esso e al frate; il futuro profeta è colto dal suo
male e cade a terra, mentre gli altri due gli scuopron
sull’omero destro il sacro suggello. Sergio, detto
anche « Fra Bochera », volendo vendicarsi dei suoi
frati, insegna a Maometto come debba condursì per
fondare religion nuova, ammaestrando una colomba
che prenda alimento nel cavo del suo orecchio, e
unendo ai precetti religiosi gli avvedimenti ed eser-
cizj bellici. Intanto tutti tre si raccolgono in una
caverna, e Mazèm salito in vetta al monte fa una
scala di seta per salirvi; obbliga a comparire due
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IN OCCIDENTE D33
diavoli in forma di cavalli: Boracchio e Sandrino,
che in un istanle portano in cielo Maometto
Fra Sergio sol rimasto entro lo speco
Esulta e ride;
ma volendo uscire dalla spelonca non ne rinviene
più il modo: grida: Mazèm, Mazèm; ma questi è
in via per la Mecca. La morte sua è imminente,
inevitabile, e insieme terribile e schifosa. Invano
grida, invano piange:
Premer sì sente nella parte onusta
D’ inutil peso che vuol presto uscire,
E di fetente intestinal midolla
La tonaca riempie e la cocolla.
Il fetore lo ammorba, gli toglie il fiato. Intanto
è tornato Maometto cogli infernali alipedi:
A la caverna s’incammina tosto
L’ aereo pellegrin, dove rammenta
D’ aver lasciato il monaco nascosto
Il ritorno a aspettar de la giumenta;
Ivi, geloso del secreto imposto,
La volubil di lui indol paventa,
E cerca or or di perderlo un pretesto,
Giacchè senza di lui può fare il resto;
e gli rimprovera di aver cangiato il luogo ove si
dissetò Ismaele, in un « fratesco cesso » :
Se... quest’ era un Santuario
Perchè dunque cambiarlo in necessario?
Nulla risponde il Frate a tal rampogna,
Cui nulla cal de le correnti fole.
Desio il pugne di uscir da quella fogna
E di veder risorto il nuovo sole.
A me, dice, la scala or sol bisogna
E non rimbrotti e inutili parole.
Ride il Profeta, e gli risponde: Aspetta,
“h’ appenderò la solita scaletta.
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DI4 LA LEGGENDA DI MAOMKTTO
Corre, e di franti massi ond’è coperta
L’alpestre rocca, fa raccolta e ammasso,
E per la bocca de lo speco aperta
Fa rotolar pesante acuto sasso,
Che su la ghianda pineal scoperta
Cadendo a piombo, il manda a Satanasso
Non col colpo primier, ma col secondo,
Di simil feccia liberando il mondo.
E non desiste da la sassea colta
Finchè turato non ne vegga il pozzo.
Copia di pietre, selci e lastra molta
Gitta, e glie n’empie lo scruposo gozzo,
A ciò di là sia la memoria tolta
D’ avvenimento così laido e sozzo,
Nè saper possa la futura etate
Dove la tomba sia di questo frate.
Del guiderdone per l’ iniqua scola
A lui dovuto, così fe’ l’ acquisto;
Era ben questa la mercede sola
D’ uno che i dogmi adulterò di Cristo ;
Fama, che cresce più quanto più vola,
Su’ vanni suoi non ebbe uomo più tristo,
Che, per desio di fare a’ suoi dispetto,
Il primo fu a morir per Maometto.
In quest’episodio, oltre il quale non progre-
diremo, sembrerebbe originale e propria al poeta-
canonico solo la parte più sconcia, se non ricordasse
il racconto del chierico lapidato nel pozzo con
nera ingratitudine, che già riferimmo secondo la
narrazione di Tommaso Tusco.
X.
Non possiamo ormai chiudere queste nostre
indagini, senza aggiungere qualche osservazione
sui nomi coi quali la tradizione del medio evo ha
designato Maometto stesso o il suo cristiano isti-
tutore. I nomi sono, come vedemmo, quelli di
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IN OCCIDENTE 235
Sergio, Niccolò e Pelagio. Sono nomi come ognuno
si accorge, appartenuti a veri e proprj eresiarchi,
talchè si direbbero predestinati a chiunque, com’essi,
facesse opera di ribellione e di scisma. Cotesti
nomi erano veramente fra i primi che ricorrevano
alla fantasia e alla memoria, quando si dovesse
designare un perfido eretico.
Quanto a Sergio in particolare, deve notarsi
che l’eresiarca di tal nome, capo dei monoteliti e
compilatore dell’ ectesîi (a. 632), visse appunto ai
tempi di Maometto : cosicchè nelle opere degli
storici, come nella memoria delle genti, stavano
l’uno accosto all’altro colui che fece prevaricare
l’imperatore bizantino, e l’altro che avrebbe dato
i mai consigli al predestinato coreiscita. Monote-
lismo e maomettismo furono i due flagelli della
Chiesa nel secolo settimo: furono le due macchie
del regno, d’altra parte glorioso, di Eraclio, ritro-
vatore della croce. Nei più antichi documenti il
consigliere di Maometto non è altro se non un
oscuro monaco, un eremita senza nome: ma quando
più tardi si volle più precisamente designarlo, già
dovevasi esser fatta una certa confusione fra lui
ed il patriarca di Costantinopoli. Vero è che di
poi, come in Vincenzo Bellovacense, i due Sergi,
quantunque ricordati l’uno appresso all’altro, sono
talvolta l’un dall’altro distinti: ma ormai presso
i più, cioè presso il volgo e presso i men colti
scrittori, il monaco anonimo aveva usurpato il
nome del suo coetaneo e compagno di colpe. Ad
ogni modo poi, sarebbe difficile non riconoscere
l’immagine del patriarca bizantino nella nuova
dignità di patriarca antiocheno, alla quale in al-
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936 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
cune scritture di età più tarda viene innalzato
l'oscuro monaco !5° delle più antiche scritture. Si
può giurare che questo patriarca d’Antiochia non
esisterebbe nella tradizione, se Sergio, il vero
Sergio, non fosse stato davvero patriarca di Bisanzio.
Quanto al secondo nome, ricordiamoci che il
Liber Nicolay principia col dire che Niccolò, detto
anche Maometto « unus fuit de septem dyaconibus
» cardinalibus ecclesie romane ». Da questo Nic-
colò di Antiochia ricordato negli Atti degli Apo-
stoli (VI, 5) ed eletto uno dei sette diaconi della
chiesa primitiva, a torto 6 a ragione, chè qui non
vogliamo investigarlo, vuolsi derivata l’eresia dei
nicolaiti. Questa consisteva in una specie di quie-
tismo, pel quale, a beneficio della tranquillità
dell’animo, si concedeva libero sfogo alle passioni
del senso : e ciò che più generalmente, ma non
senza esagerazione, nel Medio Evo si seppe della
nuova dottrina predicata da Maometto, fu appunto
quello ch’egli statuiva o permetteva rispetto agli
impulsi carnali. !*! Facile poteva dunque essere
in tempi di grande ignoranza, confondere insieme
l’una eresia e l’altra, e per identità di carattere
fare autore di ambedue il medesimo personaggio.
Certo è che la confusione si fece, e fu d’uopo che
venisse contraddetta. E quanto all’anacronismo
che si sarebbe commesso, ricordiamo di aver veduto
che un commentatore di Dante, vale a dire un
uomo non del tutto incolto, poteva nel secolo XIV,
saltando a piè pari parecchie e parecchie gene-
razioni, !* fare di Maometto un figlio di Abramo
e di Agar.
Resta adesso a dire del nome di Pelagio, che
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IN OCCIDENTE 237
troviamo solo nei rifacimenti metrici del Zesoro,
e nel più antico di essi, fuori di rima. Come mai
Maometto diventa Pelagio, secondo il testo anteriore
progenie dei Colonna, e secondo il testo posteriore,
monaco della badia di S. Damagio? Confessiamo di
non sapere affalto scoprire l’ origine e il processo
di questa tramutazione. Solo ci piace notare che
il capitolo nel quale Jacopo da Varagine narra la
leggenda di Maometto è quello de sancito Pelagio
papa. Non ci dissimuliamo che questo fatto avrebbe
massima importanza al proposito nostro, se i due
testi stessero in relazione diretta col Varagine ; ad
ogni modo, poichè i due versificatori espressa-
mente si richiamano alla tradizione orale, ben
potrebb’essere che in questa si fosse già prodotta
una certa confusione di nomi, per la collocazione
dei fatti del fondatore dell’ Islanismo solto cotesta
rubrica della nota e diffusa Legenda aurea. Circa
poi al fare di Pelagio un Colonnese, non so se
dovremmo vedere qui, come in generale vorrebbe
l’Amari, segno di ire guelfe contro gli avversarj
ghibellini; o se vi ha qualche tradizione, invano
del resto da me cercata, la quale faccia rampolli
dell’ illustre famiglia l’ uno (555-559) o l'altro
(597-590) dei due Pelagi, pontefici del sesto secolo,
e ambedue romani di nazione.
XI.
Passando ora ad altro, abbiam visto che in
varj modi è nei diversi testi raccontata la morte
di Maometto. Taluno lo fa perire ucciso dali suoi
Google
338 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
seguaci, segnatamente giudei: ‘5 i più, d’accordo
coi narratori arabi !"* lo dicono morto di veleno,
antecedentemente propinatogli in un agnello. 15
Il nostro secondo verseggiatore lo fa uccidere e
mangiare da una torma di porci: e sebbene il
luogo sia corrotto, parrebbe ch’egli fosse assalito
° dagli immondi animali mentre soddisfaceva a un
bisogno del ventre. 15° Con qualche lieve diversità
di particolari, questo ignominioso genere di morte
è riferito anche da altri autori. Abbiamo visto
che nel poema di Ildeberto, Maometto caduto in
eccesso di epilessia, è in tale stato miseramente
divorato da un gregge suino. Per Matteo Paris,
Maometto ubriaco e pieno di cibo, cade in epi-
lessia, ed è soffocato da una scrofa; !* ma la
cagione vera della morte è il veleno sommini-
stratogli dai nemici. Mal potrebbersi allegare in
proposito due versi della Chanson de Roland, che
dicono :
Et Mahumet enz en un fosset butent
Et porc et chien le mordent et defulent, 168
perchè ivi si tratta di una statua,‘ di un idolo
del profeta : ma non errerebbe chi qui vedesse una
reminiscenza del genere di morte, che la tradizione
più generalmente attribuiva a Maometto. !** Ben
però se ne trova esplicita allusione in parecchi
romanzi francesi. Così, nel Coronemens Looys :
Mes il but trop par son enivrement,
Puis le mengierent porcel vilainement (v. 846);
e nel Floovant:
Car toi ne Mahonmot ne pris pas I. denier;
Bien a pase C. anz que truies l’ ont maingie (v. 373);
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IN OCCIDENTE 239
e nel Gaufrey :
Et Robastre respont: Bien estes assotes
Qui cuidies que Mahom resoit resuscites,
Que pourchiaus estranglerent l’ autrier en I. fosses (v. 3580);
e nella Conquete de Jerusalem :
A I. josdi s’ala d’un fort vin enivrer:
De la taverne issi: quant il s’en volt aler,
En une place vit I. fumier reserver;
Mahomes si colcha, ne s’ en volt trestorner;
La l’ estranglerent porc, si com j’ oY conter:
Per ce ne velt Juis de char de porc goster (v. 5546);
e finalmente nell’ Ajol:
Tant but que tous fu ivres, si ne se pot aidier,
Ains ala en I. bos sous un arbre concier,
Porc savage le prisent, que tout li ont mangie
Le nes et le visage et les iex de son chief:
Puis n’ oten lui vertu, car dieus ne l’ ot tant chier (v. 10090). 161
Per cogliere l’ intimo senso di questa fiaba
giova, paragonando questo passo con altro di
Ildeberto, considerare quanto, forse a tutti ante-
riore, scrive Guiberto di Nougent: « Sed hunc
Ms % % % % % % *% % è
tantum tamque mirificum legislatorem quis exitus
de medio tulerit, dicendum est. Quum subitaneo
ictu epyleuseos saepe corrueret... accidit semel,
dum solus obambulat, ut morbo elisus eodem
caderet; et inventus, dum ipsa passione tor-
quetur, a porcis in tantum discerpitur, ut nullae
eius, praeter talos, reliquiae invenirentur. Ecce
legifer optimus, dum epicureum, quem veri stoici,
Christi scilicet cultores, occiderant, porcum resu-
scitare molitur, immo prorsus resuscitat, porcus
ipse porcis devorandus exponitur: ut obscoeni-
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.
9240 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» tatis magisterium obscoenissimo, uti conveniunt,
» fine concludat ». E soggiunge questi versi:
Manditur ore suum, qui porcum vixerat, huius
Membra beata cluunt, podice fusa suum.
Quum talos ori, tum quod sus fudit odori
Digno qui celebrat cultor honore ferat. 162
Questa favola pertanto, che, come già addietro
dicemmo, non ha nessun riscontro o appoggio in
tradizioni musulmane, e che dovè nascere in occi-
dente come prodotto misto dell’ ignoranza e del-
l'odio, fu però foggiata secondo la legge del
contrappasso morale. Poichè Maometto, nella cre-
denza dei cristiani era promulgatore d’ ogni carnale
sporcizia, bene stava che dovesse esser ucciso da
quegli animali, che simboleggiano la sensualità
sciolta da ogni freno !*. Come persecutore del
cristianesimo egli, al pari dei suoi predecessori,
doveva nell’ opinione dei fedeli perire di mala
morte: e la sepoltura nel ventre di un porco era
confacente alla sregolatezza del costume da lui
promulgata. L’ ultima pena che poi gli infliggeva
la coscienza popolare cristiana era, secondo accenna
anche il nostro secondo versificatore, di confessare
morendo, se non la superiorità della fede cristiana,
almeno il beneficio finale del battesimo !*. La
leggenda musulmana, forse ripetendo il vero, rac-
contava che negli ultimi anni suoi, e durante la
malattia che lo trasse a morte, il profeta si faceva
versare sulla testa e sulle spalle fino a sette otri di
acqua, e teneva le mani dentro un vaso di acqua
fresca che ogni tanto si riversava sul capo!*”. Non
ci voleva altro perchè questo autosistema idro-
terapico, fra la gente occidentale, diventasse un
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IN OCCIDENTE 241
autobattesimo cristiano! Altra ben nota fiaba
occidentale è quella della cassa mortuaria di Mao-
metto sospesa in aria per virtù di calamita 1°.
Se non che di altri era stato detto già ‘9, e da
un musulmano, Ibn H’avvqgal, della salma di Ari-
stotile nella gran moschea di Palermo 83.
XII.
E se ora, giunti al termine di queste faticose,
ma forse non inutili, indagini, volessimo in breve
riassumere e riordinare tutta l’ intricata matassa,
ci parrebbe poter concludere che la prima e rudi-
mental forma della leggenda occidentale e cristiana
su Maometto, dovesse cercarsi nel racconto degli
agiografi arabi sull’ incontro del profeta giovinetto
con Bahîrà, col quale si confuse poi ed immede-
simò quanto altre tradizioni arabe riferivano di
Varaka e della parte da lui avuta nella riforma
religiosa di Maometto. La leggenda, in che già
primeggiava il solitario cristiano, seguace del-
l’ eresia di Nestorio, si diffuse a poco a poco in
Siria, nell’ Asia minore, nell’ impero bizantino;
e passando nelle regioni occidentali, ove fu poi
confermata dalla Disputatio, anch’ essa origina-
riamente musulmana, ampiamente si ramificò e si
colorò variamente. Le genti cristiane, che si cre-
devano in possesso dell’ unica fede verace, e cui
sì narrava al sorgere dell’ Islamismo aver assi-
stito codesto monaco eretico, dovettero considerare
l’Islamismo stesso, non come religione nuova, ma
come nuovo scisma, e assegnargli impulsi diabolici
D’ AncoNA - II 16
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DAI LA LEGGENDA DI MAOMETTO IN OCCIDENTE
e cagioni tutte umane di cupidigie carnali e di
offeso orgoglio. Ma la mutazione più rilevante e
di tulte la più strana è quella, per la quale da
un cenobio orientale, dove i monaci contendono
di teologiche sottigliezze e donde è espulso colui
che si farà consigliere di Maometto, si passa a
Roma, al centro della cristianità, là dove si tro-
vano in conflitto tutte le grandezze e insieme tutte
le miserie umane. Il monaco, che già in alcune
versioni apparisce pretendente al patriarcato di
Gerusalemme o di Alessandria, ora si muta in
un presule ecclesiastico, che mira più in alto, al
sommo pontificato, e sta già per salirvi. Così
I’ Islamismo non nasce più per una guerricciuola
di monaci nelle solitudini della Siria, ma ha suo
primo germe in Roma, per opera di tale che ivi
avrebbe potuto diventare guida e padre dei cre-
denti in Cristo. Forse in questa origine romana
e papale dell’ Islamismo vi è qualche sentore di
« malizia » politica o religiosa; forse, più proba-
bilmente, siffatta forma di leggenda appartiene ai
tempi, nei quali, lramontata la gloria e la supre-
mazia dell’ Oriente e delle Chiese di Gerusalemme,
di Antiochia ed Alessandria, così nell’ ordine spi-
rituale come nel temporale « Laterano alle cose
» mortali andò di sopra » *°, e niun fatto impor-
tante per la storia del cristianesimo e del mondo
poleva immaginarsi senza che Roma più o meno
vi partecipasse. E perciò Roma diventa, in questa
capital forma della leggenda, patria effettiva od
adottiva di Maometto, e in qualche modo la Curia
romana è fatta culla della nuova eresia.
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NOTE
! Dei due rifacimenti italiani del Tesoro in versi volgari
e della loro varia contenenza parlo in una ampia
Memoria, che vide la luce negli Atti della R. Acca-
demia dei Lincei, Serie IV, Vol, 4, p. 111-267, (1888),
e della quale è parte questa illustrazione della leg-
genda di Maometto in Occidente che, da sola, fu
inserita nel Giorn. Stor. d. Lett. Italiana, XIII, 199.
? 1] cod. tmpuoseli, ma, come in molti altri casi, manca
un n o un tilde. O forse si può supporre un
impuosesti. Ovvero anche manca qualche verso,
nel quale dovrebbe dirsi come Pelagio trovò un
arabo, lo trasse alla sua fede e « impuoseli nome
Maometto ».
3 Ognun sa che Mohammed in arabo significa lodevole.
Altra significazione del nome di Maometto ci dà
Benvenuto DA IMOLA, Coment., ediz. Vernon, Fi-
renze, Barbèra, 1887, vol. II, p. 355: Dicitur enim
Machometus, quasi malus comitus, idest guber-
nator navis, idest ecclesiae Dei, quam deduxit ad
naufragium, quia nec antea nec postea fuit maior
ruina in ecclesia Dei. Il nostro versificatore, riferito
il significato del nome secondo una etimologia
dotta, scrive però Malcometto, secondo l’etimologia
popolare, con evidente richiamo a commetter male.
t Evidentemente questo verso va espunto; ce ne do-
vrebbe essere uno che dicesse presso a poco così:
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244
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Nella ritornata un branco di porci avea, cioè: vi
era sul cammino donde dovea far ritorno a’ suoi,
un branco di porci.
5 Il cod. usciavano.
6 Il cod. avea e. Correggendo Che in Chi si potrebbe
anche leggere: Chi ’l battesimo avea è lucerna.
1 Arabo: hinzir; ebraico : chasir.
3 Étud. d' hist. religieuse, Paris, Levy, 1859, p. 222.
® V. il poema latino sulle imprese dei Pisani in Tu-
nisia, in Du MfRiIL, Poés. popul. latines du M. A.,
Paris, Didot, 1847, p. 248.
10 PieR DI CLUNY così conclude il suo trattato sul mao-
mettismo: « Quae quidem olim diaboli machina-
» tione concepta, primo per Arrium seminata,
» deinde per istud Satanam, scilicet Machumet,
» provecta, per Antichristum, vero ex toto secun-
» dum diabolicam inventionem complebitur (in
» Bibl. Patr., ediz. di Lione, XXII, 1031) ». E, a lui
conforme, l’ autore dell’ Epitome bellor. sacror.,
dopo aver confrontato la dottrina di Maometto
con quella di Sabellio ed Ario ed altri eretici:
« Claret quod, illud quod diabolus in mundo
» incepit per Arrium, et consummare non potuit,
» postea, tabescente in Ecclesia fervore, per Macho-
» metum consummavit, denique ad plenum con-
» firmabit in fine saeculi per Antichristum, qui
» suadebit mundo quod Christus non fuerit verus
» Deus, nec filius Dei, nec bonus homo (in CAnI-
» sIUS, Antig. lectiones, Amsterdam, 1725, IV,
» 442) ». E Otiviero lo Scolastico, parlando dei
Maomettani: « Unde verius haeretici quam Sara-
» cenì nominari debeant (in EccARD, Corp. histor.
» M. Aevi, II, 1409) »..
11 Del resto, in un programma del 1833 di un candidato
dottorale presso la Facoltà di Lettere a Parigi,
V. DeGoURGAS, intitolato De christiana origine
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IN OCCIDENTE 245
Maumeticae fidei (Parisiis, Lachevardiere) le due
prime tesi ch’ egli si propone discutere sono:
« Evangelio diffuso, omnis nova religio, quantula-
cumque ex parte, christiana futura fuit — Mahu-
metismus e christiano fonte delabitur ».
12? « Presso di noi la parola monaco ha un senso ristretto,
» e tal denominazione non sarebbe propria a un
asceta giudeo-cristiano. Frattanto, etimologica-
mente, designa un solitario, e non un cenobita,
un claustrale; ed è possibile che questo termine
presso i Bizantini sia stato adoperato in un
senso più largo e insieme più conforme all’ eti-
» mologia, che presso noi »: SPRENGER, Das Leben
und die Lehre des Mohammad, Berlin, Partey,
1862, II, 385, nota. Il vocabolo corrispondente
arabo è ràhib, e lo stesso Sprenger, I, 178,
osserva che qualche volta è adoperato in senso
largo: per es.: Abù ’Amir è detto ràhib, « seb-
» bene non fosse nè monaco nè cristiano, ma
>» hanyf ». Réghib adunque « significa celibe,
» asceta, sia esso monaco od eremita, cristiano
» o no ». L’ Amari da me interrogato in propo-
sito, mi afferma che ràhib vuol dire « temente » e
si usa sempre nel significato di romito o monaco, o
d’uomo che fugge le donne. Ad ogni modo, ciò che
dicono gli autori che citeremo, vale a far ricono-
scere nel ràhib in cui s’ imbattè il Profeta giovi-
netto, un solitario cristiano, più o meno ortodosso.
13 « Bahyr è nome personale non raro in arabo. L’au-
tore del KAmus dice che fu portato da quattro
seguaci del profeta e da quattro tàbi’; oltre
a ciò ci sono tradizionisti così chiamati.
Bahyrà è la forma nabatea (enfatica) di esso
nome. Noi troviamo questa stessa forma anche
in Zalychà e in Ibn Kamyta: tà è il nome
dell'amante di Giuseppe d'Egitto, e qua il
v % % %
%
v Y % % % V %
Google
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» nome di un astronomo sàbio, maestro del Tabit
» b. Korra. Bahyrà significa in arabo una giu-
» menta di cammello, esente da lavoro. Forse si
» disse Bahyrà, come in persiano Azàd, un uomo
» che allontana da sè le cure della vita, un ascela
» libero »: SPRENGER, op. cit., II, 384, n. — La
bibliografia su Bahyrà è da vedere in V. CHAUVIN,
Bibliogr. d. ouvr. arab. ou relatifs aux Arabes, XI:
Maomet, Leipzig, Harrassowitz, 1909, p. 201.
14 Fra i vecchi biografi occidentali vedi PribEAUX, La
vie de M., Amsterdam, 1609, p. 13: Dr BouLLAN-
VILLIERS, Vie de M., Amsterdam, 17831, p. 220
(traduz. italiana, Venezia, 1745); TuRpPin, Hist.
de la vie de M., Paris, Costard, 1773, I, 295, 309;
GAGNIER, Vie de M., Amsterdam, 1748, I, 121, ecc. ;
e fra i moderni: Caussin DE PERCEVAL, Zssaîi
sur l hist. des Arabes, Paris, Didot, 1849, I, 319;
BARTHÉLEMY SAINT-HiLAiRE, Mauhomet et le Coran,
Paris, Didier, 1865, 3, 89, ecc. Il CARLYLE, Les
héros, le culte des héros et l’héroiq. dans l’ hist.,
trad. frane., Paris, Colin, 1888, p. 83, dice così:
« Je ne sais pas ce qu'il faut penser de ce
» Sergius, le moine nestorien, chez qui Abou
» Taleb et lui, dit-on, logèrent, ou dans quelle
» mesure un moine aurait pu donner son ensei-
gnement è quelqu’ un d’ encore si jeune. Il est
assez probable qu’ elle a été grandement exa-
gérée cette histoire du moine nestorien. Maho-
met n’avait que quatorze aus, il ne parlait
absolument d’ autre langue que la sienne;
beaucoup de choses en Syrie doivent nécessai-
rement avoir été un étrange et inintelligible
tourbillon pour lui. Mais les yeux de l’ado-
lescent étaient ouverts: des lueurs de bien des
choses devaient sans dovute y étre récueillies, et
couver, bien énigmatiques encore, mais pour
yy % “% % % V VV ‘ % %
Google
IN OCCIDENTE 947
» mrir d’ étrange facon en vues, en croyances
» et en intuitions, un jour. Ces voyages en Syrie
» furent probablement le commencement de bien
» de choses pour Mahomet ». L. CAETANI, Annali
dell’ Islam., Milano, Hoepli, I, 160, fa breve cenno
della leggenda di Bahyrà, notando che il MuiR
non le dà valore, e che lo SPRENGER non crede
che i viaggi di Maometto possano riferirsi all’ età
giovanile, ma alla virile.
5 Edizione del Wiistenfeld, Gottinga, 1858, I, 115. E vedi
anche il sunto di varie leggende in proposito,
presso E. LeMmAIRESSE e G. DusarRrIc, Vie de M.
d’ après la tradition, Paris, Maisonneuve, 1897,
I, 124.
16 Principali idoli della Mecca.
‘7 Lo SPRENGER, I, 178, consacra parecchie pagine alla
« Bahyrà-Legende », recando oltre il passo di Ibn
Ishég, anche altri otto. Il nome di Bahyrà si trova
solo in Ibn Ishàq; Ibn Sa‘d lo chiama Nestor
(p. 184): gli altri parlano genericamente di un
ràhib (monaco): salvo uno che porta Cahîb
Dayrin (claustrale). Lo SPRENGER, idid., 188,
sembra prestar poca fede alla leggenda, special-
mente perchè collegata ad un viaggio di Maometto
in Siria in età giovanissima, ch’ egli non ammette.
Ma però ammette la realtà storica di Bahyrà, come
di Zurair, Tammam e Darîs. — È ora da vedere
CARRA DE VAUXx, La legende de Bahîra, in Revue
de l’ Orient Chrétien, 1lI, (1897) pp. 439-554. Egli
dopo aver ammesso due viaggi di M. in Siria, e
due diversi monaci, Bahîrà e Nestor, nei quali
8’ imbattè, rende conto di un manoscritto arabo,
una specie di autobiografia di Bahîrà scrilta sulla
relazione di un monaco cristiano d’ Egitto, Modrab,
che si trova nella Bibliot. Naz. di Parigi, e che
dovè esser composta nel primo secolo del califfato
Google
248
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
abbassida. Secondo questa leggenda, il monaco
Bahîrà, avendo avuto per certe sue visioni la
conoscenza dell’avvenire e l’ annunzio della venuta
di Maometto, quando questo a lui si presenta,
non solo l’ammaestra nella fede cristiana, ma
per lui compone il Corano e i doveri della nuova
fede, intinti di arianesimo, consigliando di dar
ad essi autorità fra gli arabi increduli e dubbiosi,
mediante il noto artificio della vacca. Di tutto
ciò, dell’ aver cioè aiutato la formazione e la dif-
fusione del maomettismo, il vecchio monaco ora,
nei suoi colloquj si mostra pentito, facendo per-
sino una confutazione dell’ opera, della quale fu
autore: del Corano.
18 Debbo la traduzione anche di questo passo, che in
parte ripete quello anteriormente riferito, all’ami-
cizia dell’Amari, dall’ediz. di Leyda, 1882-85, serie I,
vol. III, p. 1123: « Da Abù Humayd, da Salimah,
» da Muhammad ibn ‘’Ishàq, da ’Abdallah ibn abQ
» Bakr.... Indi Ab Tàlib si mosse in viaggio per
» la Siria con una carovana di coreisciti per cagion
» di commercio. Mentre si apparecchiava la caro-
vana ed i viaggiatori erano pronti [a partire],
il Profeta, come suppongono [i raccontatori], si
gittò al collo dello zio, il quale impietosito disse:
Per Dio, egli verrà con me e non mi abbando-
nerà mai. Tali a un dipresso furono le sue
parole. Fermossi la carovana a Bugra in Siria,
ad un monastero (Sauma‘ak), nel quale vivea
un monaco (ré@hib) per nome Bahîrà, uom dotto
nella scienza cristiana, chè ab immemorabili
non era mai in quel monastero mancato un
monaco che possedesse la loro scienza, cavata,
a quanto dicono, da un libro che passava in
eredità da superiore a superiore di quel mona-
stero. Smontata lì la carovana quest'anno, Bahîrà
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IN OCCIDENTE 949
imbandì loro un gran desinare, perocchè guar-
dando dal monastero [la carovana che veniva],
avea veduta sul Profeta una nuvola, che faceva
ombra a lui solo tra tutta la brigata. Arrivati
che furono e smontati all’ ombra di un albero
vicino al monastero, Bahîrà vide l’ ombra arre-
starsi sull’ albero, ed in questo i rami piegarsi
sul Profeta in guisa da coprirlo. A tal vista
Babîrà scese dal monastero, e mandò a convitar
tutta la gente della carovana. Visto ch’ egli
ebbe il Profeta, si messe a squadrarlo fitto, e
riconobbe nella sua persona alcuni segni di
quelli ch’ egli avea trovati nella descrizione [del
Profeta], com’ essa gli tornava [dal suo libro].
Donde, fornito il desinare e andati i commen-
sali chi qua chi là, Bahîrà [preso in disparte] il
Profeta, lo interrogò circa alcuni fenomeni che
gli avvenissero nel sonno o in veglia: e quando
il Profeta glie li ebbe svelati, Bahîrà vide che
corrispondeano per lo appunto alla descrizione,
ch’ egli n’avea [nel suo libro]. Indi guardatogli
il dorso vi scoprì in mezzo alle spalle il segno
della profezia. E disse allo zio di lui Ab Talib:
Che ti è questo fanciullo? Questo rispose: È
mio figlio. Ma Babîrà a lui: Non può essere tuo
figlio, perocchè questo giovanetto non può avere
padre vivente. E Ab Talib: Sì, egli è figliuolo
di un mio fratello. E del padre che n’ è? domandò
Bahîrà. Morì, rispondeva Ab Talib, e lasciò
incinta di questo bambino la vedova. È il vero,
disse allora Bahîrà&. Fa di ritornare con lui al
tuo paese, e guardalo bene dai Giudei. Per Dio!
se lo vedessero, e sapessero quel che so io, lo
farebbero capitar male. Questo ragazzo avrà alto
stato. Fa presto a ricondurlo al suo paese. E così
lo zio avacciandosi, arrivò con esso lui alla Mecca,
Google
250)
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» Higàm ’ibn Mubammad dice: AbA Tàlib andò
» col profeta a Busrà di Siria quando egli era
»
v
DL
UOvOvOUv vv VOI VV vv
fanciullo di nove anni.
» Tradizione di Al ‘Abbàs ’ibn Muhammad, da
Abî Nub, da YAnis ibn Abî Ishàg, da ADÒ
Ishéàq ‘ibn Abî Mfsa, da Ab MASs8A. Questi disse:
AbA Talib partì per la Siria in compagnia del
Profeta e di alcuni Sayh coreisciti. Giunti presso
il luogo ove dimorava il monaco, fecero sosta
e scaricarono i cammelli. Andò loro all’ incontro
questo monaco, il quale altre volte quando eran
passati di lì non era mai andato loro all’ in-
contro, nè si era pur fatto vivo. Scaricati i
cammelli, il monaco si messe a girare in mezzo
a' viaggiatori, finchè trovato il profeta, lo prese
per mano dicendo: Questi è il signore dell’uni-
verso, questi è l’inviato del padrone dell’universo,
questi sarà mandato da Dio per misericordia
verso il mondo. Allora alcuni Sayb coreisciti
gli domandarono: E che ne sai tu? E il monaco
a loro: Quando voi passavate per quella col-
lina, non v'era albero e non v'era rupe che
non si prosternasse innanzi a lui. Or gli alberi
e le rupi non si prosternano che dinanzi i pro-
feti. Inoltre io lo riconosco bene al suggello
della profezia ch’ egli ha abbasso la cartilagine
delle spalle, in forma di una mela. E andò via:
fece imbandire la mensa, e ritornato con le
vivande, mentre il Profeta [lontano] badava a
pascolare i cammelli, disse: Su, mandate a chia-
marlo. Ei ritornò ombreggiato da una nuvola,
e il monaco [a' convitati]: Guardatelo, che la
nuvola gli sovrasta [sempre] per fargli ombra.
Avvicinossi il Profeta, mentre la brigata era già
andata a mettersi all’ ombra di un albero, ed
appena egli andò ad adagiarvisi anch’ egli, ecco
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IN OCCIDENTE 9591
» l'ombra dell’ albero volgersi tutta a lui, e il
monaco a dire: Guardate come va a trovarlo
l’ ombra di quest’ albero! Or mentre il monaco
parlava con loro, raccomandando di non menarlo
mai presso i ftdm, perocchè se l’ avessero veduto
l'avrebbero riconosciuto ai noti segni e l’avreb-
bero ucciso, ecco subito comparire una brigata
di sette Rfm. Bahîrà si volse a loro doman-
dando: Che volete? Risposero: Siam venuti
perchè questo Profeta [del quale avevan sentito
parlare] si è messo in via nel mese che corre,
onde è stata mandata gente [in cerca di luil
per ogni via, e a noi è occorso di battere questa
via. E il monaco a loro: E avete lasciato
addietro qualcuno di grado superiore al vostro?
No, risposero, l’ è che noi abbiam pensato di
batter questa via. Il monaco riprese: Vi è mai
avvenuto di vedere che, quando Iddio voglia
una cosa, vi sia uomo al mondo che possa con-
trastarlo? No, risposero : e lo seguirono e rima-
sero presso di lui. Egli allora andò a trovarli
[gli arabi della carovana] e lor disse: Per l’ amor
di Dio, chi di voi è il tutore di questo ragazzo?
Risposero: È Ab0 Talib. E il monaco a scon-
giurarlo che menasse a casa il profeta. ADÒ
Bakr [che era nella brigata] lo fece accompa-
gnare da Belal, e il monaco lo fornì di biscotto
» e d’olio pel viaggio ».
'9 Nei Rendiconti dell’ American Oriental Society di
Boston, maggio 1887. Vi si promette la pubblica-
zione dei testi, che ignoriamo se poi sia stata
fatta. Debbo la conoscenza dei Rendiconti al dotto
collega prof. Ignazio Guidi.
20 ASSEMANI, Ribl. Orient., Romae, 1721, II, 416, e III,
P. 1, 108. Quest’ autore ne parla a proposito dei
jacobiti, ma osserva che altri lo fa nestoriano.
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252
21 Se
ILA LEGGENDA DI MAOMETTO
Tomaso nell’ Hist. monast., I, 35, lo dice nativo
ex Gadala, Arabiae pago. BAR-HEBRAEUS scrive
di lui che « per idem tempus innotuit Mohammad
» Arabum pseudopropheta. Hunc Saidus, Nagra-
nensium christianus princeps, cum Jesujabo
patriarcha adiit, oblatisque ingentibus donis,
fedus Christianos inter et Arabos ulriumque
sectae stabiliri postulavit. Annuit Mahometus,
deditque diploma, quo christianos arabibus
commendabat etc. ». AmRus nel!a vita di Jesujab
afferma ch’ egli compose parecchi libri: uno « quo
» haesitantes in fide reprehendit: alterum de
» nominibus et rebus, quae scriptura quidem con-
» veniunt: tertium de Sacramentis Ecclesiae ».
Ma niuna menzione si fa di codesta vita di Sergio ;
ed è più probabile che fosse composta più tardi
da altri, attribuendola a Jesujab per esser rimasta
fama delle sue relazioni con Maometto. Jesujab
morì nel 647.
il libro siriaco fosse veramente del tempo a cui
si vorrebbe attribuire, questa sarebbe la più antica
menzione dell’ inganno della vacca, del quale altri
molti parlano. Forse l'origine di questa fiaba non
dovrebbe esser senza qualche legame col fatto,
che la 2 sura del Corano, la quale del resto può
passar per prima, perchè preceduta solo da una
breve introduzione, è intitolata appunto la Vacca,
dal parlarvisi di quella che Dio ordinò a Mosè di
sagrificare.
“V % Y VV V *%
22 Non disapprovata dal RENAN, op. cit., p. 217, anzi
corroborata da nuove considerazioni.
23 Così il testo dei traduttori francesi: e così, o per dir
meglio, Serdjis, lesse il GaGnIER: il Caussin
pe PercEvaL reca Djirdjis (Giorgio), ma avverte
espressamente, I, 320, n., che non aveva sott’oc-
chio il Masfidi, ma un altro autore arabo, che
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IN OCCIDENTE 933
riferisce il passo. Forse, ei dice, al nome men
comune e straniero di Serdjes (Sergio) fu sostituito
quello più noto di Djirdjis. Lo SPRENGER, II,
385, osserva in proposito del nome di Sergio:
« Fra i contemporanei del profeta non troviamo
» nessun Sargis (Sergio), bensì un ’Abd Allah
» b. Sargis, che può esser stato suo figlio. Nel-
l’Igàba è detto ch’era mazanita e congiunto
colla famiglia Machzîm. Secondo BocHary,
"Abd Allah si stabilì in Bacra e avrebbe cono-
sciuto il profeta. Secondo ’AcIM-AL-AHWAL,
avrebbe visto il profeta, ma sarebbe stato
troppo giovane per esser fra i suoi seguaci.
Altri a ciò contraddicono, e lo annoverano fra
i discepoli. Egli ha trasmesso delle tradizioni,
delle quali alcune sono state comprese da Moslim
» nella sua raccolta ». Nella Vita di Macometto,
che precede L’ Alcorano tradotto nuovamente dal-
l’arabo in lingua italiuna, Venezia, Arrivabene,
1547, è detto: « Siro chiamato Surgio »; ma poi
è detto « Sergio »: ed è singolar cosa in questo
scritto l’ orazione cinquecentesca, che tien tre
pagine, colla quale questo monaco nestoriano
persuade Maometto a fondare nuova religione.
24 Varie e fra loro disformi sono le genealogie di Bahyrà.
Secondo Abul’Hasan Al-Besri « vocabatur Felix
» filius Jonae, fili Abdo’l-Salibi: cognomen autem
» ejus erat Bohaîra »; v. ABU’L-FEDA, traduzione
Gagnier, (Oxoniae, 1723, p. 11).
25 MacouDI, Les prairies d’ or, trad. par Barbier de
Meynard et Pavet de Courteille, Paris, Imprim.
Impériale, 1861, I, 146.
26 Cfr. anche ABOULFEDA, Vie de M., trad. Noél des
Vergers, Paris, Impr. royale, 1837, p. 9.
2? Secondo lo SPRENGER, II, 387, un solo autore arabo,
Zohry (—743) farebbe di Bahyrà un giudeo di Taymà.
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do LA LEGGENDA DI MAOMETTO
28 Cfr. Ibn-Isbàg, in SPRENGER, I, 183 sgg.; e ABuL-
FEDA, trad. cît., p. 10.
2 Vedi SPRENGER, I, 178 sgg.
30 Nel Commento del GAGNIER al De Vita et reb. Mohamm.
di Abu’l-feda, Oxoniae, 1723, p. 11, si reca questo
passo di Giorio Monaco: « Cumque cognovisset
» Bohaîra illum (Mohammedb) esse ex ista tribu
» (degli Arabi idolalri), misericordia motus et cha-
» ritate, illum juvit, imbuitque cognitione Dei,
» eique aliquot capita ex Evangelio, ex lege, ex
Psalmis praelegit. Deinde ille in palriam et ad
gentem suam reversus, dixit illis: Vae vobis!
utique vos in errore manifesto versamini! ».
3" Vedi SPRENGER, II, 379.
32 SPRENGER, I, 484.
33 Secondo il GAGNIER, Vie de M., I, 121, questa iden-
tificazione si troverebbe anche in Abu’l-Hasan Alî.
3 Vedi fra gli altri, G. SALE, Observat. hist. et critig. sur
le Mahometisme, Genève, Barillot, 1751, p. 120:
CAUSSIN DE PERCEVAL, op. cit., I, 323; BARTHÉL.
S. HILAI1RE, 0p. cit., p. 71.
3 Secondo alcuni scrittori musulmani citati dallo SPREN-
GER, l, 344, Cadiga non andò da Varaka, ma vi
mandò Maometto stesso ed Ab-bekr, Ma i più
fanno andare lei.
3 Vedi Caussin DE PeRrcEvaL, I, 359; BARTHÉL. SAINT-
HILAIRE, p. 99, ecc. E tal è la più comune narra-
zione degli scrittori arabi (vedi SPRENGER, I, 331
e sgg.), ma presso qualcuno di essi, ad es. lhn
Manda (vedi SPRENGER, II, 286), la visita di Cadiga
a Varaka è preceduta da altre consimili consulte
con altri personaggi, fra i quali il ràhib Bahîré
(vedi SPRENGER, I, 304 e Segg.).
3 Non voglio tacere che al dottissimo RENAN nella
recensione ch’egli fece di questo mio scritto
(Journ. d. Savants, luglio, 1889, e poi in Mélanges
s V *%
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IN OCCIDENTE 955
religieux et histor., Paris, Calmann-Levy, 1904,
p. 209) pare dubbioso che gli scrittori medievali
cristiani abbiano avuto conoscenza dell’ episodio
di Varaka; ma il particolare narrato da Teofane
del « Monachum quemdam » ricercato dalla moglie
del profeta, fa credere che qualcosa, anche confu-
samente, ne sapevano.
38 Chronographia, Bonn, Weber, 1839, p. bll.
3° « Ipsa vero cum haberet adulterum (var. cum abîiret
» ad alterum) quemdam, propter infidelitatem
ibidem exulem habitantem, amicum suum, indi-
cavit ei omnia, et nomen Angeli. At ille volens
eam reddere certam, dixit ei: Veritatem locutus
est: etenim iste Angelus mittitur ad cunctos
prophetas. Ipsa ergo prima, suscepto pseudo-
monachi verbo, credidit ei, et praedicavit id
aliis mulieribus contribulibus suis, prophetam
>» eum esse etc. »: Hist. Ecclesiast., Parisiis, 1649,
p. 103-4.
40 COSTANTINO, De udministr., imperi., c. XIV, dà di più
la notizia che colui che ingannò Cadiga era ariano
« Falsum testimonium addente ariano quodam
» monachi nomen ementiente, turpis lucri gratia ».
Il Banpurio qui annota che l’ « Anonymus in
» Saracenicis, hunc monachum arianum Constan-
» tinopoli e monasterio Callistrati, ob pravos in
» fide sensus ejectum fuisse, scribit »; e aggiunge
che le varie lezioni di Teofane lo chiamano Sergio,
e la cronaca del Monaco altissiodorense, Selgio.
Secondo il BaroNIO, ann. 630, la notizia del mona-
stero donde sarebbe stato espulso il monaco,
deriva « ex fragmento historico Anastasii biblio-
» thecarii ». Nella Hfst. Eccl. di lui non v'è nulla
di ciò; bensì in una nota alla Panoplia di EuTIMIO
ZicABENE (in Galland, Riblioth. veter. patr., Vene-
zia, XIV, 277) è detto che tal notizia è data nel
% % % VV % “ %
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956 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
trattato de Suracenorum principe nel vol. XII
dell’ ediz. parigina della Biblioth. Patr., che non
mi ritrovo a mano.
4! « Erat amicus ei mulieri monachus quidam, qui ob
» falsam fidem relegatus ibi vivebat. Huic mulier
» totam rem aperit, Angeli etiam nomine probato.
» Is autem monachus, ut opinionem eam prorsus
» in animo mulieris confirmaret, vero Moamedum
» haec dicere ait, eum enim angelum ad quemvis
» vatem mitti. Mulier fidem verbis impostoris
» illius monachi habens, aliis suis gentilibus
» mulieribus fabulam narravit etc. »: Compend.
Hist., ediz. Bekker, Bonn, Weber, 1838, I, 738.
4? « Ceterum homo improbus monachum se nequio-
rem nactus, ob perversam religionem Byzantio
exactum, illius instinctu uxori ait Archangelum
Gabrielem de coelo ad se descendentem, divina
quaedam arcana sibi revelare etc. Ea verba
» testimonio dolosi monachi confirmabantur, qui
» mulieri dicebat, omnino Gabrielem ad omnes
» prophetas mitti solere »: Annal., in Heracl.
4 Con piccole variazioni, dice il PRUTZ, Aulturgesch.
d. Kreuezùge, Berlin, Rittler, 1883, p. 516, che
da Teofane derivano le relazioni medievali su
Maometto, le quali non appartengono alla let-
teratura delle crociate propriamente detta: per
es. SIGEBERTO GEMBLACENSE (1030?-1112), DitMARO
(976 -1009), ecc. Aggiungi anche PaAuLo Diacono
(7309-7979) Mist. Miscell., XVIII (Rer. Italic., I,
132), ed EuriMmio (ed. cit., p. 277). Sugli autori
bizantini in genere che trattano di Maometto,
vedi V. CrRAUVIN, Bibliogr., d. ouvr. arabes ou
relatifs aux Arabes, XI: Mahomet, Leipzig, Harras-
sowitz, 1909, p. 152.
4 Questo così detto miracolo del profeta arabo, si
rinnovò in circostanze speciali dopo molti secoli, e
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IN OCCIDENTE 2957
vien così piacevolmente narrato da Vincenzo MONTI
in una lettera alla moglie del 12 gennaio 1822 : « Per
aver cagione di prolungare la presente voglio
raccontarti cosa che ti farà ridere. In Fano, distante
dieci miglia da Pesaro, dura tuttavia un antico
costume, di celebrare, appunto di questi tempi,
una giostra di tori, alla quale è molto il concorso
dei paesi circonvicini; e giorni sono ebbe luogo
il primo spettacolo. Fu mandato in arena un toro
veramente feroce. Egli è legge che a ognuno, che
ami di acciuffarsi con questa bestia, sia libero di
entrare nello steccato. Niuno osò presentarsi
contro questa fiera; e quanti cani si arrischia-
rono di assalirlo, tanti ne furono lanciati in aria
e sventrati. Finalmente si fece innanzi un villano,
che, con istupore di tutti, si mise a fronte del
tremendo animale. Gli si accostò francamente; e
il toro, fatto mansuetissimo, lasciò avvicinarsi e
carezzarsi e palparsi; e lambiva la mano che lo
blandiva. A quel portento tutti restarono attenti
e muti; indi un battere di mani che andava alle
stelle. Quand’ ecco improvvisamente un uomo che
s'alza e grida: Costui è un mago. È un mago,
ripetono con voce furibonda alcuni altri dello
stesso colore; e Fuoco al mago! fuoco al mago!
s’intuona da tutte le parti. Il presidente della
giostra, persuaso ancor esso che quel prodigio
non poteva essere che mera opera del diavolo,
fa spiccare quattro gendarmi che intimano al
mago di uscire dallo steccato, e te lo menano
prigione. Dimandato il perchè di questa soper-
chieria, gli vien risposto: Perchè tu sei un mago,
e n’andrai impiccato e bruciato. E che mago
m’ andate voi contando? ripetè il villano. E non
capisce sua Eccellenza o sua Reverenza, che, se
il toro mi ha fatto carezze, egli è perchè ha rico-
D’AnCcONA - II 17
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258
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
nosciuto in me il suo padrone? Pareva che tale
risposta, conforme alle testimonianze di molti,
che per vero padrone del toro lo riconobbero e
ne fecero giuramento, avesse dovuto far rinsa-
vire il nobile Presidente, ma il povero mago è
ancora nelle carceri, e si disputa quid agendum ».
45 Gesta Dei per Francos, nel Recueil des Histor. d.
Croisades, publ. par l’Acad. des Inscript. et Bell.
lettr., Paris, Imprim. National, 1879, vol. IV,
p. 128 e segg.
4 Qui l'editore BrAuGENDRE pone in nota: « Haec
» hypocrita et vaferrimi hominis descriptio non
improbabiliter cedere possit in Sergium; non
quidem illum Patriarcham Constantinopolita-
num, hujus nominis I], qui ipse monothelita,
Heraclium imperatorem monothelitam et mono-
thelitarum protectorem effecerat, ut quidam
erronee sunt opinati: sed alium Sergium, arme-
num, pseudomonachum et suis ordinis aposta-
tam, qui Arianorum et Nestorianorum erroribus
infectus, impio Mahometo suam tunc sectam
instituere meditanti, tam tenaciter adhaeserat,
ut illo nequissimus ille pseudopropheta ad Alco-
» ranum suum concinnandum usus fuerit ».
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‘1 Il sig. Ziolecki nella prefazione alla nuova stampa
del Roman de Mahomet di Alixandre dou Ponts,
Oppeln, Maske, 1887, analizzando questo poema,
p. XVI e seg., ha confuso insieme il mago, ch’ ei
chiama Maometto, e Mamuzio. Invece nel poema
francese il mago è innominato; e l’altro perso-
naggio è Mamuzio = Maometto.
48 È curioso come questo nome sopravviva nel parlare
Salentino, quando volendosi imprecare contro
qualche persona, gli si grida « Bruttu Mamuzio »,
alludendo con ciò a Maometto: vedi G. GABRIELI,
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IN OCCIDENTE 259
Gesù Cristo nel Qorano, in Bessarione, Riv. di studi
orient., IX, n. 55-56.
4 HiLDEBERTI, Opera, ediz. Beaugendre, Paris, 1708,
50 Il
p. 1277 e segg. Riprodotto anche nel vol. CLXXI
della Patrologia latina del Migne, 1854.
luogo a questo corrispondente nel Roman de
Mahomet, che da questo poema di Walther deriva,
come diremo più oltre, suona così:
En cel tans, en cele partie
Estoit uns hom de sainte vie
Demourans en uns hermitage
En une montaigne sauvage ecc.
A questo luogo nella prima edizione del Roman
(Paris, Silvestre, 1831) vi ha una nota, che forse
più che al MicHEL editore del testo latino, appar-
tiene all’ orientalista ReinAUD, autore della pre-
fazione, e che così dice: « Il s’agit ici d’ un
» moine chrétien qui demeuroit à Bosra, à quelque
» distance de Damas, et que Mahomet eut occa-
» sion de voir dans ses voyages. La pluspart des
» auteurs arabes le nomment Bohayra, et Guil-
» laume de Tripoli Bahayra ». È più oltre: « Des
» auteurs musulmans parlent de l’ entrevue de
» Mahomet avec l’ermite; mais, bien loin de
» préter à celui-ci un langage aussi sévère, ils
» disent que ce religieux fut frappé à la première
» vue de l’éclat divin qui brilloit de la personne
» du Prophéte, et qu'il crut aussitòt en lui ».
E più oltre ancora: « Nous avons dit que l’ermite
» qui prédit è Mahomet sa mission, demeuroit
» près de Bosra en Syrie, c’ est-à-dire à plus de
» deux cents lieues de la Mecque; ainsi le récit
» du poéète est inadmissible. L’auteur a sans
» doute été trompé par l’ existence d’ une grotte
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260 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
située dans le voisinage de la Mecque, où
Mahomet, quelque temps avant sa mission,
avoit coutume de se retirer pour y méditer,
disoit-il, sur les choses célestes, et où l’ ange
Gabriel lui apparut pour la première fois ».
Chi scrisse queste giuste osservazioni, evidente-
mente non sospettò il legame che noi abbiam
cercato di mettere in chiara luce fra Varaka,
dimorante appunto presso la Mecca, e il solitario
dei testi occidentali.
5 Il poeta francese che, come vedremo, ridusse in versi
questo racconto, biasima il modo di procedere
dell’ eremita :
vu Y YV %
”
Loenges m’ en convenra faire
De lui, selonc mon examplaire;
Nequedent je croi vraiement
Que li examplaires me ment,
Pour chou q’ aida a tesmoigner
A Mahommet, le losengier
Que li angeles a lui venoit
Quant li vilains maus le prennoit
Et que loy nouviele feroit
Ki de par Diu faite seroit (vv. 1157-67).
5 Il poema di Walther fu pubblicato dal Du MéERIL,
| Poés. popul. latin. du moyen Gge, Paris, Franck,
1847, p. 368-405.
53 La prima edizione del Roman fu fatta, come dicemmo,
nel 1831, Paris, Silvestre, da FrancIisquE MICHEL,
con una notevole prefazione del REINAUD, e di essa
trattò il RAyNOUARD, nel Journal des Savants (1831):
la seconda, come pur dicemmo, fu fatta più tardi
dal sig. BoLesLAw ZioLEcKi, Oppeln, Maske, 1887.
Precede al testo un « Beitràge zur Mahomet-
Legende im Mittelalter », dove molte notizie sono
raccolte, ma esposte, a parer nostro, confusa-
mente.
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IN OCCIDENTE 261
La data del poema si raccoglie dagli ultimi
versi: « Chi faut li romans de Mahon. Qui fu fais
» el mont de Loon, En l’an de l’incarnation
» De nostre signor Jesucrist Mil et cc. cinkante
» et wit ».
9 ZIOLECKI, p. XXIII. A p. VII lo Z. ricorda altri scritti
proprj (Greifswald, Abel, 1886) e del PerER (Gan-
dersheim, Hertel, 1885) sulle relazioni fra il poema
latino e il francese.
5 Circa gli stessi tempi troviamo che alle fonti auten-
tiche ricorreva anche EuTIMIO ZiGABENE (m. dopo
1118) nella Panoplia, ove scrive aver Maometto
composto « centum et tredecim fabellas », che sono
i 113 capitoli dell’ Alcorano, e ne cita e confuta
una ventina (vedi traduz. Zini, Venetia, Scoto,
1550, fol. 60 e segg., e GALLAND, Bibl. Veter. Patr.,
Venetiis, 1781, XIV, 227 e segg., trad. BEUMER).
Eutimio fa derivare la dottrina di Maometto da
varie fonti: « in Palestinam iter faciens, incidit
» in Haebraeos, deinde et in Arianos, tandem
» etiam in Nestorianos.... Celeriter e Judaeorum
» doctrina, Unius imperium, ex Arianorum vero,
» Verbum et Spiritum res esse conditas, e Nestoria-
» norum tandem, Hominis cultum hausit. E quibus
» omnibus inter se junctis, mixtam quandam reli-
» gionem commentus est ».
56 L’anno è attestato dall’ Epistola di Pietro a Ber-
nardo (v. Bibl. Patr., ediz. di Lione, XXII, 1030),
confermata da ALBERICUS TRIUM FONTIUM: « quo
anno per industriam abbatis Petri Cluniacensis,
liber qui dicitur Alchoranus cum tota secta
impii et pseudoprophetae Mahumet, de arabico
in latinum translatus est, hoc ratione ut sciat
catholica Ecclesia quam vilis et quam frivola
et quam apertis mendaciis plena sit ista seducto-
ris illius doctrina, quae a tempore b. Gregorii
v YV % % % % € ©
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262 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» paulo post, id est a tempore imperatoris Heraclii,
» Saracenorum populos infecit, et hic erat annus
» alhigere 537 : alhigera autem dicitur sublimatio in
» prophetam etc. »: in Mon. Germ. Hist., XXIII, 837.
5 Vedi l’ Epistola, la Summula, la Disputatio e la Vita
di Maometto in BiBLIANDER, Machumetis.... vita ac
doctrina ipseque Alcoran etc., Basilea, 1547. Vedi
anche l’Epistola e brani della Summula riferiti da
R. Otto, Mohamed in der Anschauung des Mit-
telalt., in Modern Language Notes del 1889, p. 90.
La Epistola e la Summula, non che la prefazione
di Roberto all’ Alcorano tradotto, sono anche
nella Bibl. Patr. di Lione, vol. XXII. Del Trattato
contro i Saraceni restano solo i due primi libri,
di quattro che erano, stampati dal MARTÈNE,
Ampliss. collect., IX, 1119.
58 Il diavolo in persona è quello che ispirò Maometto,
come attesta HuGo MONACO, ABATE FLAVINIACENSE
(1065-11409): « Die igitur quadam cum reverteretur
» ab auditorio, obviam habuit diabolum habentem
» 08 aureum, et dicentem se esse Gabrielem
» Archangelum, missum a Deo ad ipsum ut prae-
» dicaret gentis suae quae audierat et sciebat.
» Tune coepit praedicare Mahamet, ut derelin-
» querent idola manu facta et adorarent creato-
» rem, qui fecit quae sunt.... et regnavit in
» Damasco, et caput regni ejus Babylonia civitas
» fecit »: in Monum. Germ. Hist., VIII, 323. —
Bono GiaMBoNI nella Introduzione alle Virtù narra
(8 XLIV) come la perversa missione di dividere
e pervertire i fedeli, fosse, dopo un conciliabolo
di tutti i demoni e per consiglio di Mammone,
affidata a Maometto, e da essi fosse composto e
a lui affidato |’ Alcorano.
59 Un intero capitolo è dallo SPRENGER (II, 3/9 e segg.)
dedicato a ricercare colla scorta degli scrittori
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IN OCCIDENTE 263
musulmani e in specie dei commentatori ad alcuni
passi del Corano (V, 55; XXVIII, 44-53) chi fu
l’ istruttore di Maometto, cioè quale cristiano o
quali cristiani gli insegnassero la dottrina del-
l’ Evangelo. I più invero menzionano Bahîrà, o
Abraha l’abissino. BocHaRy ricorda un cristiano
che si convertì all’ islamismo e molte cose scrisse
pel Profeta, poi si rifece cristiano. IBN ’ABBAS
afferma che alla Mecca viveva un giovane cri-
stiano di nome Bileàm, che spesso fu visitato da
Maometto; ’IkrRiMmA narra che Maometto si faceva
spesso leggere i libri santi da ’Asch schiavo
cristiano; IBN IsHAQ menziona Gabr, e ABD ALLAH
BEN Mostim a Gabr aggiunge Yasar, presso i quali
spesso il profeta si fermava ad ascoltar la lettura
della Bibbia, sicchè gli avversarj lo rimprovera-
vano che si facesse istruire da costoro, ai quali
altri aggiungono Addas. Invece per MogaHID
quelli che ajutarono Maometto a comporre il
Corano furono giudei; e per Zory, Bahîrà stesso
era un giudeo di Taymà: vedi SPRENGER, Il, 387.
60 Sulle relazioni fra il giudaismo e il maomettismo,
vedi ABR. GrIGER, Was hat Mohammed aus dem
Judenth. aufgenommen? Bonn, 1833: sul qual libro
vedi un art. di SiLv. pe Sacy nel Journ. des
Savants, 1835, p. 162. Vedi anche HirscHFELD,
Judische Elemente în Koran, Berlin, 1878.
6! RENAN, op. cit., p. 213: « Mahomet doit au moins
» autant aux juifs, qu’ aux chrétiens ».
6° « Eo tamen scimus tempore, et anno praecipue mil-
lesimo centesimo quadragesimo uno, Judaeos
valde commotos et tumultuosos fuisse: quare
plurimi scriptores hac aetate contra Judaeos
extiterunt, Gislebertus scilicet Wintoniensis,
Rupertus Tuyensis abbas, Gislebertus Novigen-
tinus, Petrusque Blesensis »: DuPARAY, De Petri
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264
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
venerabilis vita et operib., Cabilloni, Montalan,
1857, p. 60.
63 Vedi BIBLIANDER, op. cit., I, 3: « Dedit Satan suc-
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cessum errori, et Sergium monachum bhaeretici
Nestorii sectatorem, ab ecclesia expulsum, ad
partes illas Arabiae transmisit, et monachum
haereticum pseudoprophetae coniunxit. Itaque
Sergius conjunctus Machumet, quod ei deerat
supplevit, et scripturas sacras tam veteris
Testamenti quam novi, secundum magistri sui
Nestorii intellectum, qui Salvatorem nostrum
Deum esse negabat, partim, prout sibi visum
est, ei exponens, simulque apocryphorum fabulis
eum plenissime imbuens, christianum nestoria-
num effecit. Et ut tota iniquitatis plenitudo in
Machumet conflueret, et nihil ei ad perditionem
sui vel aliorum deesset, adjuncti sunt Judaei
heretico. Et ne verus christianus fieret, dolose
praecaventes homini novis rebus inhianti, non
scripturarum veritatem, sed fabulas suas, quibus
nunc usquam abundat Machumet, Judaei insi-
bilant. Sic ab optimis doctoribus Judaeia et
haereticis Machumet instructus, Alcoranum
suum condidil, et tam ex fabulis judaicis quam
ex haereticorum naeniis confectam nefariam
scripturam barbaro illo suo modo contexuit »:
Epist. ad Domin. Bernard. Clarevall. abatem.
Cfr. ciò che scrive frate AnceLo PIENTINI da Cor-
signa nel suo libro Delle demostrationi degli errori
della setta macometana, dedicato al granduca Fer-
dinando (Firenze, Marescotti, 1688, pagina 12:
«
.... A questo 8’ aggiunse che trovandosi a punto
in quel tempo Sergio, monaco nestoriano, scac-
ciato dal monastero per non so che suo gran
misfatto, se n° andò in Mecca, là dove trovò molti
pagani e giudei, e desiderando di fare qualche
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IN OCCIDENTE 265
cosa per la quale potesse acquistarsi gran ripu-
tatione e gloria.... cercò d’indurce alla setta sua
e al cristianesimo quanti potea. Et parendo a
Macometto che fosse persona di gran valore e di
cui potesse meglio d’ ogni altro servirsi per l’in-
tento suo, mostrò di voler essere cristiano e
seguitare (come poi seguitò in molte cose) la
dottrina sua egli ancora. E... temendo certi giudei,
i quali erano parimente persone di molto valore,
che essendo diventato nestoriano, potesse pregiu-
dicare alla setta loro, se gli accostarono essi
ancora, e lo istruirono secondo la propria intel-
ligenza loro nelle scritture sante, come fatto avea
e facea continuamente Sergio secondo la sua. Di
modo che insieme egli veniva a partecipare con
gli idolatri, coi cristiani, ma eretici, e coi giudei.
Et di qui è, che nelle leggi sue, cioè nel suo
Alcorano, egli mette molte cose che mirano al
paganesimo, molte al christianesimo e molte al
giudaismo ».
6 La Disputatio, della quale tanto Si servì Pier di Cluny
e dopo lui, come vedremo, Vincenzo Bellovacense,
non dev’ esser cosa molto differente da un testo
arabo, pubblicato nel 1880 a Londra, dalla Turkisch
Mission and Society, e contenente una disputa
tenuta innanzi al califo Al Mamfn figlio di Harùàn
ar Ràsîd (786-834), che, come ognun sa, fu muta-
zelita, e perciò poco ortodosso. La parte del cri-
stianesimo vi è sostenuta da ’Abd al Massîh (il
servo del Messia) ibn Ishàq al Kindî. Egli narra
che Sergio monaco, scacciato e scomunicato, pro-
ponendosi di cancellar la sua colpa con qualche
generosa azione, si recò alla Mecca, dove trovò
Giudei e adoratori degli idoli. Cultore di questi
ultimi era Maometto, che in breve egli ridusse
cristiano nestoriano, suggerendogli di far passare
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266
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
le dottrine che gli insegnava per rivelazioni del-
I’ angelo Gabriele, e persuadendolo a mutare il
suo nome, com’ egli aveva mutato il proprio in
quello di Nestorio. Con ciò ei destò le ire dei
Giudei, contro i quali si volse Maometto, che
pendeva al cristianesimo, insozzato però del-
l’ eresia nestoriana. Ad ogni modo, la propaganda
cristiana progrediva, quando Maometto morì, e
sorsero i due giudei ’Abd Allah ibn Sall&àm e
Ka‘b, chiamato il dottore; i quali fingendosi
seguaci di lui, ne alterarono la legge, e favorendo
Alì contro Ab Bekr, n’ebbero il libro del Corano,
a cui fecero interpolazioni in senso giudaico.
Questo scritto arabo è stato tradotto e stampato
a Londra nel 1882 da sir William Muir col titolo
The Apology of Al Kindy written at the Court of
Al Maman (a. h. 215 = 830) in defence of Cri-
stianity. Il Muir nota nella prefazione che l’ opera
di Al Kindî è citata anche da Al Biruni, cronologo
arabo dei primi dell’ XI sec. Ambedue questi libri
mi furono gentilmente comunicati dal prof. Guidi.
6 « Instantibus itaque eisdem temporibus, missum fuit
» quoddam scriptum domino Papae, scilicet Gre-
» gorio nono, de partibus orientalibus per prae-
» dicatores, partes illas peragrantes. Quod, cum
» ad multorum audientiam pervenisset, error,
» immo furor Machometi prophetae Saracinorum,
» qui in eo descriptus est, cunctos commovit in
» sibilum et derisum. Haec autem suo loco, sci-
» licet anno DCXXII, quando pestis machometica
» suborta est, praeteraguntur »: p. 289.
6 Questa relazione, se non era la Disputatio, già nota
in Occidente per la traduzione di PiER DI CLUNY,
doveva esser qualche scrittura che molto le asso-
migliava: come il Libellus în partibus transmarinis,
del quale vedremo poi giovarsì il Bellovacense.
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IN OCCIDENTE 967
67 « Causa quidem praecipua, quare lex machometica
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invaluit, dicitur fuisse quidam monachus prius
christianissimus, Solius (var. in margine: Ser-
gius) nomine, qui propter haeresim excommu-
nicatus, extra omnem Dei ecclesiam fuit ejectus.
Ille in christianos vendicare se cupiens, perrexit
ad locum qui dicitur Thenme. Inde pervenit in
desertum Malse, ubi homines duobus modis
invenit credentes: maior enim pars erat hebraea,
minor pars idola colebat. Ibi cum ille Monachus
apostata et socer Machometh in unum conjun-
gerentur et pariter colloquerentur, amici facti
sunt. Mutavit autem monachum nomen suum,
vocavitque se Nestoreum. Pliurima itaque ora-
cula et testificationes ex Veteri Testamento et
Novo et ex dictis Prophetarum docuit illum, et
Machometh callide ad erroris sui firmamentum
annexuit: et ita a talium auxilio et suggestio-
nibus, coepit ille seductor super omnes tribus
exaltari. Erant autem rudes homines et inculti
ac simplices, et ad seducendum faciles, et car-
nales »: Historia Major, Parisiis, Pelé, 1644,
291.
quoniam magnus laqueus diaboli et profunda
fovea perditionis futurus erat homo ille, cum
rudis esset et illitteratus, providit ei mille artifex
Christianae religionis inimicus socios et coadiu-
tores erroris sui, qui eidem tamquam impietatis
instrumenta assisterent, et ipsum fallaciter
instruerent et in nequitia foverent. Quidam
enim monachus, homo apostata et kaereticus,
vir Belial, nomine Sosius, cum de execrabili
haeresi Romae fuisset publice convictus et con-
demnatus, et a fidelium consortio fuisset penitus
expulsus, fugit ad partes Arabiae, cupiens se
de molestia sibi facta contra Christianos vin-
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LA LEGGENDA DI MAOMETTO
dicare. Cum autem invenisset Machumetum, qui
jam aliquam habebat in populo suo praeminen-
liam, nec tamen a multis adhuc Propheta puta-
balur, coepit eum cum quodam Judaeo, qui
similiter ipsi Machometo adhaeserat, exbhortari
et admonere, quatenus sicut Moyses et Christus
legem dederunt populo suo et propter hoc ab
universis reputati sunt magni, ita et ipse, ut
magni nominis et summus Propheta haberetur,
consiliis et documentis ipsius Monachi et Judaei,
legem darent illi populo, cujus major pars idola
colebat et facile ad ejus doctrinam flecti possent.
Machometus autem, eorum perversis acquiescens
suggestionibus, ut majoris auctoritatis lex ejus
esse videretur, ex veteri et novo Testamento
ad argumentum erroris sui, predictis haeretico
et judaeo docentibus, quaedam adjunxit adin-
ventionibus propriis, quae suggerente diabolo.
de corde suo finxit etc. »: Hist. Hierosolimit.,
in BonaaRs, Gesta Dei per Francos, Hannov. 1611,
p. 1056.
6 « Eo tempore Mahumetus propheta Saracenorum
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surrexit. Fuit autem magus. Et quia epilepticus
ne perciperetur, dicebat se tunc loqui ‘cum
angelo quotiescumque caderel. A quodam etiam
monacho, nomine Sergio, apostata, ad deci-
piendum populum informabatur. Hic Mahumet
sive Mahometus traxit originem de Hysmaél, et
cum mercator esset pauperrimus, quamdam
divitem viduam, mentiens se Messiam, duxit
uxorem. Et cum dicta mulier doluisset se epi-
leptico nupsisse, dixit ipse, se cum Gabriele
archangelo loqui, et quod tamquam carnalis
homo non valens sustinere ejus splendorem,
deficiebat et cadebat. Credidit hoc mulier, et
» omnes Arabes et Ismahelitae, quibus coepit
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IN OCCIDENTE RI
novas leges fingere, ipsis legibus devotionis
testamento fidem adhibentes, eumque suum
legislatorem esse profitentur.... Jesum Christum
Dominum nostrum credunt de Maria Virgine
conceptum et natum: quem sine peccato vixisse
et prophetam et plusquam prophetam prote-
stantur.... et vivum ad coelos ascendisse non
discredunt. Unde quando, tempore treguarum,
sapientes eorum Jerosolymam ascendebant,
codices evangeliorum sibi postulabant, eos
exosculantes et venerantes.... Lex autem illo-
rum, quam, diabolo dictante, ministerio Sergii
monaci apostatae, ab haeretico Mahometo Sara-
ceni habent arabice scriptam, a gladio coepit,
per gladium tenere animabitur, etc. »: Chronica,
Antverpiae, Plantin, 1574, p. 273.
7 « De Mahumet pseudopropheta pauca locutus est
» (Anastasio), sed quibus temporibus fuit, lucide
» designavit »: in Mon. Germ. Hist., IX, 307.
7# La colomba diventa un uccello meraviglioso « par
les pieres et l’ or » in una redazione de La ven-
geance de Jésus-Crist della Nazionale di Torino,
riferita da A. GRAF (Giorn. St. Lett. It., XII, 204).
L’ uccello, scongiurato da Nerone, porta Machon
al cospetto di lui e di Tito suo figlio in Roma.
Ivi, drizzato un « eschafaut », si fa a predicare,
non si sa bene se la nuova o l’antica fede, finchè
vien -dall’ uccello ricondotto alla Mecca, dove
muore ed è sospeso, per la virtù dell’ amianto,
fra cielo e terra. Il GRAF definisce tutto ciò per
« guazzabuglio », e non merita altro nome.
La leggenda della colomba viveva anche fin
presso ai dì nostri fra la plebe romana, ma appro-
priata a San Gregorio taumaturgo, confuso con
San Gregorio Magno, la cui immagine si dipingeva
con Jo Spirito Santo in forma di colomba all’orec-
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LA L:GGENDA DI MAOMETTO
chio, in atto di ispirargli e dettargli ciò che scri-
veva: vedi il BeLLI (edizione Morandi, IV, 293):
Va spargenno pe’ Rroma un framasone
Ch’ er papa San Grigorio taumaturgo
Era un furbo e un maestro di fiuzione,
E pprotenne quell’ anima de turco
Che in ne l’orecchia, pe’ cchiamà er piccione,
Ce se metteva un vago de granturco,
* Dei due disputanti, dice il Bellovacense, certamente
togliendolo da Pier di Cluny, che ambedue erano
familiari e noti a Emirhilmomini re dei Saraceni.
Probabilmente si deve intendere Emir al Momini
e scorgervi il califo AI Mamfn, davanti al quale
AI Kindî disputò, come vedemmo, in difesa del
cristianesimo.
78 Così certo per errore: meglio Matteo Paris: Thenme
(= Tehama).
7 « Discipulus ei factus est Machomet, et ille se, propter
» hoc, Nestorium nuncupavit »: Spec. RQistor.,
XXIII, c. 5I.
© '['soFANE aveva parlato in genere di dieci giudei:
qui il numero è indeterminato; e secondo l’ indole
dei tempi, ai giudei avversa, è a questi imputato
tutto ciò che l’ Alcorano contiene di perverso, e
di contrario al cristianesimo. Più che al monaco,
nestoriano ed eretico, la colpa spetterebbe dunque
ai giudei. L’ asserzione è ripetuta anche dal Car-
DINAL DE Cusa nella sua Cribratio Alcorani, che,
citato il nobélis arabus christianus, autore della
Disputatio, conclude: « Videtur igitur quod Machu-
met ab initio fundatus fuit per Sergium ut esset
christianus, et legem illam servaret. Ab illa via
non potuerunt Judaei ipsum amovere, sed, ut
quantum possent retraherent, addiderunt illa
per quae videretur propriae sectae propheta, et
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IN OCCIDENTE 271
» veteri Testamento non minus quam Evangelio
» fidem dare.... Fertur supranominatos Judaeos
» se Machumet conjunxisse, ut impedirent ne per-
» fectus fieret christianus »: in BIBLIANDER, II,
33, 39.
76 Spec. histor., lib. XXIII, cap. 39-61.
© Il Tractatus di GuaLiELMO DI TRiIpPoLI fu per la prima
volta pubblicato dal dott. Hans PruTZz, della cui
già citata opera Kulturgeschichte d. Kreusziùge, e
della ricca bibliografia che soggiunge al cap. Die
Vorstellungen des christlichen Mittelalters von
Mohammed und seiner Lehre (p. 72 e segg., 543
e segg.) mi sono molto giovato; e qui mi piace
attestarlo. |
78 È curioso che di tal venuta di Maometto a questo
monastero affermata dalla tradizione, e della rive-
lazione ivi concessa a un monaco della missione
del profeta, si giovassero posteriormente coloro
che vi dimoravano, per ottenere privileg) ed esen-
zioni dalla Porta, come il QuaRESMIUS attesta per
averlo saputo sul luogo: « Addam hic quod in
» partibus istis audivi, Sergium dicunt fuisse, mo-
» nachum montis Sinai: idque monachi ejus loci
» fatentur, et insuper addunt, cum aliquando Maho-
» metes camelos ageret cum mercatorum sodalitio,
» supra illum, licet ceteris inferior esset, magnam
» apparuisse aquilam extensis alis, dictumque tune
» fuisset ab uno ex monachis illis, magnum eum
» futurum esse, ab eoque petiisse, et sublimatus
» et ad principatum evectus, locum Sinai eximeret
» a tributis. Risisse Mahomelum, sed annuisse
» petitioni: cumque super hoc singrapha ejus depo-
» sceretur, quod scribere ignoraret, manu in atra-
» mento intineta, veluti chirographi effigie chartae
» impressisse: quam accipientes Sinaitas mona-
» chos, ejus beneficio a vectigalibus Turcarum
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279 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» imperatori solvendis liberos evasisse: atque ho-
» dierno tempore chirographum illum Costantino-
» poli penes Turcarum imperatori asservari »:
Historica theolog. et moral. Terrae Sanctae Eluci-
datio, Autverpiae, ex offic. Plantiniana, 1639, I, 129.
? « Dum scilicet sancti patres christiani in civitatibus
» et desertis, tamquam firmamenti sidera, Egypium
» et mundum illuminantes splendorem Deo et homi-
» nibus et odorem darent, extitit quidam religiosus
» vir christianus, simplex sed vite austere, nomine
» Bahayra, reclusus in quodam monasterio sito
» in deserte Arabie via, que ducit Arabes ab Ara-
» bia Mechana, relinquendo Mare rubrum ad Leu-
» cam, ultra montem Synay. Ad prefatum quidem
» monasterium, ubi clausus morabatur Bahayra,
» tamquam ad stationem et terminum unius diete
» coiebant frequenter mercatores itinerantes Syri,
» Arabes et Egiptii, Christiani et Sarraceni, inter
» quos venientes erat quidam ad dictum mona-
» sterium, qui futurus erat in gentem magnam et
» robustissimam, per quam Christi ecclesia esset
» multum affligenda. Et hec revelata fuerant dicto
» Bahbayra recluso, propter quod vehementer ipsum
» desiderabat venturum et eius cotidie prestola-
» batur adventum. Venit itaque dies, et ecce mer-
» catorum caterva quam Arabes dicunt dafela, ad
» dictum pervenit monasterium. Rogantur merca-
» tores venire ad reclusum, sed vir requisitus
» minime invenitur. Adveniunt postea mercatorum
» famuli, et omnes qui custodiebant camelos, et
» divina revelatione invenitur qui querebatur, puer
» videlicet orphanus, egrotativus, pauper et vilis,
» custos cameli, natione Arabs, de genere Ysmaelis,
» de quo dictum est Genes., XVI: Hic erit ferus
» homo, manus ejus contra omnes, et e regione
» omnium fratrum suorum figet tabernacula sua»...
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IN OCCIDENTE 973
« Hic ponunt Sarraceni primum miraculum, quod
» Deus operatus est, ut dicunt, pro famulo suo
» adhuc parvulo, dicentes quod parva porta curie
» monasterii, per quam transibat, ad presentiam
» pueri, dum vellet intrare parvulus, ita divino
» nutu crevit dilatata et arcualiter exaltata est, ut
» curie imperialis videretur hostium aut introitus
» domus regie magestalis. Recipitur tandem puer
» a religioso Bahayra, tamquam filius dilectus
» tractatus, pascitur, induitur, ab omnibus ample-
» ctitur, et filius adoptivus nominatur reclusi, in-
» struitur et docetur, ut fugiat ydolorum culturam,
» et unum Deum colat, et Jesum Marie virginis
» filium invocet toto corde. Verumptamen fratres
» monasterii predicta facientes puerum retinere
» non potuerunt, quem demiserunt abire, spon-
» sione ad eo recepta, quod ad ipsos reddiret.
» Adherebat quidem puer diviti mercatori, quem
» suum reputabat et vocabat alumpnum. Crevit
» itaque puer etate, prudentia et industria et cor-
» poris pariter elegantia. Merces vero domini sui
» factus adolescens tamquam mercator portabat
» fideliter et augebat, et ad magistrum suum me-
» moratum reclusum frequentius et deortus venie-
» bat. Moritur tandem dominus adolescentis, dives
» et peccuniosus valde industria et probitate ado-
» lescentis. Quem videns, relicta ejus elegantis
» forme et felicis fortune in maritum assumpgsit;
» mutatur famulus in dominum, impinguatus,
» incrassatus, dilatatus opibus, familia et parenti-
» bus... Munera offerentur et promittentur obse-
» quia, multiplicantur amici, et fiunt ei domestici
» plurimi, quorum primus erat ejus avunculus
» nomine Hely, qui dicti Machometi filiam, nomine
» Fatimam, consanguineam postmodo accepit in
» uxorem. Sic ab omni sua gente cepit honorari
D’ ANCONA - II 18
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974
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» et primus vocari et tamquam dominus et magi-
» ster venerari. Decem elegit sodales, quorum pri-
» mus erat Ebotherer, nomina vero aliorum latine
» scribi non possunt. Congregantur ad eum familie
» Arabum habitantium in desertis Arabiae meri-
» dionalis... Crevit itaque Machometus, et crevit
» globus, agmen et robur ejus, ceperunt eum timere
» provincie et provinciarum reges, etomnes populi,
» principes et omnes terre judices. Ad predictum
» magistrum suum Bahayram frequentius venie-
» bat, et in veniendo et moram faciendo apud
» ipsum sodales gravabat, quem tamen ipse liben-
» ter audiebat et multa pro eo faciebat. Ob quam
» causam sodales cogitaverunt Bahayram interfi-
» cere, sed timebant magistrum. Accidit igitur
» quadam nocte, ut gravati longa collatione, qua
» tenuit magistrum reclusus, cum cernerent magi-
» strum temulentum, pugione ipsius Machometi
» iugulavernnt virum sanctum nocte illa, impo-
» nentes eidem magistro quod nimia ebrietate alie-
» natus suum interfecerat magistrum et auctorem.
» Mane autem facto, dum Machometus sanctum
» virum quereret licentiam accepturus et dicturus
» vale, inveniens ipsum mortuum vehementer con-
» tristatus cepit querere homicidas, et cum argue-
» retur a sodalibus tamquam auctor sceleris ebrio-
» SUS, credens verum esse quod dicebant, conscius
» quod ebrius extiterat nocte illa et videns pro-
» prium gladium cruentatum, contra ebrietatem
» et vinum ebrietatis causam maledixit omnes vini
» potitores, venditores et emptores; ob quam cau-
» sam Sarraceni devoti vinum non bibebant nec
» bibunt, Racabitarum more. Mortuo itaque Ba-
» hayra christiano, quasi freno soluto, Machometi
» caterva laxat malicie frena: discurrunt ut pre-
» dones, raptores rapiunt, mactant et perdunt pro-
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IN OCCIDENTE 275
» vincias perturbantes et regna, usque ad mortem
» ipsius Machometi ».
80 S. PETRI Pascasii MARTYRIS etc., Opera, Metriti,
1674, p. 7.
84 « Monachus quidam valde doctus et sapiens, peritus-
» que artium liberalium, ambitiosus honoris ina-
» nisque gloriae cupidus, pervenit in Romam; sed
» cum videret quod illic consequi quod appetebat
» non posset, confusus et verecundus, in corde
» proposuit suo iniquum aliquid contra Romanam
» Curiam moliri, sicque inter christianos divisio-
» nem seminavit et schisma. Et quia in Baruch
» prophetia legerat, quod populi ab Agar descen-
» dentes futuri erant mobiles, vani, mutabiles,
» fabulatores, vaniloqui, loquaces, et exquisitores
» sapientiae rerum terrenarum, avidique rerum
» temporalium, mare trajecit et perrexit ad Arabiae
» terras et loca, ubi dictos populos ab Agar et Ismael
» ejus filio descendentes, sciebat habitare... Et
» praedictus Monachus potest esse quod natus sit
» in illa Mauria majori, ubi sunt Athiopes, nam
» falsus et fallax ille in omnibus suis factis et ver-
» bis erat, sicque false et fallaciter se a principio
» gessit in quibuscumque manum imposuit etc. »,
p. 52. — Vedi anche la Cronique de JEAN D’ OUTRE-
MEUSE, cit. da V. CHAUVIN, op. cit. p. 181.
82 « In Maurorum libris scriptum est, quemdam Chri-
» stianum, nomine Sergium, in Mahometum'et in
» cjus sectam cecidisse: hic autem Sergius agilis
» valde, acutus et perspicax erat ad grassandum
» et latrocinamdum, et melius quam alius sequen-
» tium Mahometum, semitas et tramites, vias et
» arenas cognoscebat, et quando ad furandum,
» diripiendumque pergebat, praestigiis utebatur
» et subtus arenam defodiebat ‘ abscondebatque
» struthionum ova, aqua plena, et quando cum
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2/6
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» camelis, quos furatus grassatusque erat, redibat,
» ille suique socii ex illa aqua quam defoderat et
» absconderat, bibebant: et qui illos sequebantur,
» redibant, non enim audebant pergere post illos,
» quia bene cognoverant in illis arenis aquam, nisi
» post multa dierum itinera, non inveniri. Et mira-
» bantur, quomodo non siti peribant, et quomodo
» vias et semitas in illis arenis cognoscere pote-
» rant; ideoque multi redibant, et Mabometi sectam
» sequebantur, et propter damna vitanda, quae a
» Mahometi sectatoribus accipiebant, et propter
» mira et numquam visa quae tum videbant et por-
» tenta judicabant miraculoque attribuebant. Et in
» hoc Sergio intelligere potestis et cognoscere, qui
» et quales fuerint Christiani. Judaei et Gentiles
» qui primum sunt Mahometum secuti: qualesque
» etiam sibi accepit apostolos, et quomodo illos
» in corporum animarumque salutem praedicare
» docuerit etc. », p. 22.
8 « Invento igitur quodam monacho christiano, sed
» secta nestoriano, vel ut alii quidam ferunt, quo-
» dam Clerico, qui ab Ecclesia turbatus abscesserat,
» eo quod in ea non fuerat assecutus honorem,
» quo dignum se esse credebat, qui dissertitudine
» suae linguae ad se plurimos attrahebat, ei fami-
» liaris effectus, in brevi ab ipso edoctus est de
» novo et veteri Testamento ».
84 Gesta Imperat. et Pontif., nei Monum. Germ. Hist.,
XXII, p. 4933.
8 « Putant enim quidam, hunc Nicolaum, illum unum
» de ex sepiem primis diaconibus fuisse, et Nico-
» laitarum ab eo dictorum Secta, quae etiam in
» Apocalypsi nominatur, hance modernorum Sara-
» cenorum legem existere. Somniant et alii alios,
» et sicut lectionis incuriosi et rerum gestarum
» ignari, sic et in aliis casibus, falsa quaelibet
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IN OCCIDENTE 977
» opinanlur. Fuit autem iste, tempore Imperatoris
» Heraclii etc. »: Epistol., lib. IV, in Max. Bibl.
Patr., ediz. Lione, XXII, 919. Le stesse cose,
quasi colle stesse parole, ripete PieR Di CLUNY
nella Summula (ibid., 1031 e sgg.), aiutandosi col
testimonio storico di Anastasio bibliotecario.
8 Op. cit.. p. 216.
87 RENAN, Averrois et Vl’ Averroisme, Paris, Lévy, 1861,
p. 305.
88 Secondo avverte il BAanpINI, Catal., II, 393, era scritto
dapprima Saguino, corretto poi, d’antica mano,
in Siguino.
89 Su AyMERIco autore di una Ars lectoria sive de quan-
titate syUabarum dedicata al vescovo Ademaro,
vedi l’ Hist. littér. de la France, VIII, 472, che lo
assegna al sec. XI. Vedi anche BANDINI, Catal.,
I, 168, II, 393.
9 Debbo al carissimo discepolo ed amico prof. Fran-
cesco Novati la comunicazione di queste impor-
tanti notizie dei codici laurenziani.
% Narrazioni del Vespro Siciliano, Milano, Hoepli, 1887,
pp. XVIII, XXII, XXV, XXXIV.
9? ZioLkicKI, p. XXXIII: « auf ober-Italien ».
9 {1 brano relativo è riassunto dal RoBeRT, Fables
inéd. des siécles XII, XIII et XIV s., Paris, Cabin,
1825, 1, CXLV.
% ROBERT, p. CXXXIII e sgg.
9 Il cod. è segnato: Fonds latins 14503, e il Liber vi
si legge f. 352 r.0. Ne trovammo menzione nel
Prutz, op. cit., p. 917. Ci fu gentilmente trascritto
dall'amico dott. Teodoro Batiouchkoff, al quale
rendiamo pubbliche grazie di tal favore.
96 Quanto all’arca sospesa è da sapere che, secondo le
credenze popolari siciliane, ci sarebbe un modo di
togliere ogni virtù alla calamita, che la sostiene:
« prendere un aglio, romperlo e buttarlo addosso
Google
978 LA LRUGENDA DI MAOMETTO
» alla cassa, perchè l’ aglio è contro alla calamita.
» Ma chi può arrischiarsi di far questo, là nel
» tempio di Maometto? »: Pitri, Fiube, Nov. e
Racc. popol. Sicil., Palermo, Pedone, 1875, IV, 2.
97 Nella Biblioteca del Seminario di Pisa v’ ha un’altra
versione (cod. 50) della leggenda di Nicolao, di
lezione erratissina, che mi fu fatto conoscere dal
sempre rimpianto alunno Camillo Vitelli (v. il suo
Index codd. latinor. in Biblioth. S. Cather., negli
Studi di Filol. class., VIII, 1900). In essa è più
precisato il tempo: « in diebus apostolorum » e
» post obitum beati Clementis papa qui tercius
» a Petro beato rezxit chatedram ». Per le sue dot-
trine eretiche, nelle quali aveva per discepolo un
« Maurus ». fu Nicolao chiuso a Roma in una
torre, dove perì. Ma il discepolo si recò in Spagna
e in Arabia, eleggendo a sua dimora un monte,
donde un giorno vide e chiamò a sè un giovane
di nome Maometto, conduttore di cammelli, pro-
mettendogli in cambio di questo, l’ însegnamento
di una scienza che lo innalzerebbe su tutti, nella
quale, aiutando a ciò il diavolo, egli divenne per-
fetto. Seguono poi le note astuzie del torello, della
colomba, ecc., finchè le turbe ingannate lo salu-
tarono verace « prophetam Christi », poiché egli
si professava « christianus et Christi servus ». Così
fondò una nuova legge, finchè invaghitosi di una
bella ebrea, questa, consigliatasi coi suoi, lo fece
da essi uccidere, dandolo in pasto ai porci, ma
facendo credere ai devoti di lui che gli angeli eran
venuti a rapirlo; essa lo aveva conteso alla loro
forza, e glie ne era rimasto in mano il solo piede
sinistro. La fiaba del piede è anche in S. Pier
Pascasio, p. 87. Maometto, egli racconta, si era
innamorato di una giudea, che accordatasi co’ suoi
Google
IN OCCIDENTE 979
correligionarj di ucciderlo, lo invitò a passar seco
una notte. Dopo ch’ ei fu ucciso, gli troncarono
il piede sinistro, e il corpo fu divorato dai porci,
sicchè nulla ne rimase. La donna conservò il
piede e lo cosparse di preziosi unguenti, e ai
seguaci di Maometto, che non più trovandolo
vivo, andavan dicendo esser egli stato rapito,
mostrò quella reliquia, narrando che mentre Mao-
metto con lei giaceva, due Angeli l’ avevan preso
per le braccia ed essa lo teneva pel piede, e così
stettero a tirarselo sino all’ aurora, finchè quello
si staccò e le rimase in mano. Queste cose Pier
Pascasio dice di aver trovato « in libro quodam
» latino » che gli fu dato, e nel quale se ne rin-
vengono molte altre che pur sono negli scritti
degli Arabi: « ex quo infertur quod historia prae-
» dicta vera Sit ».
9 Il padiglione di Foresto, dall’ Attila Flagellum Dei,
poema di Niccorò pa CasorLa bolognese, Imola,
Galeati, 1871, p. 6. Pubblicazione fatta per le mie
nozze dal carissimo discepolo ed amico prof. Fran-
cesco D’ Ovidio.
99 Cfr. il brano del Renaut le contrefaît, in CHAUVIN,
op. cit., p. 217 e in E. DouTTÉ, Makhomet cardinal,
Chélons-sur-Marne, Martin, 1899.
100 Erra il sig. ZioLEcKI, p. XXXIII, quando assevera
che le Chiose dantesche laurenziane sono la fonte
del Casola; in quelle invero, i cardinali negano
la tiara a Nicolò « vedendolo superbo »: qui,
perchè ne anderebbe di mezzo la propagazione
della fede.
101 Il GRrAF nello scritto cit., pp. 209-10 reca in propo-
sito altri autori del sec. XIV, che riproducono la
leggenda di Niccolò: cioè l’ autore del Libro Impe-
riale e il Pucci nello Zibaldone.
Google
280
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
10° Nella stampa si legge così:
Quel Machometto fu prima cristiano,
Poi rinnegò la nostra fede santa,
Perchè e’ fu promesso a quel villano
D’esser fatto pastor di gente tanta.
Ateso non gli fu a mano a mano,
E però predicò sua legge afranta,
Onde n’à facti perir tanti al mondo,
Che mai di tal affar sarà giocondo.
103 Cod. della Nazionale di Firenze, Palch. II, 31 Strozz.,
del quale debbo la comunicazione al discepolo e
amico prof. Pio Rajna.
104 Dal ms. Riccard. 226, per comunicazione del disce-
polo e amico dott. F. Pintor.
105 Il Meschimo, altramente detto il Guerrino etc. Vene-
zia, Sessa, MDLX.
106 Vi deve però essere qualche glossa, oltre quella che
107 «
citiamo di Giovanni Andrea, ove si trovi epres-
samente il nome di Niccolò, dacchè l’ ItTIGIUS
negli Act. Erudit. Lips., 1690, serive: « Glossa-
» torem autem corporis canonici qui Nicholam,
» Mahometum fuisse dicit etc. ». L'errore del glos-
satore è stato dunque questo di confondere Mao-
metto con Niccolò: non, come gli rimproverò il
BayLe, art. Mahomet, not. X, di ayer fatto Mao-
metto capo dei Nicolaiti.
In Historia ecclesiastica legitur Machometum nu-
» tritum fuisse a quodam clerico nobili romano,
» qui, cum tempore Bonifaci p. p. quarti quaedam
» petita impetrare non potuisset, apostatavit a fide,
» et nutrivit illum cum quadam columba alba, quae
» recipiebat grana de aure ejus, et sic erudita
» per hoc quod, quando volebat Machometus, illa
» ponebat in publico os ad aurem, et sic dicebat
» quod Spiritus Sanctus alloquebatur et instruebat
Google
»
»
>»
IN OCCIDENTE 281
illum: iste, postmodum dedit legem Saracenis,
ut haec in historiis ecclesiasticis uberius repe-
riri possunt ».
108 FRANCESCO PEGNA così annota a p. 306 del Director.
Inquisitor. di NicoL. EyMERIcus, Romae, 1587:
Vv % % % V A
% ÙV V Y V V ©“ % % % V % % V “ % %
Nullo modo verum est quod scribit glossa in
Clement. de Jud. et Sarac., in verbo Macho-
metum, dicens ipsum nutritum fuisse a quodam
clerico nobili romano, qui cum tempore Boni-
facii p. p. IV quaedam petita impetrare non
potuisset, apostatavit a fide, et Mahometum con-
veniens, eum nutrivit. Rursus id etiam est fabu-
losum quod quidam tradunt, videlicet Mahome-
tum fuisse quemdam clericum christianum, de
Bononia civitate Italiae oriundum, qui postea a
fide catholica apostatavit. Tametsi autem per-
fidus hic Mahometus haereticus non fuerit, cum
christianam religionem numquam susceperit, nec
fuerit baptizatus, merito tamen ab aliquibus,
velut a Lutzemburgo et Prateolo, inter haere-
ticos numeratur, nam omne haeresum venenum,
quod diabolus in multos sparsim haereticos olim
disseminavit, in hunc impurum et bestialem
Mahometum simul comprehensum videtur... Hic,..
ut quidam tradunt, decem socios habuit, septem
Arabes, Christianos tres, qui a fide recesserant,
quorum princeps Sergius monachus arianus
fuisse memoratur, qui librum legum nomine
superbissimo Alchoranum appellatum, idest Lec-
tionem, inchoavit, ei lohannes nestorianus, qui-
bus supervenit Iudaeus thalmudista ». Questa
ultima notizia potrebbe essere attinta dal Sup-
plemento delle cronache universali del mondo di
FiLippo Da Bkraamo che scrive: « Si dice che
»
»
M. componesse l’ Alcorano con l’aiuto di Gio-
vanni d’Antiochia eretico, di Sergio ariano e
Google
282 IA LEGGENDA DI MAOMETTO
» d'un certo altro giudeo astronomo (ediz. Vene-
» zia, [S1, p. 336) »..
‘9 In una glossa marginale ad un codice della Historia
Hierosolimitana, che di mano del sec. XV incip.
conservasi in Siena (G. VI, 2 cart. 59 sgg.) si legge
quanto segue, comunicatomi dalla gentilezza del
bibliotecario dott. F. Donati: « Tum Nicolaus
» Aymerici in libro qui dicitur Directorium Inquisi-
» fionis. par. 2, quaest. 21, dicit ipsum bononiensem
» fuisse origine, et clericum apostatam. Cronica
» autem Martiniana in c. Eraclii imperatoris non
» ponit ejus originem, sed dicit quod a quodam
» monacho, nomine Sergio apostata, fuit infor-
» matus. In Historia autem Ecclesiastica, ut refert
» Jo. An. in Glossa Clementinarum, idest de
» Judeis et Sarracenis, legitur quod Macometus
» fuit initiatus a- quodam clerico, nobili romano,
» qui apostatavit a fide, tempore Bonifacii papae
» quarti. Unde possent predicte opiniones concor-
» dari, ut Macometus fuit arabs, sed instructor
» ejus fuit bononiensis, sed denominetur etiam
» romanus, quia Roma est Caput Italiae ».
110 La livres dou Tresor, ediz. Chabaille, p. 83.
{ti SunDBY, traduz. Renier, p. 382. Questo testo va con-
frontato con quello offertoci dal Fioretto di Cro-
nache degli Imperatori, Lucca, Rocchi, 1858.
11? « Huius Bonifacii tempore, mortuo Phoca et regnante
» Heraclio, cirea annum domini DCX, Magumeth,
» pseudo propheta et etiam magus, Agarenus sive
» Ismaelita, id est Saracenus, hoc modo decepit,
» sicut legitur in quadam Hystoria ipsius et in
» quadam Chronica. Clericus quidam valde famo-
» SUS, cum in romana curia honorem quem cu-
» piebat, assequi non potuisset, indignatus ad
» partes ultramarinas confugiens, sua simulatione
» innumerabiles ad se attraxit, inveniensque Ma-
Google
A
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%v X *% “% VV Xx x V % % % 4 % % % % % % %
»
IN OCCIDENTE 983
gumeth dixit ei, quod ipsum illi populo praefi-
cere vellet, nutricusque columbam grana et alia
hujusmodi in auribus Magumeth ponebat. Co-
lumba autem supra ejus humeros stans de auri-
bus Magumeth ponebat. Columba autem supra
ejus humeros stans, de auribus eius cibum sibi
sumebat, sicque jam adeo assuefacta erat, quod,
quandocumque Magumeth videbat, protinus su-
per bumeros ejus prosiliens, rostrum in ejus
aure ponebat. Praedictus igitur vir populum
convocans dixit, se illum sibi velle praeficere,
quem Spiritus Sanctus in specie columbae mon-
straret, statimque columbam secrete emisit, et
illa super humeros Magumeth, qui cum aliis
adstabat, evolans, rostrum in ejus aures appo-
suit. Quod populus videns Spiritum Sanctum
esse credidit, qui super eum descenderet, ac in
ejus aure verba Dei inferret, et sic Magumeth
Saracenos decepit, qui sibi adhacrentes regnum
Persidis ac Orientalis imperii fines usque ad
Alexandriam invaserunt. Hoc, quidem vulga-
riter dicitur : sed verius est quod infra habetur ».
113 « Magumeth igitur proprias leges confingens, ipsas a
»
»
»
»
»
è
»
»
»
»
»
»
>»
Spiritu Sancto in specie columbae, quae saepe
vidente populo super eum volabat, se recepisse
mentiebatur, in quibus quaedam de utroque
‘Testamento inseruit. Nam cum in prima aetate
mercimonia exerceret et apud Aegyptum et Pale-
stinam cum camelis pergeret, cum christianis et
judaeis saepe conversabatur, a quibus tam No-
vum quam Vetus didicit Testamentum. Unde
secundum ritum Judaeorum circumciduntur Sa-
raceni, carnes porcinas non comedunt. Cujus
rationem cum vellet Magumeth assignare, dixit
quod ex fimo cameli porcus post diluvium fuerit
procreatus, et ideo tamquam immundus a mundo
Google
284 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
populo est vitandus. Cum christianis aulem con-
veniunt, quod credunt unum solum Deum omni-
potentem omnium creatorem. Asseruit etiam
pseudopropheta, vera quaedam falsis immiscen8,
quod Moyses fuit magnus propheta, sed Chri-
stus major est, summus prophetarum natus ex
Maria Virgine, virtute Dei absque semine homi-
nis. Ait quoque in suo Alchorano, quod Chri-
stus, cum adhuc puer esset, de limo terrae
volucres procreavit: sed venenum immiscuit,
quia Christum non vere passum nec vere resur-
rexisse dixit, sed alium quemdam hominem sibi
similem hujusmodi egisse vel passum esse do-
cuit. Quaedam autem matrona, nomine Cadi-
gan, quae preerat cuidam provinciae, nomine
Corocanica, videns hominem Judaeorum et Sara-
cenorum contubernio vallari, existimabat in illo
majestatem divinam latere, et cum esset vidua,
ipsum in maritum accepit, et sic Magumeth totius
illius provinciae obtinuit principatum. Ille autem
suis praestigiis non solum praedictam dominam
sed etiam Judaeos et Saracenos demum adeo
demutavit, ut se Messiam in lege promissum
publice fateretur. Post hoc vero, Magumeth coe-
pit frequenter cadere in epileptica passione.
Quod Cadigan cernens plurimum tristabatur, eo
quod impurissimo homini et epileptico nupsisset.
Quam ille placare desiderans talibus eam ser-
monibus demulcebat, dicens: Gabrielem archan-
gelum frequenter mecum loquentem contemplor,
et non ferens splendorem vultus ejus in me deficio
et tabesco. Quod sic esse, mulier et caeteri cre-
diderunt ».
144 Quest’altri che fa il maestro di Maometto « Antio-
chiae Archidiaconus et jacobita », potrebbe essere
Pietro ALronso (1062-1106), che in tal modo ne
% % YV % % VV V VV * % x UV V % % % % % % V % % wv v % % V % Y v
v
Google
IN OCCIDENTE 985
parla: vedi il suo Dialogus, lib. V nella Bibl. Patr.,
(ediz. Lione, XXI, 198).
115 « Alibi tamen legitur, quod fuit quidam monachus,
» qui Magumethum instruxit, nomine Sergius, qui
» in errorem Nestorii incidens, dum a monachis
fuisset expulsus, in Arabiam venit et Magumetho
adhaesit; licet alibi legatur, quod fuit archidia-
conus in partibus Antiochiae degens, et fuit,
ut asserunt, jacobita, qui circoncisionem prae-
dicant, Christumque non deum sed hominem
tantum justum et sanctum, de Spirito sancto
conceptum et de virgine natum affirmant. Quae
omnia Saraceni affirmant et credunt ».
146 Legenda aurea, recens. Th. Graesse, Lipsiae, ‘1850,
capit. 181. Molto probabilmente dal Varagine trasse
ciò che dice su Maometto l’autore del Liber de
ftemporibus (Bibliot. Estense, VI, H, 5), c. 73, che
il c. Ippolito Malaguzzi, archivista di Stato a Mo-
dena, al quale debbo il brano relativo al nostro
argomento, ha provato essere il notaio reggiano
Alberto di Gerardo di Miliolo, contemporaneo ed
amico di fra Salimbene. I due testi combinano fra
loro quasi esattamente. Nel sec. XV, S. AnTONINO
riprodusse pure dal Varagine le notizie su Mao-
metto nella sua Ckronica, ediz. giuntina, Lione,
1568, I, 367; II, 350; e altrettanto fece |’ autore
dell’ Epitom. bellor. sacror. del 1422 (in Canisius
Antig. lection, Amsterdam, 1725, IV, 434-492). Tra-
duzione quasi esatta del testo del Varagine è la
Storia di Maometto e della sua legge, che Fn. Zam-
BRINI tolse dal cod. magliab. XXXV, 169, e nel 1858
pubblicò a Bologna, Tipogr. delle Scienze.
117 Questo è probabilmente Abd-Allah ben Salem, dotto
giudeo (v. SPRENGER, I, 654), che ajutò Maometto
colle sue conoscenze bibliche.
148 Confutatio legis a Mahum. Saracen. latae, in BIBLIAN-
Vv VU Vv ‘* %* “XV % %
Google
286
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
pER, op. cit., vol. III, p. 139. Così porta il testo
stampato dal BiBLIANDER e riprodotto dal MIGNE,
Patrol. graeca, vol. CLIX, p. 1139, che non però
è l'originale. Invero la Confutatio fu alla fine del
sec. XIV tradotta in greco da Demetrio Cidonio,
e poi alla fine del XV questa traduzione fu rifatta
latina da Bartolomeo da Monte Arduo. Il codice
riccard. 3207, che erroneamente è detto contenere
Excerpta dai libri di Ricoldo, mentre invece con-
tiene l’intera Confutatio, riferisce così il passo:
« Naphe & cohomar & homra & elressar & asser
>» et filius lietar et filius amer » (fol. 25 v°). A p. 106
della stampa del Bip.1ANDER, Baira è detto Maphyra
jacopita; e si ricordano Salonus persa e Abdala
già Perside e Selam giudeo: ma a p. 140: « Baira,
» Phinees, Audia nomine Salon, Andala dictus et
» Selem ». Altre differenze presenta un altro libro
di Fra Ricoldo, cioè il Liber peregrinacionis, stam-
pato dal LAURENT, Peregrinatores medii aevi qua-
tuor, Lipsiae, Heinrichs, 1864, p. 149: « Certissimus
» est quod Machometus habuit tres pedagogos,
scilicet duos Judaeos, quorum nomen unius
Salon Persa, et nomen alterius Aabdalla, quod
interpretatur servus Dei, filius Sela. Et ipsi
facti sunt Saraceni, et docuerunt ei multa de
veteri Testamento et multa de ‘Talmud. Alius
autem fuit monachus, et nomen ejus Bahheyin,
jacobinus, qui dixit ei multa de novo Testa-
mento, et quedam de quodam libro de infancia
» Salvatoris et de septem dormientibus, et ista
» scripsit in Alcorano. Sed magister ipsius maior
» credo quod fuit dyabolus ». Pietro Ai.FONSO,
Dialogus, ediz. cit., nomina i giudei Abdia e
Cahbalahabar. Giov. Cantacuzeno imperatore di
Bisanzio (1292-1380) nel suo libro Contra maho-
metic. fidem (in BisLianDER, II, 60), ricorda il
V 5 UV Ss V % %
Google
IN OCCIDENTE 287
giacobita Baeura, nestoriano, che poi fu ucciso
da Maometto, e i giudei Phinees e Audio, che,
multato nome, fu da Maometto chiamato Andula,
e Salom che cognominò Persele. — È curioso
vedere che cosa questi varj nomi sieno diventati
nel Dittamondo, lib. V, c. 10. Seguo la ediz. di
Milano, Silvestri, 1826:
Li sette arabi e fidi amici d’esso,
(Di questi dicon che lo Spirto santo
Gli alluminava del suo lume stesso),
Li primi tre, alli qual dan più vanto,
Fur Naffeton, Achimar e Alchisar:
Gli altri seguir ciascun com’io tì canto.
Lo figliuol d’ Alchisar, io dico Assar,
Nomàr lo quarto: ancor similemente
Nomàr lo quinto Horam, e poi Omar.
È evidente che di Naphe e Eon si è fatto Naffe-
ton; Alchisar può essere Eleesar; Oram è Omra, ecc.
Fazio poi soggiunge:
In fra gli altri più grandi di sua gente
Furono poscia Abidola e Baora,
Adiam, Facem con la magica mente,
Abidola sarà Abdallah o Ubeidhallah; Baora,
Bahîrà; Adiam, Audia, e Facem forse Salem.
1159 « Fuit quidam clericus christianus, nomine Nicho-
» laus, qui ab Ecclesia romana magnam dixit se
recepisse injuriam, et de hoc desperatus, a fide
christiana recessit, et ultra mare vadens, sicut
homo subtilis et malitiosus, cogitavit qualiter
posset vivere, et ad aliquem stalum pervenire.
Erat enim homo subtilis ingenii et litteratus et
eloquens multum, et affabilis in aspectu, et in
moribus gratiosus.... Iste enim clericus supra-
dictus Nicholaus invenit sibi ad male operandum
socium a diabolo ministratum, scilicet hominem
Li
% % % VU % %“% % %
Google
288 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
» quemdam mercatorem et conductorem anima-
» lium, scilicet camelorum, qui vocabatur Macho-
» metus. Et iste Machometus conversabatur cum
» omnibus generaliter hominibus, propter mer-
» cantias, et cum Christianis et cum Judaeis, et
» cognoscebat mores et condietiones omnium de
» contrata illa. Modo sunt associati simul Nicho-
» laus clericus et Machometus, et associant sibi
» unum alium nomine Sergium, qui fuit monachus
» christianus etc. ».
120 Chronicon imaginis mundi, nei Monum. Hist. Scripto-
res, August. Taurinor., 1848, vol. III, pp. 1458 e sgg.
12! Uno dei testi più confusi parrebbe dover essere
quello che si intitola De vita Machometi (Bibl.
naz. di Parigi, 12582, fonds latins), a giudicarne
dal brano che ne riferisce il PRUTZ, op. cit., p. 517:
« Post aliquantum annorum spatium avunculum
» suum reliquens mercatoribus incepit servire,
» quorum bona ut alter Judas Scarioth ubi poterat,
» secreta surripuit, et licentiatus ab his, cuidam
» archidiacono de Antiocia et de secta Jacobi-
» tarum infecto servivit, et cum eo in Curia
» romana stetit ».
122 Ariano, e dall’ arianesimo derivante la sua dottrina,
lo eonsiderò più tardi Martin Lurkro. Nel suo
scritto Von den Conciliis parlando degli Ariani
aggiunge: « der Mahomet ist aus dieser secten
» kommen » (Sémmtl., W. Frankfurt u. Erlangen,
1883, XXV, 8354): e nell’altro scritto sul Sacra-
mento, ampliando, nota che parecchi storici fanno
derivare la dottrina di Maometto da quella degli
Ariani, Macedoniani e Nestoriani « in welchen er
» auch zeitlich nach von anfang gesteckt hat ».
(Ibid., 1842, XXXII, 417).
123 Abbiam visto che taluno lo fa monaco del mona-
stero di Callistrate in Costantinopoli: secondo
Google
IN OCCIDENTE 989
LupoLPHuSs DE SupHrkim (sec. XIV), sarebbe stato
benedettino : « Dyabulus, permittente Deo.... prius
» seduxil Sergium monachum, qui erat de ordine
» Benedicti, sed ejectus nropter eresim Nestorii,
» ut pro honoribus ecclesiasticis in romana curia
» laboraret » : De itinere Terre Sancte, in Archives
de l Orient latin, Paris, Leroux, 1884, t. II, P. 2a,
p. 305.
124 « Nestorius, proclamant que Marie n’a pas été la
» vraie méère de Jésus, était si bien d’ accord avec
» le Coran, qu'il était naturel que, dans beaucoup
» de récits, le moine chrétien, précepteur de
» Mahomet, s’ appellat Nestor. »: RENAN, op. cit.,
p. 213.
12 Che Niccolò fosse spagnuolo è detto esplicitamente
nel Livre des secrets aux philosophes della fine
del XIII secolo o dei principj del XIV, del quale
discorre dottamente il RenaNn nella Hist. Littér. de
la France, XXX, 567 e segg. Ivi si legge: « Sachiés
» que unes gens sont qui dient que ils ont loy,
» si comme Sarrazins, laquelle est assez nouvelle
au regard des aultres, car elle fut derraine
donnee. Et la enseigna ung tres grant clerc ou
despit des cretiens, et fut nommé Nicolas le
astronomien, lequel sceut merveilles de astro-
nomie et des planettes. Si fut longtemps com-
paignons a aulcuns disciples a Jhesucrist et
pareillement aux Romains, aux Hebrieux, aux
Gregois et aux Huns et autres nations. Il donna
icelle loy aux Sarrazins et se fist appeller sergant
de Dieu. Il fut natif d’ Espaigne, et est son
nom renommé entre tous Sarraxins, qui l’ ap-
pellent Machomet. Et est son ymage a la Mecque
» et autre part, haultement aounoré de tous ceulx
» qui tiennent icelle loy » (ibîd., p. 584). È curioso
il notare che se, secondo questa tradizione, il
VU I V VV %V * % XY %
D'AncoNA - Il 19
Google
290 L.A LEGGENDA DI MAOMETTO
male venne di Spagna, di Spagna similmente,
secondo un’ altra tradizione, verrà il rimedio.
Nella cronica di un Canonico della chiesa di
S. Martino di Tours si dice all'anno 1281 che
Pelagio, legato apostolico all’ assedio di Damiata,
animava i cristiani all’ impresa in virtù di una
singolare profezia: « Movebat eam precipue Liber
» quidam ab ipso inter manubias hostium reper-
» tus, in quo continebatur quod lex Machometi
sexcentis annis tantummodo duraret, menseque
Junio expiraret, et quod de Hyspaniis veniret
qui eam penitus aboleret, et ideo legatus, qui
» de Hyspaniis nalus erat, illum librum verissi-
» mum asserebat » (Monum. German. hist., XXVI,
468). E a queste profezie si allude anche nel Liber
bellorum domini della fine del sec. XIV, pubbli-
cato negli Arch. de l’ Orient lat., I, 303.
126 Il solo però che lo faccia di casa Colonna, è, come
vedemmo, il primo rifacitore metrico del Tesoro:
il secondo segue altro testo o altra tradizione.
127 Se dovesse accogliersi l’ opinione di parecchi antichi
commentatori, nella D. C. vi sarebbe una allu-
sione a Maometto nel drago, uscito di sotto terra,
che ficcando la coda nel mistico carro della
Chiesa, ne trae via il fondo (Purg., XXXII, 130).
Il Derua LANA: « Lo drago che uscì dalla terra
» fra due ruote, significa Maometto, il quale ne
» portò a sua legge grande parte dei fideli della
» Chiesa, e picciola parte ne rimase al carro ».
Altrettanto affermano le Chkiose e Benvenuto da
Imola. Altri ci vedono l'eresia in generale, o
anche, individuandola in un qualche grande ere-
tico, Ario ovvero Fozio. Meglio è vedervi il diavolo,
considerato quale principe di ogni terrena cupi-
digia, che, con sue arti, toglie alla Chiesa il fon-
damento primitivo e saldo, della unità e del
% % Y%
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IN OCCIDENTK 901
dispregio dei beni mondani. Se con cotesti commen-
tatori il fondo dovesse interpretarsi materialmente
per « parte di fedeli », ben si potrebbe contendere
se più ne tolsero Ario o Fozio; ma, secondo le
idee dei tempi di Dante, nulla vieterebbe che,
per quel che abbiamo discorso, vi si scorgesse
simboleggiato il fondatore dell’ islamismo.
128 Chiose anonime alla prima Cantica, pubblicate da
Fr. Selmi, Torino, St. Reale, 1865, p. 150.
12° Ediz. Vernon, Firenze, Baracchi, 1848, p. 197.
130 Ediz. Vernon, Firenze, Piatti, 1846, p. 227.
131 Ediz. Scarabelli, Bologna, Romagnoli, 1886, I, p. 144.
132 Ediz. Torri, Pisa, Capurro, 1827, I, p. 481.
133 Ediz. Vernon, Firenze, Barbéèra, 1887, II, p. 352.
Nel Liber Augustalis (in PeTrRARCHA*, Opera, Ba-
silaee, 1581, p. 525) Benvenuto dice di Maometto
sol questo: « Quo tempore Mahometus pestilen-
» tissimus draco in Arabia fecit sectam suam, ab
» Oriente in Occidentem venenum suum dissemi-
» nans, cum pessima desolatione fidei christianae ».
134 Ediz. Vernon, Florentiae, Piatti, 1845, p. 246.
135 Ediz. Fanfani, Bologna, Romagnoli, 1866, I. p. 508.
136 Cron., lib. II, c. 8. — Il passo del VILLANI, come
anche quelli dei Commentatori danteschi e delle
Giunte italiane al Tesoro, nonchè il Liber Nicolay,
sono per intero riprodotti in Appendice alla Me-
moria Il Tesoro di B. L. versificato nel vol. IV,
ser. IV, p. 1* delle pubblicazioni dell’Accad. dei
Lincei. j
137 Ediz. Giannini, Pisa, 1858, I, 720.
138 Ediz. Zaccheroni, Marsilia, 1888, p. 635.
139 Venezia, Sessa, 1596, p. 138.
140 Certi commentatori anche più recenti si mostrano
non meno ignoranti degli antichi, illustrando il
noto passo dell’ Inferno. Fra questi, il p. VENTURI,
nelle sue Ckiose ritoccale da A. M. RoBioLa (Torino,
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290 LA LEGGENDA DI MAOMETTO
Pomba, 1836), ove egli è detto « mostro vilissimo
» di condizione, apostata della Santa Fede ».
{41 Già nel lib. II, cap. XVII, si legge:
Monaco Sergio doloroso e tristo
Visse in quel tempo, e surse Macometto
Che profeta s’ infinse al mal acquisto.
4? Dittamondo, ediz. Silvestri, p. 398. Le ediz. di Vicenza
1474 e Venezia 1501 leggono: E! disperato et del
papa canonico. Il cod. marciano IX, 4l, per me
consultato dal fu Prefetto della Biblioteca, pro-
fessor C. Castellani, legge pure a cotesto modo;
ma il IX, 40, come l’ediz. Silvestri. Dei codd.
fiorentini, che sono stati per me consultati dal
dott. S. Morpurgo, leggono come le stampe antiche
l’ asburnamiano 1694 e il magliabech. II, II, 57:
lo disperato del, il riccard. 2718 e il 27%, il
palat. 339, i laurenz. pl. 90 infr. 32, pl. 90 inf. 40,
pl. 41, 19, pl. 41, 23 e il laurenz. strozz. 148. Come
Il’ ediz. Silvestri leggono il riccard. 2717, il lau-
renz. pi. 90 inf. 37, pl. 90 inf. 31 e l’asburn. 1695.
Il cod. marciano IX, 40 ha la seguente chiosa di
GuaLizi.mo CAPELLO, gentilmente comunicatami
dal prefetto Castellani: « Sergio monaco el quale
qui l’autore nomina, fu homo di grande ingegno
a tempo di Bonifacio V e di Eraclio imperatore
nell’ anni di Cristo CCCXIII, et essendo nesto-
riano, cioè che seguendo l’ opinione di Nestorio
vescovo di Costantinopoli, la quale era che la
vergine Maria parturì Cristo puro homo senza
divinità, nel concilio di Nicena in Bithinia, ove
fu più che CCCC vescovi, disputando e defen-
sando erroneamente la ditta opinione, fu cac-
ciato via et scomunicato, et andò in Arabia ove
trovò Machometto, homo di vile natura et pronto
et audace ad ogni gran male, et pratico et dotto
in la Scrittura santa, come homo che havea
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IN OCCIDENTE 293
conversato cum Cristiani et cum Saraceni va-
lenti, come l’autore dice, et con lui contratta
stretta dimestichezza, con lo suo stolto proposto
Jo fe ex stulto insanum, et mostrolli la via de
subdir quelli sciocchi populi et sottoporre a una
nova fede, et amaestrò una columba, che non
beccava se non in orechia di Machumetto, et
diceva che |’ Angelo Gabriele la mandava da
lui ad amaestrarlo da parte de Dio de quello
che havesse a fare, e tolse presso a se Sergio
molti altri, i quali erano de simel vita a com-
porre un libro che se contenea la lege di Macho-
meto, et quest.» è chiamato la Scala, le Legi e
li meriti ». E più oltre: « Havendo Machometto
col consiglio di Sergio cum la columba inganati
et sottoposti li populi de Arabia, i quali per lo
passato tempo erano continuamente stati in
guerra cum Persiani, per consiglio di Sergio
domesticò uno toro, in modo che non se pascea
se non per le sue mani, et però quando ello
odeva la voce di Machometto subito correva a
trovarlo; et quando fu ben domestico, Sergio
li ligava a le corna alcuni brevicegli, in li quali
erano scripte le lege che lui voleva che fusseno
observate dal populo, cioè che non osasse man-
giare carne porcina ecc. Poi Machometo parlava.
alto per essere olduto dal toro, el quale presto
arivava da lui, e arivato disoglieva li brevi, et
chiamato a la sua presentia lo populo, diceva
che Dio padre l’ aveva mandato le legi, le quali
voleva che fussero observate: poi veniva lo
ditto toro con altri brevi, ove si conteneva che
si dovesse cavare in certi luoghi, nei quali si
trovarebe latte et melle, et così faceva cavare
e trovava alcune pitare piene di latte et di mele,
che lui in quegli luoghi aveva fatto sotterrare.
Con queste medesime cedole portate dal toro,
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294
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
condusse gli Arabi addosso ai Persi, et con
forza et cum religione li condusse alle sue
legge; con queste ancora condusse i popoli ad
observantia di molte cose, com’ è di orare cinque
volte el dì verso mezzodì per esser diverso
» da’ Judei che orano verso ponente tre volte al
» dì, e da’ Cristiani che orano più volte el dì
» verso oriente, e di adorare Venere, che prima in
> Arabia s’adorava Marte et Saturno, et di andare
» una volta l’anno a la Mech ecc. ». Ma nulla si
dice intorno agli altri due compagni di Maometto,
menzionati da Fazio.
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43 Anche LupoLro pi SupHEIM, loc. cit.. adopera la
stessa locuzione: « Cum igitur quod voluit obti-
» nere nequiret, desperatus abiit (Sergius) in Ara-
» bia ad Agarenos ».
144 Fra gli scrittori del secolo XIV si potrebbe citare
AnpREA Danpoto (m. 1354) come ha fatto il PRUTZ,
p. 81. Ma la colomba e Sergio ed altri particolari
già si trovano in scritture più antiche della Cro-
naca del veneziano (Rer. ital., XII, 114), e per ciò
anche di quella di Marin Sanupo (1306-1334).
Ricorda queste fiabe anche l’autore della Cronica
che fa seguito al Lucano volgarizzato (codice
riccard. 1550) parlando del « malvagio profeta »
che prima « era monaco € chiamavasi Nicolao »:
v. Amari, Narrazioni ecc., p. XXVIII; invece
l'autore della Cronaca degli imperat. rom., che
it Ceruti trasse da un cod. ambrosiano (Bologna,
Romagnoli, 1878, p. 90) ricorda Sergio apostata
che « vegniva informando (Maometto) per inganar
» el puovol cristiano ». — Alcune citazioni di
passi di storici del sec. XV e XVI faranno vedere
quanto ancora incerte e contradditorie fossero le
notizie intorno a Maometto e alla religione da lui
fondata. FLavio Bionno (1388-1463) nella Hist. ab
inclinat. romanor., Basilea, 1569, p. 129, così
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IN OCCIDENTE 295
scrive: « Machometus quidam, ut aliqui Arabs,
ut alii volunt Persa, fuit nobili ortus parente
deos gentium adorante, sed matrem hebraicae
gentis habuit ismaelitam, ex duabus hujusmodi
omnino sibi in vicem adversantibus supersti-
tionum sectis originem trahens, nulli earum
omnino adhaesit, sed.... ex duarum hujusmodi
gentium legibus conflavit incendium.... » Pom-
PoNIO Leto (1428-1498) consacra nel suo Compend.
hist. roman. un intero capitolo a Maometto, e
codesto capitolo fu anche stampato a parte col
titolo: De exortu Machumeti. Citiamo la tradu-
zione del Compendio fatta dal Baldelli, secondo
l’ ediz. di Venezia, Giolito, 1549, p. 93. « Maumet »,
ei dice, nacque di parenti « vili e di bassissima
» condizione: dicesi ch’ egli fu preso dagli Sceniti,
» i quali usavano di vivere secondo il costume
» de’ popoli di Numidia, e ch'e’ fu poscia ven-
» duto ». Lo comprò Adimoneple ricco mercante
ismaelita, tenendoselo come figliuolo. « Divenuto
in età di giovinezza, egli ebbe dal padrone il
maneggio delle mercantie, et essendo d’ ingegno
molto risvegliato e potente, et avendo avuto
pratica co’ Cristiani, co’ Giudei e con altre
nationi, et essendo molto diligente in accrescere
i guadagni, venne primieramente molto caro e
grato al suo padrone, quindi venne in contezza
di assaissime persone. Si trovava in que’ tempi
nelle parti dell’ Arabia un monaco detto Sergio:
era questo fuggito di Costantinopoli e venuto
in questi paesi, avendo paura di non ricevere
punitione della scelerata opinione ch’ egli aveva
d’ intorno alle cose della fede, et usava spesse
fiate di praticare in casa di Adimoneple, et
faceva quivi molti favori a Maometto. Et avendo
trovato a punto nel giovane un’agevolezza a
suo modo, et una prontezza quale e’ desiderava,
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> di base °OnQItIO, > Stang ir'adagnare |)
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IN OCCIDENTE 997
» masco, e poi voltò le armi contro i Persi,
» accostandosi agli Sceniti arabi, ribelli all’ im-
» perio, ecc. ». Anche il noto predicatore fra
RoBERTO DA Lecck (1425-1495) narrando nel suo
Specchio della Fede (Venezia, 1517) I’ ascensione
al cielo di Maometto, ricorda la cooperazione del
monaco Sergio e di un giudeo nella compilazione
del Corano (v. De FaBRIZzIo, Il Mirac. di M., in
Gior. St. Lett. Ital, XLIX (1907) p. 299; ed anche
il CoLuenuccio nella sua Storia di Napoli ricorda,
come avverte il GRAF (loc. cit., p. 210), gli ammae-
stramenti dell’ eretico Sergio e afferma la fede
musulmana essere un misto di giudaismo e cri-
stianesimo e delle « opinioni di tutte le heresie, »
facendo precedere a ciò un racconto, del quale
altrove non si trova traccia, e secondo il quale
i Saraceni avrebbero ajutato Eraclio nella guerra
contro Cosroè, ma avendo il tesoriere dell’ impe-
ratore negato ad essi danari, e trattatili « da
» cani », si ribellarono facendo loro capo Mao-
metto, che per meglio ottenere il suo intento, con-
giunse la religione colla forza, dando ad essi una
fede nuova. Finalmente, il SaBELLIcO (1463-1506),
nelle Enneades, Basileae, 1509, II, 532, narra
anch’ egli la solita genealogia da padre idolatra
e madre ismaelita « et ob id hebraicae legis non
» ignara ». « Quidam sunt », ei soggiunge, « qui
» eum ismaelitam memorent, sordido loco natum,
» puerilibus annis furaci quaestu vicium illi
» quaesitum, locandis conducendisque camelis ad
deportandas merces, inde adultum latrocinium
exercuisse comparataque latronum manu, uno
atque altero facinore illustratum, viduae mulieris
nuptias sibi conciliasse, per quam grandem
pecuniam et castella quaedam consecutus, ani-
mum ad majora extulerit ». Nel comporre la
sua legge: « a Sergio quodam nestorianae impie-
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284)
4145 È
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
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tatis viro, est praecipue adjutus. Egerat is
monasticam, caeterum quum nullius esset inter
suos dignationis, praesentem vitae statum per-
taesus, Byzantio profectus, ad Mahometum,
cujus nomen jam celebrem erat, homo transfuga
se contulit. Hujus igitur ‘ consilio usus legem
proposuit, quae ut popularia esset, ex omnium
gentium sectis aliquid assumpsit. Et Christiani
nominis multitudini per baec blanditus, a Sergio
voluit baptizari, inde ad aliorum studia conci-
lianda, cum Sabellianis negare trinitatem, cum
Manichaeis binarium in divinis numerum po-
nere; negare aequalitatem patris et filii cum
Eunomio, Spiritum Sanctum creatorem dicere
cum Macedonio, cum Nicolaitis multitudinem
uxorum probare, et ut Judaeis aliquid daretur,
» circumcisionem et baptismum simul predicare ».
A tutti questi autori insieme attinge Pier Messia
nella sua nota e più volte stampata Selva di varie
Lettioni (Venezia, Prodocimo, 1684, p. 20).
noto che presso il volgo si era formata una triade
di Maometto, Apollino e Tervigante (quasi con-
trapposto alla triade cristiana), che si trovano
insieme ricordati presso i poeti e romanzieri fran-
cesi ed italiani del medio evo e del risorgimento.
E come si credeva che i Saraceni credessero ad
Apollino o Apollo, così credevasi che i Pagani
avessero avuto per loro iddio Maometto. Fra i
tanti esempj cito questi del Mystère de la Passion
di ARNOUL GREBAN, ediz. Paris et Rainaud, Paris,
Vieweg, 1878. Erode esclama: Mahoumet, mon dieu
infini (v. 6085). Un sacerdote egiziano: Il n’Y ara
dieu ne deesse Qui n’ aist sacrifice plainier: Maho-
met sera le premier (v. 7482). E nel Miracle de
S. Ignace (Mir. N. Dame, IV, 90) il martire perse-
guitato da Trajano esclama: J'ai moult a souffrir
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IN OCCIDENTE 999
Parce que ne me vueil offrir A Mahon croire. Per-
fino Clodoveo nel Miracle che da lui s'intitola è
rappresentato come adoratore di Maometto (Ibid.,
VII, 195-272). S'ignora l’origine e il valore del
nome T'ervigante e ne fu disputato presso l’ Aca-
démie des Inscriptions etc. nel 1888: v. V. CHAUVIN,
op. cit. p. 223. Su certe tradizioni intorno a Mao-
metto e ai Saracini, viventi ancora nel Belgio,
vedi un articolo del sig. GITTÉE, Les mahométans
dans le folk-lore belge, nel giornale Le Moyen Age,
vol. I, n. 243.
146 Nella tradizione popolare siciliana resta tuttavia
memoria di Maometto come di un diavolo. Si rac-
conta infatti che alla venuta di Cristo fu gran
tumulto in inferno, temendo che venissero a man-
care le anime. Ma Farfarello disse: lasciate fare a
me « Aviti a sapiri ca haju uu frati ca si chiama
» Maumettu, ca stà ’nta iu mundu suttanu, ca è
» veru abilitusu ed è ’na pena ca nun l’avemu
cca cu nui, cà nni darìa veru ajutu. Eu, si tantu
Lucifaru voli, lo vaju a chiamu, e lu mannamu
a lu munnu, e po’ peuza iddu a tutti così, ca
» l’armu ci abbasta: ma cu pattu ca subbito chi
» torna l’avemu a situari ccà cu nui, cu aviri tutta
» la putenza chi avemu nui ». Il consiglio è accet-
tato: Maometto è mandalo in terra, guasta la legge
di Dio, e fa buona raccolta d’anime per l'inferno,
dove, lasciati suoi ministri nel mondo, torna a
martoriare i dannati con Farfarello e Lucifero:
vedi PITRÈ, Fiabe, Nov. e Racc. popol. sicîl., Palermo,
Pedone, 1855 IV, 20; e cfr. con Usi e Costumi del
pop. sicil., IV, 68, del medesimo autore (Palermo,
Pedone, 1889).
147 Circa la metà del sec. XVII il QuaREsmIUs non
sapeva ancora quale delle tante versioni accettare
per vera: « Alii tamen dicunt, suae eum legis
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30)
LA LEGGENDA DI MAOMETTO
magistrum habuisse monachum quemdam, no-
mine Sergium, haeresi Nestorii infectum, qui
eam ob causam monagsterio ejectus, Arabiam
adierit, et Mahometli adhaeserit, quem Mahometes
clanculum secum retinens, quaecumque ab eo
promulganda accipiebat, ab angelo Gabriele sibi
tradita fuisse mentiebatur. Et quia nestoria-
norum errores sunt mahometanis communes,
ideo dicunt reliquae Orientis nationes, Nesto-
rianos magis ab illis diligi. Non impossibiliter
alii dicunt, fuisse Mahometis magistrum archi-
diaconum quemdam Jacobitam, in partibus An-
tiochiae habitantem: Jacobitae enim praedicant
cirecumcisionem, Christlum ex Spirito sancto con-
ceptum et Virgine natum, sanctum et justum.
sed Deum negant: quae omnia confitetur et prae-
dicat Mahometes: mortem vero Christi negant,
alterumque ejus loco fuisse crocifixum, et ipsum
in coelum ascendisse etc. ».
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48 G. E. LEwks, Vita di G., trad. ital., Milano, Dumo-
lard, 1889, p. 201.
149 Memorie di uomini illustri di Casalmaggiore, Casal-
maggiore, Bizzarri, 1830, p. 574.
150 Però, un Sergio monaco dei tempi di Maometto, che
dimorò in Nirba « Beth-Gazae in cellis, quas Beth-
« Ainata apellant », e scrisse un libro, dal cui
titolo gli venne il soprannome di « Subversor, vel
« Destructor Potentium >», è ricordato nella Hist.
Monast. di Tommaso Margense (vedi ASSEMANI,
Op. cit., III, 440).
1 Anche più tardi, senza far a Maometto nessun me-
rito dell’aver ridotto un popolo dall’ idolatria al
monoteismo, gli scrittori ecclesiastici in specie,
come anche il volgo al dì d’oggi, attribuiscono i
progressi del maomettismo alla sola indulgenza
verso le passioni carnali. Il QuARESsMiUs fra tanti:
» Nec mirandum est, brevi multos eum (Maho-
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IN OCCIDENTE 301
» metum) progressus fecisse, quoniam carnalem
» plane legem suis sectatoribus praescribit, ad
» quem nimirum animalis homo pronus est ab
» adolescentia sua (Op. cît., 1, 129) ».
152 Del resto, per le incertezze e diversità che si notano
negli autori arabi circa la genealogia di Maometto
e le generazioni che stanno fra Abramo e lui, vedi
ASSEMANI, Op. cîit., III, 2, p. 573-9.
153 Fra gli altri S. Pascasio, Op. cit., p. 106, secondo il
quale al fatto serve di conferma il consiglio che
Bahîrà aveva dato allo zio di Maometto, di guar-
darlo sopratutto dai Giudei: « et praedictus Baira
vel Babiria est apud Mauros in magna reverentia,
quia hoc Mahometo prophetizavil ».
154 Gli storici ammettono che fu fatto su di lui un ten-
tativo di avvelenamento da una donna giudea in
un arrosto di montone: vedi CAUSSIN DE PERCEVAL,
Op. cit., 1II, 200. Questo tentativo, che risale a
quattro anni innanzi }a sua morte, forse soltanto
glie la preparò: vedi BARTHÉELEMY SAINT-HiLAIRF,
Op. cit., p. 144.
{55 Parecchi autori narrano che questo agnello lo am-
monisse miracolosamente di non mangiare di lui:
« Agnus autem ei locutus est dicens, cave ne me
» sumas, quia in me habeo venenum »: Jac. A
VARAG. -- « Et agnus locutus est Machometo dicens:
Non me comedas, quia in me est venenum »: Jac.
AB Aquir. Vedi per le tradizioni arabe in tal pro-
posito, LamaiRESsE e Dusarric cit. II, 164.
log Forse Ì in questo particolare c’ è qualche reminiscenza
di alcune morti per secessum attribuite ad insigni
nemici del cristianesimo. Si sa che quando Giuda
s’impiccò, l’anima non poteva esalarsi per la bocca
qui toucha a cose tant digne (vedi GrEBAN, Myst.
de la Passion, p. 288), com’era la bocca del Mae-
stro. Di Ario, sommo eretico, è comune credenza
che, nel giorno stesso della sua vittoria e del
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I.\ LEGGENDA DI MAOMETTO
suo trionfo « movendoglisi una necessità naturale
« del corpo... mentre in quell’atto era occupato,
» morisse subitamente con una terribil sorte di
» morte, tramandando dalla via commune delle
» feccie, tutti gli intestini, fegato, milza, sangue
» e l’anima stessa con le lordure del corpo (BER-
» NINO, Hist. di tutte l’eresie, Venezia, Baglioni,
» 1711, I, 241)». Vedi in proposito, RosiÈRESs, nella
Rev.a.tradit. popul., IV, 97-102. Di Anastasio papa
« lo qual trasse Fotin dalla via dritta » è pur narrato
che « andato al segreto luogo dove le superfluità
» del ventre si dipongono, per divino giudicio,
» siccome per lutti universalmente si credette, per
» le parti inferiori gittò e mandò fuori dal corpo
» tutte le interiora e così miseramente nel luogo
» medesimo spirò »: Boccaccio, Comm., II, 46.
(5? « Contigit igitur quadam die, quod crapulatus epulis
» et vino, quibus sicut praedicabat faciendis
» maxime intendebat, cecidit super sterquilinium,
» morbo suo compellente, et, ut dicitur, veneno
» sibi in cibo illa die dato cooperante per quosdam
» nobiles, qui superbia ejus invidebant. Torque-
» baturigitur volutans et spumans, omni sociorum
» solatio, peccatis suis exigentibus, tunc forte de-
» stitutus. Quem cum sus quaedam improba, por-
» cellos habens nondum ablactatos, semivivum
» comperisset, refectumque cibariis, quorum nido-
» rem exhalavit, et nausea partim emisisset, suf-
» focavit »: p. 236.
1538 Versi 2590-91.
59 A proposito di statue di Maometto, è da ricordare
che secondo Turpino (ediz. Gastets, p. 8-9), il
Mousger ed altri poeti e viaggiatori, una se ne tro-
vava in Spagna sulla riva del mare a Gade, ado-
rata dai musulmani, che credevano non perirebbe
se non quando un Re di Spagna conquisterebbe
la penisola. Il sig. R. Basset (Hercule et M., in
Google
IN OCCIDENTE 303
Jour. des Savants, luglio 1903) dimostra che la sta-
tua era di Ercole, che poi essa divenne l’ imma-
gine di un eroe misterioso e infine di Maometto.
Essa cadde verso il 1009, e verso il 1145 fu distrutta
sperando di trovarvi entro un tesoro.
160 Secondo S. Eulogio (m. 859), Apologet. Martyr. (in
Max. Patr. Bibl., Lugduni, 1777, XV, 289), gli ani-
mali che si cibarono del corpo di Maometto sareb-
ber stati cani: laonde «i musulmani, per vendetta,
» risolvettero di uccidere ogni anno gran numero
» di cotesti animali ». Il dotto orientalista Dozy,
Hist.d. Musulm. d’Esp., Leyde, Brill, 1861, II, 106,
osserva però che gli spagnuoli cristiani di codesto
tempo (sec. IX) per odio contro gli arabi, nega-
vano quasi a se stessi di conoscere la verità intorno
alla religione dei loro dominatori. « Vivant au
milieu des Arabes, rien ne leur eft été plus
facile que de 8’ instruire à ce sujet: mais refu-
sant obstinément de puiser aux sources qui se
trouvaient à leur portée, il se plaisaient à croire
et à répéter toutes les fables absurdes que l’on
débitait ailleurs sur le prophéète de la Mecque.
Ce n’est pas dans les écrits arabes qu’ Euloge,
un des prétres les plus instruits de cette époque
et sans doute assez familiarisé avec l’ arabe
pour pouvoir lire couramment un ouvrage histo-
rique écrit dans cette langue, dat puiser des
renseignements sur la vie de Mahomet: au con-
traire, c’ est dans un manuscrit latin que le
hasard lui fait tomber sous les mains dans un
cloître de Pampelune ». S. Eulogio invero dice
di giovarsi di un libro ivi da lui trovato apud
Legerensem coenobium. Anche S. Pikr Pascasio,
Op. cit., p. 87, fa divorare Maometto dai porci,
ma dopo che i Giudei lo avevano ucciso: « et Ju-
» daei dicunt quod hac de causa, Mauri valde Ju-
» daeos persequuntur et porcos ». Ma LupoLPHUS
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304
IA I1LEUGENDA DI MAOMETTO
DE SUDHEIM, loc. cit., invece di cani ricorda lupi:
» a propria uxore intoxicatus fuit: de quo veneno
» cum esset solur in deserto... solus cecidit et
» periit. Cujus corpus a lupis et bestiis devoratum
» fuit. Legitur tamen alibi quod ipsum porci sil-
» vestres devoraverunt: quod potuit religi de reli-
» quiis. que lupi reliquerunt, nihilque inventus
» fuit, nisi vestes ».
i! Traggo queste citazioni dall'opera del dr. RicHARD
ScHRODER. Glaube u. Aberglaube in d. alfranzò-
sisch. Dichtung, Erlangen, Deichert, 1886, dove al
$ XII sono raccolti e ordinati tutti i passi dei poeti
francesi antichi che sì riferiscono a Maometto.
Per i passi delle Chansons de geste veggasi anche
V. ChÙauvin, op. cit., p. 217 e segg. Aggiungasi
la menzione che di tal morte di Maometto si trova
nel romanzo in prosa di Ogier le Damnmnoys, rife-
rita da R. RENIGR, in G. St. Lett. Ital.. XVII, 444.
Notisi, poichè altrove non lo abbiam fatto, che in
questa forma della Leggenda, Maometto si pre-
senta al Papa, lo affida di una larga conversione
di pagani al cristianesimo, raggiunge l’ intento,
ma quando torna a Roma per ottenere la promessa
ricompensa, gli si risponde che quei paesi da lui
convertiti costituirebbero un grande impero, e gli
se ne darebbe solo una parte. Allora Maometto si
separa sdegnato dal Papa, e tornato ai suoi, si fa
adorare egli come Dio.
102 Op. cit., p. 130.
163 Parecchi scrittori accennano alle cause per le quali
Maometto insegnò a dispregiare il porco. Fazio le
espone così:
Ma quel che per più ver tra lor si pone,
È ciò che in la sua legge seritto è
AI libro u’ tratta de generatione,
Che essendo dentro all’ arca sna Noè
Là dallo sterco del leofante nacque
Il porco, il quale appresso il topo fà.
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IN OCCIDENTE 305
E perchè il topo nato non si tacque
Di roder l’ asse, e l’ avea quasi fratta,
Noè temendo non passasser |’ acque,
Come gl’ impose Dio, corse di tratta
Allo leone, e quel percosse in fronte
E dalle nari fuor venne una gatta.
Or per queste parole ch’io t’ ho conte,
A dispregiare il porco e nol volere
Le genti saracine sono pronte.
Nulla di ciò è nel Corano. Ma la novelletta si trova,
come vedemmo in JacoPo DA VARAGINE, e poi nel
Liber de temporibus, in FRA Ricorno, ediz. cit.,
p. 128, in Jacopo pa VITRY, ediz. cîit., p. 1056, in
M. SANUTO, Liber secr. fidel. crucis, Hanoviae, 1611,
p. 123 etc. JACOPO DA AQUI vi accenna fuggevol-
mente. E vive ancora fra le genti musulmane:
infatti il sig. Basset la raccolse fra i Berberi, ove
è così raccontata. Quando l’arca fu costruita, il
cinghiale ne rompeva le assi colle sue zanne. Noè
vi pose riparo, e dalla sua mano, ferita in siffatto
lavoro, sgorgarono alcune gocce di sangue, ch’ei
ricoprì di terra. Da queste, riscaldate dai raggi
del sole, nacque il leone, che si gettò sul cinghiale
e lo mangiò. Ma da uno starnuto del cinghiale era
nato un topo, e da quello del leone un gatto : perciò
i leoni mangiano i cinghiali e i gatti i topi: vedi
Contes popul. berbères, Paris, Leroux, 1887, p. 25.
164 Anche alcuni antichi autori vi accennano; fra questi
S. Pier Pascasio, p. 43, il quale dopo aver rife-
rito che Axa, moglie di Maometto, lo avvelenò
per accertarsi se fosse vero o falso profeta, sog-
giunge: « In Maurorum libris scriptum est, quod
Axa... dixit quod, quando Mahometus in mortis
angustia erat, petit ab illa vas aquae, et manu
propria faciam suam lavit, et postea aquam super
se effudit. Et hac de causa, aliqui Christianorum
dixerunt quod hoc Mahometus fecit ad osten-
dendum, in eo quo potuit modo in baptismo
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D’ ANCONA - II 20
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306
LA LEGGENDA DI MAOMETTO IN OCCIDENTE
> esse salutem animarum, sicuti christiani dicunt
» et faciunt. Sed daemones quibus obeedivit et
» servivit, illi non dederunt locum, ut hoc ore pro-
» prio declararet, diceret el confiteretur ». V. an-
che CameRrARIUS, I, III, 1, cit. in BAYLE, Dictionn.
Del resto, il fondamento di fatto di questa fiaba
del battesimo di Maometto, toltane la conseguenza
aggiunta dalla tradizione crisliana, èammesso dagli
scrittori musulmani; « On rapporte que Mahomet
» (morente) avait auprès de lui un vase d’eau, dans
» lequel il trempait de temps en temps le mains pour
» se rafraîchir »: ReinAUD, artic. Mahomet, della
Nuov. Biograph. génér. del Didot, XXXII, p. 813.
16 Vedi LamaiRESSE e DesaRRic, Vie de M., cit. IL, p. 311.
16 De CASTRIES, L'Islam, Paris, 1896; Z1OLECKI, Roman
de M., vers. 1901, del quale riferiamo il passo.
En la terre ne l’ osent metre,
{. linsiel de fier forgier font,
Le cors Mahom coucher i font;
Une maisonnette voltee
Font d’ aymant si compassée
K'° en mi liu ont le cors laissie,
Ni a rien ne l’ont atachie,
En l’ air sans nul loien se tient,
Mais li aymans le soustien,
Par sa nature seulement
De toute partie ingaument.
Nequedent n’i atouche mie
Sa gens, n’a talent ki l° otrie
Ains dit que Mahons par miracle
Se soustient en son abitacle.
Vedi anche DoutT£ cit. p. 12; e R. OTTO, M. in
d. Anschauung d. Mittelalt., in Mod. Lang. Notes,
1889, 25, 1889, n. 1-2.
167 Du MéRIt, Poés. popul. latin. du M. A., Paris, 1847,
p. 415.
16 Nella descrizione di Palermo, pubbl. dall’ Amari in
Journ. Asiat.., ser. IV, vol. V, p. 92.
69 Paradiso, XXXI, p. 35.
e
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AGGIUNTE E CORREZIONI
PARTE I
Pag. 96, lin. 9: su e sue corr. su le sue.
Pag.
195, » terz’ultima: o dicevano corr. lo dicevano.
220, » 15-17: se sufficiente a quanto ne abbiamo
riferito non ci fosse parso mostrare
corr. se quanto ne abbiamo riferito
non ci fosse parso sufficiente a mostrare
295, » 26: sottil differenza corr. più sottil diffe-
renza
260, » 32: inclusivo corr. inclusive
265, nota 76: Vigo, 1878 corr. Giusti, 1906
PaRtE II
10, lin. 1: del secolo decimoterzo aggiungi e del-
antecedente
130: Aggiungasi circa la novella dei tre anelli, il
bel saggio di G. PARIS (La poésie du
Moyen Age, 2° série, Paris, Hachette,
1895, p. 131): La Parabole des trois
anneaux.
181, lin. 7: verbi corr. verbis
992, >» 29: un mercante e un conduttore di cam»
melli corr. un mercante e cond. dicam.
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308 AGGIUNTE E CORREZIONI
Pag. 244, nota 10: Tardi è giunto a mia notizia e sì
da potermene giovare, uno scritto del
sig. P. ALPHANDERY, Mahomet Anti-
christ dans le Moyen-dge latin, inserito
nei Mélanges Hartwig Derenbourg.
Paris, Leroux, 1909, p. 261.
» 283: Si sopprimano dalla lin. 3 alla 5 le parole
dopo Magumet ponebat sino al secondo
Magumeth ponebat.
» 299, nota 145, lin. 3. Si aggiunga dopo 33: Nei
Mélunges Dereunbourg è da vedere una
Memoria di P. Casanova, Mahomet,
Jupin, Apollon, Tervigant, dieux des
Arabes.
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INDICE
PARTE PRIMA
I. - Il concetto dell’ unità politica nei poeti
Mallanl'soruih dea Len pra Pag. 1
Nole. 6Ri esente » 55
II. - Letteratura civile dei tempi di Carlo Ema-
Muele:lt: «asse sa ica e Cee » 101
NO[:sie pace ar ue.» 139
III. - Cecco Angiolieri da Siena, poeta umorista
del secolo decimoterzo
PARTE SECONDA
IV. - Del « Novellino » e delle sue fonti . .. Pag. 1
NOI: wait rn eri » 53
V. - La leggenda di Maometto in Occidente . » 165
Noesis dhe bel be e » 9243
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Finito di stampare
il XX gennaio MCMXII
nella Tipografia di Paolo Nerî
in Bologna
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